Così in cinese si scrive Africa.
Dove Pechino estrae materie prime, compra enormi terre ed esporta milioni di contadini. Puntando a farne il suo cortile
di Angelo Ricchiello (l’Espresso, 07.10.2018)
È un colonialismo soft. Ricco di promesse: investimenti, progresso, benessere. Accompagnato da un’immigrazione costante: ingegneri, tecnici, operai specializzati, agronomi.... Ma anche surplus demografico di contadini poveri rimasti ai margini del grande balzo, che Pechino vuole trasferire in massa nella nuova terra promessa. Il numero di immigrati cinesi in Africa superava il milione di unità già nel 2016; ma si tratta di una cifra probabilmente sottostimata, e comunque sette volte aumentata rispetto alle 160 mila unità del 1996. È un lusso migratorio imponente che dal 2012 è continuato senza sosta e che allarma i paesi occidentali abituati a dettare legge sul continente nero.
L’accesso a risorse naturali e agricole, il trasferimento di surplus manifatturiero in nuovi mercati, lo spostamento di manodopera a bassa scolarizzazione, le alleanze militari e le vendite di armi sono solo alcune delle ragioni di un fenomeno che appare inarrestabile se si pensa agli effetti deleteri causati dal sovrappopolamento, dall’inquinamento, dalle diseguaglianze sociali e dalle limitazioni alla libertà da cui scappano ogni anno migliaia di cittadini cinesi.
Una recente ricerca di una società di consulenza svizzera condotta su 353 dirigenti di varie nazionalità sulle ragioni dell’espansione cinese in Africa evidenzia, senza sorprese, che l’accesso alle risorse naturali è la causa principale delle scelte cinesi sul continente africano, seguita dall’entrata in nuovi mercati per trasferire l’enorme surplus di manufatti a basso costo (15 per cento). L’ultima delle motivazioni è il trasferimento di centinaia di milioni di contadini senza lavoro che battono alle porte delle metropoli cinesi per partecipare alla grande crescita in cui è coinvolto il paese da decenni, ragione sottovalutata che cela invece i grandi rischi che corre il potere di Pechino.
Gli investimenti cinesi in Africa non sembrano arrestarsi. Nel dicembre 2015 il presidente Xi Jinping prometteva agli stati africani 60 miliardi di dollari in prestiti e aiuti, ossia nuove opportunità di emigrazione per i cinesi. Nel 2011 il Parlamento cinese discuteva una proposta di trasferimento di 100 milioni di cinesi in Africa. Nello stesso periodo, secondo alcune fonti, funzionari di Pechino elaboravano un piano per inviare nel continente africano 300 milioni di persone per risolvere gli enormi problemi di sovrappopolamento e inquinamento del paese e allo stesso tempo per trasformare l’Africa in una neo-colonia del XXI secolo.
I primi immigrati cinesi storicamente documentati arrivano in Sudafrica con la Compagnia olandese delle Indie Orientali verso la fine del ’600. Un manipolo di detenuti e schiavi giunge in quelle colonie nella prima metà XIX secolo seguito da un piccolo numero di lavoratori e artigiani. Prima una rapida crescita. Poi, negli ultimi tre anni, l’esplosione. Questo l’andamento dell’espansione economica cinese nel mondo.
L’Africa è il terzo Paese di destinazione degli investimenti di Pechino dopo Asia e Europa. E, a stare ai dati del Brookings Institute, nel mondo è la Nigeria, il serbatoio petrolifero africano, il Paese che riceve il maggior numero di risorse cinesi: cinque di quei 60 miliardi che la Cina si impegnò a investire in diverse forme nel 2015 e che ha rinnovato quest’anno per altri tre anni.
Ma con l’aumento dei progetti infrastrutturali sono schizzati in alto anche i debiti contratti dagli africani verso la Cina, legandone indissolubilmente l’avvenire. Se il debito keniota è aumentato di dieci volte in cinque anni quello dell’Angola è addirittura per oltre il 50 per cento in mano cinese. Un modello di sviluppo economico e di espansione globale talmente consolidato che è ormai noto sotto il nome di “trappola del debito”. E mentre gli stessi Stati Uniti hanno consegnato il venti percento del loro debito estero nelle mani di Pechino (1.180 miliardi di dollari) prima che Donald Trump optasse per una drastica politica di riequilibrio degli interscambi a costo di scatenare una guerra mondiale del commercio, nella trappola del debito è già scivolata una buona parte degli oltre 80 Paesi che partecipano alla Bri, l’iniziativa “Belt and Road”. Questo piano cinese di investimenti infrastrutturali lanciato nel 2016 mira a connettere fisicamente ed economicamente una serie di Paesi che si trovano lungo un duplice asse terrestre e marittimo che da Pechino
Così si sono comprati il futuro Zambia, un capo cinese controlla due suoi dipendenti Le moderne migrazioni cinesi in Africa fondano le loro radici nella politica internazionale di Mao Zedong degli anni Cinquanta con uno scopo puramente politico, ossia promuovere la solidarietà anticoloniale e postcoloniale con i paesi africani di recente indipendenza. Ma Mao è storia e le odierne tendenze migratorie cinesi verso l’Africa sono legate alla liberalizzazione dell’emigrazione nel 1985 mirano alla ricerca del profitto e non più alla diffusione di valori di “fratellanza e solidarietà”.
