Frammenti di memoria dall’Oriente
Narrazioni in forma di diario o di fiction dai padiglioni asiatici della Biennale. Flussi cibernetici e giochi di prestigio fra allucinazione e tragedia
di Arianna Di Genova (il manifesto, 10.06.2007)
Se l’occidente è attanagliato da un claustrofobico senso di decadenza che lo spinge a raccontare frammenti di realtà, storie, favole, prima che sia troppo tardi, anche il grande mosaico dell’umanità asiatica non sceglie vie di fuga e si impegna nella medesima direzione. Così, in questa edizione della Biennale, costellata di umori necrofili (l’invasione di teschi) e imbevuta di sdoppiamenti di identità (gli specchi e i labirinti, strumenti privilegiati di rappresentazione da molti artisti presenti), il visitatore non può fare a meno di avvertire l’urgenza di una affabulazione che attraversa l’intero globo, da est a ovest e ritorno.
Narrare, spesso su un registro parallelo di parola e immagine, in forma diaristica oppure di fiction, sembra essere l’unica possibilità consentita a una comunità umana che, nel XXI secolo, vive sporgendosi sull’orlo del baratro. Gli artisti thailandesi lanciano il loro «memento mori». La globalizzazione macina vite e costringe a una progressiva sparizione della consapevolezza. Bisogna invertire la marcia e procedere lentamente. Gli abitanti del loro padiglione sono fantasmi che si confrontano con la natura effimera e immutabile della sabbia, dell’acqua, del nulla. Ogni elemento del mondo terreno «parla» se ascoltato. Non importa poi, se i brani esistenziali che si cuciono nel racconto sono una cronaca reale o virtuale.
Come accade alla cinese Cao Fei, la più giovane fra le quattro invitate da Hou Hanru a Venezia in rappresentanza del proprio paese. In un padiglione tutto al femminile, nato per creare un’alternativa alla modernizzazione cinese guidata da uno spirito maschile che si richiama a «velocità, linearità, razionalità», secondo quanto afferma il curatore, Fei sguinzaglia il suo cyber cittadino nei meandri della Second Life. Dentro un igloo gonfiabile, l’artista invita tutti a spogliarsi dell’identità quotidiana per immergersi nel flusso cibernetico di China Tracy, ragazza-ghost che attraversa il mondo vagabondando ventiquattro ore su ventiquattro.
Shen Yuan, classe 1959, invece, compie un solo, unico viaggio. Il primo, come specifica nel titolo della sua opera Le premier voyage, composta da enormi biberon, bavaglini e ciucci sparsi a terra. E sceglie di testimoniare quello dei bambini cinesi adottati in occidente. Trasferitasi ormai da anni a Parigi, Yuan vive sulla sua pelle lo sradicamento come sorgente creativa ma anche come smacco esistenziale: «Ho ragionato sul futuro di quei bambini. Probabilmente cresceranno in un ambiente confortevole ma dovranno sempre confrontarsi con la loro differenza etnica e culturale». Saranno persone integrate socialmente, professionisti, studenti, persone depresse o felici, ma mai individui profondamente liberi.
Sul conflitto fra occidente e oriente gioca con raffinatezza Huyngkoo Lee, nel padiglione della Corea. L’artista rivela di aver studiato in Usa e di aver vissuto il «complesso dell’uomo asiatico» dovuto alla statura e alla scarsa potenza del suo fisico rispetto a quello dei colleghi americani. Così, ha inventato un museo quasi fantascientifico con fossili di animali che ricordano i cartoon (Tom e Jerry) e mutazioni del corpo che, con ironia, ricostruiscono l’homo sapiens. Un set di pura finzione è allestito anche dalla taiwanese Huang Chen Tang nella mostra Atopia, ovvero non-luogo. L’artista prende cartoline turistiche dalla Francia, Corea o Taiwan e mette in posa gruppi di persone per rimodellare la stessa immagine. È un album di famiglia ambiguo, sospeso fra immaginario collettivo e individuale, una manipolazione della realtà. «La condizione umana - spiega l’artista - è un processo di costanti rivelazioni. Il mio lavoro non è qualcosa di nostalgico ma, soprattutto, è una allucinazione».
Fandonie, finzioni, fantasie è il titolo sotto il quale si racchiude la mostra del padiglione di Singapore: una dichiarazione di intenti. Il bersaglio è il concetto di Impero nella sua rigidità da abbattere qui attraverso assemblage di ex voto buddisti o esperienze sensoriali fuori dal tempo che mixano Venezia e Singapore, come ci induce a credere la campana dei suoni di Zulkifle Mahmod da «vivere» in relax su rossi velluti. Trucchi e illusionismo sono gli «espedienti» utilizzati da Hiran To (Hong Kong) per narrare le mutazioni della storia, in una specie di gioco di magia che continuamente spiazza la percezione, come i prestigiatori dello scorso secolo. Tutto appare e scompare, finisce imbrigliato in olografie che dissolvono e ricompongono. Anche la rivoluzione culturale di Mao viene irretita da quelle slot machine dell’immaginario.
A porsi tragicamente l’interrogativo se sia ancora possibile appellarsi alla memoria, è il giapponese Masao Okabe con il suo frottage ossessivo. Nel padiglione del Sol Levante presenta un’installazione poderosa: Okabe ha dedicato nove anni della sua vita per realizzare quattromila frottage nel tentativo di bloccare per sempre il quartiere Ujina, a Hiroshima, un luogo di smistamento delle merci e di emigrazione umana, infine colpito dalla bomba atomica. Con il suo speciale ricalco l’artista ha «ritratto» le pietre lungo il marciapiede della pensilina ferroviaria. Ora il quartiere non esiste più se non in quelle ombre prelevate per l’ultima volta.