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Memoria dell’"Alleanza di fuoco"

A QUANDO L’AFRICA? Joseph Ki-Zerbo (Toma, Alto Volta, 1922 - Ouagadougou, Burkina Faso, 2006). Il più grande storico dell’"Africa nera" nel ricordo di Eugenio Melandri - a cura di pfls

«La coscienza è la responsabilità. È la guida che governa il focolare incandescente dello spirito umano».
sabato 31 marzo 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Un uomo che ha creduto fino in fondo all’unita’ africana. "Un proverbio burkinabe’ dice: ’i legni bruciano solo quando stanno vicini’. Noi ora siamo divisi e nessun paese da solo puo’ farcela ad uscire dalla crisi. Dobbiamo unirci per accendere il fuoco. Solo allora potremo dare un colore nuovo all’arcobaleno".
[...]
Wikipedia

EUGENIO MELANDRI RICORDA JOSEPH KI-ZERBO * (...)

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mercoledì 18 luglio 2007

wole soyinka

Tentativi di rimarginare le ferite aperte dell’Africa

«Le religioni africane non sono mai state aggressive e non appartiene loro l’idea di jihad o di crociata. Eppure hanno condizionato persino le religioni "forti" come il cattolicesimo. E un’altra lezione proviene dall’universo spirituale africano: il riconoscimento che gli dei sono il frutto della creazione umana»

di Giuliano Battiston *

Raccontano le cronache che quando, nel 1960, in occasione delle celebrazioni per l’indipendenza della Nigeria, il giovane Wole Soyinka venne chiamato a mettere in scena A Dance of the Forests - un’opera scritta per «avvertire del pericolo di sostituire una dominazione esterna con una interna» - il suo lavoro sollevò un tale fuoco incrociato di critiche da rasentare l’ecumenismo: le autorità nigeriane si risentirono per i riferimenti agli abusi di potere e alla corruzione dei politici; gli intellettuali legati alla ricchissima tradizione teatrale locale lamentarono un uso spregiudicato delle tecniche drammaturgiche europee a discapito di quelle autoctone, mentre i «marxisti» denunciarono il carattere oscuro ed elitario dell’opera. Al di là delle critiche, però, tutti si resero conto di avere a che fare con un autore davvero straordinario, capace di attingere in maniera disinvolta ma pienamente consapevole a serbatoi stilistici, tematici e compositivi di tradizioni culturali diverse e di tirarne fuori opere tanto incisive e originali da mettere in crisi consolidate - e in molti casi inservibili - categorie interpretative e di genere, così come di individuare e tracciare percorsi artistici inediti.

Da allora, il drammaturgo nigeriano ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il premio Nobel per la letteratura nel 1986, ma a dispetto del prestigio e della fama di cui gode nel mondo, sembra ancora rifuggire ostinatamente ogni tentativo di «canonizzazione», alimentando la sua visione artistica, al di là di ogni filiazione esclusiva, con i codici espressivi e gli strumenti culturali che ritiene più opportuni, muovendosi in un andirivieni fertile e inesausto tra scrittura saggistica, autobiografica, poetica e drammaturgica, e svincolandosi dalla morsa di quanti, in particolare nel mondo anglosassone, vorrebbero riconoscere nel suo caratteristico eclettismo e nella capacità di attraversare confini disciplinari un’anticipazione dell’ibridazione postmoderna. Soprattutto, continua da un lato a provocare il risentimento dei politici nigeriani, impegnandosi in prima persona nella faticosa costruzione di un’autentica democrazia nel suo paese, libera dal dispotismo autocratico delle élite politiche e dalle corporation multinazionali eredi del colonialismo; e dall’altro a mettere in guardia contro i pericoli dell’uso politicamente opportunistico dello «zelotismo» religioso e contro il «monologo isolazionista» e isterico di quelle grandi potenze che, sfornando pericolosi «mantra politici», accecano il mondo e ci conducono in un asfissiante «clima di paura».

Invitato dagli organizzatori di Mediterranea, il Festival Intercontinentale della Letteratura e delle Arti che quest’anno è ispirato al tema I mille volti della pace - e che si concluderà il prossimo 21 luglio - abbiamo incontrato Wole Soyinka a Roma, per discutere con lui del suo lavoro.

Secondo alcuni interpreti, la sua riscrittura-adattamento delle «Baccanti» di Euripide, costruita attraverso una contaminazione sincretistica tra costellazioni culturali diverse, quella Yoruba, quella classica e la stessa tradizione cristiana, rappresenta un esempio paradigmatico del suo intero lavoro. Ritiene corretta l’interpretazione di quanti individuano proprio nel sincretismo l’elemento principale della sua attitudine estetica?

Innanzitutto occorre precisare cosa intendiamo con la parola contaminazione, che in inglese è connotata in senso negativo. Se assumiamo, come mi sembra faccia lei, che significhi qualcosa di molto simile a ciò che si intende con sincretismo, allora direi che in un certo senso la vista stessa è un’esperienza «contaminata», sincretica, anche quando si vive internamente, senza incontrare mai una «cultura» diversa o un altro sistema di valori. Intendo dire che anche dall’interno della nostra vita ci troviamo costantemente a misurare e riadattare il nostro mondo alla luce dell’incontro con gli altri esseri umani. Da questo punto di vista, dunque, esiste un elemento di sincretismo anche nel mio lavoro, ma non direi che questa attitudine rappresenti il principio fondante della mia visione estetica. Anzi, direi che sono del tutto in disaccordo con questa interpretazione.

Il suo lavoro è fortemente influenzato dalla cultura Yoruba, ma questo ancoraggio alla «tradizione» sembra essere usato non per affermare un’identità culturale esclusiva, quanto, piuttosto, per dimostrare la permeabilità tra culture diverse, in altri termini come uno strumento per indagarne potenzialità simboliche e risorse mitologiche comuni. È così?

Gran parte della questione di cui parliamo può essere compresa e spiegata tornando indietro alle esperienze della mia infanzia, e in particolare al mio primo contatto con la letteratura Yoruba, vale a dire la lettura del romanzo di D.O. Fagunwa Ogboju Ode Ninu Igbo Irunmale, che ho tradotto in seguito come The Forest of a Thousand Demons. Il mio primo significativo contatto con la letteratura inglese invece è passato per la Medea di Euripide, dalla cui lettura, che feci quando ero ancora molto piccolo, emersero subito delle similitudini con alcune caratteristiche di Ogboju Ode Ninu Igbo Irunmale, e mi riferisco all’incontro e allo scontro di passioni radicali, ai tradimenti e alle vendette. In seguito, quando ho avuto modo di approfondire la conoscenza della letteratura, sono arrivato a riconoscere che l’umanità è comune, e che questo sfondo comune può essere rintracciato anche tra le divinità. Scoprii infatti delle forti similitudini tra il pantheon Yoruba e quello greco, e da questa scoperta è derivato il mio interesse per le religioni comparate, che mi ha portato a studiare il mondo indù e differenti metodi di meditazione e di contemplazione. Grazie a tutto questo mi sono convinto che, a prescindere da alcuni diversi modi di esprimere i fenomeni, come la relazione dell’uomo con gli elementi soprannaturali, a parte dunque alcuni dettagli di tipo culturale, l’attitudine degli individui verso le divinità è la stessa a ogni latitudine. Avendo avuto chiaro in mente, sin dalla mia prima infanzia, l’esistenza di questa correlazione e similitudine, ho usato elementi del mondo Yoruba per sottolineare il melting pot delle caratteristiche umane.

Questa attenzione agli elementi che attraversano culture diverse sembra costituire una delle ragioni per le quali lei ha sempre criticato quanti sostenevano la Negritudine, un movimento - da lei descritto come una forma di «neo-tarzanismo» - che secondo la sua analisi tenderebbe alla cristallizzazione identitaria. Quali sono le ragioni della sua contrarietà?

Oggi ritengo che la Negritudine abbia rappresentato un movimento in un certo senso inevitabile, e non è affatto sorprendente che sia maturato nel mondo francofono piuttosto che in quello anglofono. Che sia emerso anche nel mondo lusitano, nelle colonie portoghesi, dipende dal fatto che i portoghesi avevano lo stesso approccio coloniale dei francesi, i quali ritenevano che, dopo una opportuna colonizzazione culturale, dalle colonie africane sarebbero potuti uscire dei piccoli «francesi» ben educati, mentre gli inglesi sono stati sempre convinti che gli africani non avrebbero mai potuto aspirare alla cultura britannica. In questo senso, se l’attitudine alla liberazione culturale era molto forte nei paesi francofoni, in quelli anglofoni invece era forte l’orientamento verso la liberazione di tipo politico. Comunque, nella formulazione della Negritudine, la cui agenda si riferiva innanzitutto a una liberazione e a un rinascimento culturale, il concetto di Negritudine venne esasperato e diventò semplicistico, finendo con l’avallare l’idea della differenza tra la razionalità europea e l’emotività degli africani. Nel corso del tempo le diverse posizioni, compresa la mia, sono ovviamente mutate, ma mi sembra che siamo arrivati molto vicini a comprendere la Negritudine come un fenomeno storico che ha espresso elementi già esistenti in Africa: i veri africani, coloro che non sono stati «de-culturati», privati della loro cultura, sapevano esattamente chi fossero, quali fossero i loro valori, possedevano il proprio modo di attribuire significato alla realtà, avevano i loro regni, i loro scienziati e la loro tecnologia, per quanto rudimentale potesse essere. L’idea che la Negritudine proponesse qualcosa di veramente nuovo è difficile da accettare.

Nel corso delle Reith lectures tenute nel 2004 - raccolte e pubblicate poi con il titolo «Clima di paura» - lei ha sostenuto che le religioni africane, che non hanno interesse a fare proselitismo, possono offrire al mondo una lezione molto importante. Cosa dovremmo imparare dalla spiritualità africana?

Per esempio la pace. Le religioni africane, infatti, non sono mai state aggressive, non hanno mai fatto guerre di religione, e non appartiene loro l’idea di jihad o di crociata. Sono religioni lontane da tutte queste ambizioni, proprie di mentalità antiumane. A dispetto di questo, sono state capaci di condizionare e influenzare persino le religioni «forti» come il cattolicesimo. L’altra lezione che proviene dall’universo spirituale africano è il riconoscimento che gli dei sono il frutto della creazione umana, una lezione ben presente anche nella cultura Yoruba, in cui si usa dire che «se non ci fossero gli uomini, non ci sarebbero gli dei». Si tratta, evidentemente, di un principio ovvio, eppure è un principio che molte altre religioni non riescono ad accettare, prive come sono dell’umiltà necessaria a riconoscere che sono un semplice frutto degli esseri umani.

Una lezione che potrebbe anche essere intesa, per usare le sue parole, come una sollecitazione a «contrastare il pericolo del monologo con il potenziale creativo del dialogo». Lei attribuisce un potere catartico al dialogo? E, se è così, ritiene che sia sufficiente il dialogo per rimarginare quella che, adottando il titolo di un suo bel libro, potremmo chiamare la «Ferita aperta» del continente africano?

Innanzitutto occorre essere molto precisi nel chiarire cosa sia il vero dialogo, dal momento che esiste la tendenza a presentare il monologo come un dialogo: molti di quelli che dicono «siamo disposti al dialogo, stiamo parlando con te», finiscono con l’imporre la propria volontà. È un atteggiamento caratteristico, per esempio, delle religioni monoteistiche. Il dialogo genuino, invece, è terapeutico, è catartico. Affinché ci sia un dialogo vero, però, occorre aprirsi all’altro, e permettere che altre persone riconoscano delle possibilità nel proprio punto di vista; in altri termini, occorre tradurre posizioni radicalmente appassionate in principi razionali, e dunque negoziabili.

Lei ha scritto che «l’essenza della dignità si manifesta attraverso le relazioni di un essere umano con un altro», e che la «dignità è semplicemente un’altra faccia della libertà». Questo vuol dire che anche la libertà può essere raggiunta solo in una dimensione relazionale?

Sì: la dignità è sempre in relazione a qualcosa d’altro. Non avrebbe alcun senso che io, seduto nella mia stanza dinanzi a uno specchio, chiedessi conto della mia dignità. Sarebbe un atto di puro narcisismo, quel narcisismo che sfortunatamente affligge molti tra i nostri politici. La dignità, dunque, può essere compresa e riconosciuta solo nel rapporto tra due esseri umani, nell’intrinseco rispetto per il valore proprio dell’altro. In un rapporto del genere ognuno libera se stesso, e in questi termini possiamo parlare di un senso di liberazione, perché non solo non si esige dall’altro qualcosa che gli appartiene, ma si riesce a esprimere se stessi proprio attraverso l’altro, nella disposizione che abbiamo nei suoi confronti. Solo in questi termini si può parlare della dignità come dell’altra faccia della libertà e come auto-liberazione.


Critica e impegno fra poesia e teatro

Una foresta di generi

Nato nel 1934 ad Abekouta, una cittadina della Nigeria sud-occidentale, dopo aver frequentato l’università di Ibadan, Akinwande Oluwole «Wole» Soyinka si trasferisce in Inghilterra, dove studia drammaturgia. Conseguita la laurea nel 1957, lavora come sceneggiatore, interprete e regista presso il prestigioso Royal Court Theatre di Londra. Tornato in patria si dedica all’insegnamento, alla scrittura e al teatro, senza mai smettere di criticare la corruzione e la brutalità dell’élite politica del paese. Nel 1967, durante la guerra civile nigeriana, viene arrestato con l’accusa di sostenere i ribelli secessionisti del Biafra. Dopo aver trascorso due anni in prigione, Soyinka viene rilasciato e decide di vivere in esilio volontario in Francia.

Premio Nobel per la Letteratura nel 1986, membro di prestigiose associazioni letterarie internazionali e già presidente del Parlamento internazionale degli scrittori, Soyinka è poeta, narratore, drammaturgo e saggista. Fra le traduzioni italiane dei suoi testi, si ricordano, per Jaca Book, i volumi autobiografici «L’uomo è morto» (1986), «Akè. Gli anni dell’infanzia» (1984-1995) e «Isarà: intorno a mio padre» (1996), oltre ai romanzi, «Gli interpreti» (1979) e «Stagione di anomia» (1981). Tra i suoi lavori di saggistica e critica letteraria si segnalano le raccolte «Mito e letteratura nell’orizzonte culturale africano» (Jaca Book, 1995) e «Clima di paura» (Codice, 2005).

* il manifesto, 15.07.2007


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