Si tratta perlopiù di migranti provenienti dalla provincia dello Zhejiang - gli stessi che popolano via Paolo Sarpi a Milano, l’Esquilino a Roma e il distretto tessile di Prato - piccoli imprenditori e commercianti che in Africa stabiliscono attività nel commercio al dettaglio di beni prodotti in Cina con pochi capitali e con buoni collegamenti con produttori in Cina grazie ai quali riescono ad aprire centinaia di piccoli negozi, identici l’uno all’altro, dove si vendono manufatti a basso costo, dall’abbigliamento ai piccoli elettrodomestici, dai giocattoli alle biciclette, che in alcuni casi si trasformano in grossi centri all’ingrosso come a Johannesburg e Yaoundé.
La crescita delle comunità commerciali cinesi in Africa crea una domanda di lavoro che richiede e incoraggia altra migrazione dalla Cina, molta della quale entra illegalmente in territorio africano approfittando della corruzione e dell’inefficacia delle agenzie responsabili del controllo delle frontiere e delle immigrazioni, motivi che lasciano pensare che quel milione di cinesi in Africa sia una cifra largamente sottostimata. L’atteggiamento delle popolazioni locali è spesso sospettoso, negativo, nei confronti dei cinesi, definiti come “predatori” e “neocolonialisti” . A complicare la questione, è l’isolamento e la natura chiusa delle comunità e degli immigrati cinesi rispetto alle popolazioni ospitanti che portano la popolazione locale a credere che si tratti di schiavi o prigionieri trasferiti dalla Cina oppure di agenti del Partito comunista cinese.
Anche i rapporti diplomatici tra gli stati africani e il governo cinese svolgono un ruolo importante, poiché mentre i rapporti bilaterali possono essere buoni, gli stretti legami con un particolare governo possono essere visti negativamente dall’opposizione politica e da una parte dei suoi cittadini.
È il caso dello Zimbabwe, dove Pechino si è sempre schierata per l’ex dittatore Mugabe nonostante le sanzioni internazionali per l’espropriazione violenta e senza indennizzi di buona parte delle tenute degli agricoltori bianchi. È il caso del Sudan dove la Cina minaccia di veto il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per bloccare l’adozione di sanzioni politiche per fermare una guerra civile che dura da 40 anni e che porta il paese nella più grave crisi umanitaria del pianeta. O della Guinea, dove il feroce dittatore Camara lancia una campagna di stupri e massacri contro cui le Nazioni Unite chiedono un’azione mentre il China International Fund firma un accordo di 7 miliardi di dollari con il dittatore.
Eppure, la Cina non si occupa solo di dittatori e despoti africani. Il dragone è capace di dialogare anche con economie democratiche e in condizioni economiche relativamente buone come il Botswana, il Sudafrica e Mauritius, per cui è evidente che non sussiste una questione morale o politica finché ci sono prospettive di profitto e tornaconto.
Gli sviluppi demografici dei paesi africani e della Cina si muovono in direzioni opposte. L’Africa è un continente giovane con metà della popolazione sotto i 20 anni che entra gradualmente nella forza lavoro. La fertilità è elevata e la mortalità infantile è diminuita grazie alla diffusione di migliori servizi sanitari e all’istruzione che oggi raggiungono vasti strati della popolazione. La tendenza demografica della Cina risulta oggi molto diversa: solo il 20 per cento della popolazione cinese ha meno di 19 anni. Il calo delle nascite è attribuibile alle note ragioni che hanno innescato lo stesso processo nei paesi industrializzali: l’istruzione, il controllo delle nascite e l’urbanizzazione.
Da anni la Cina gode di una fonte inesauribile di manodopera in tanto che i salari si mantengono bassi per l’enorme disponibilità di contadini e lavoratori a basso costo delle aree rurali, ma l’inversione di tendenza è palese e mette in crisi le stesse aziende. Le imprese cinesi, infatti, sono prossime al giro di boa della competitività e iniziano a perdere terreno nei confronti di altre economie emergenti, così come accaduto nel passato ad altre econo mie asiatiche come il Giappone.
Oltre all’invecchiamento della popolazione e la minore disponibilità di forza lavoro a basso costo, i fattori che spingono le aziende cinesi a migrare verso lidi migliori sono tanti e diversi: dal 2001 il costo della manodopera nelle imprese manifatturiere è aumentato del 12 per cento annuo, un incremento letteralmente vertiginoso, il costo dell’elettricità subisce un andamento analogo nel periodo 2004-2014 crescendo del 66 per cento, come pure il gas naturale che raddoppia al 138 per cento. Ai fattori puramente economici se ne aggiunge uno di primaria importanza, sebbene poco considerato, ovvero la nascita di una giovane classe imprenditrice che comprende le dinamiche internazionali e sa guidare un’impresa.
Le ragioni della migrazione cinese in Africa non sono necessariamente coordinate da un unico regista, seppure autoritario e dirigista. È lecito supporre che migliaia di cittadini cinesi scappino dal proprio paese per sfuggire agli effetti deleteri causati dal sovrappopolamento, dall’inquinamento, dalle diseguaglianze sociali e dalle limitazioni alla libertà, fenomeno migratorio che non deve dispiacere il governo di Pechino che si ritrova così meno bocche da sfamare, meno famiglie da strappare dalla povertà, meno rischi di rivolte, e infine un’economia più sostenibile e più patrocinabile.
La necessità delle aziende cinesi di delocalizzare i propri impianti produttivi a causa degli aumenti dei costi di produzione prossimi ai livelli medi dei paesi industrializzati può trovare soddisfazione in Africa, purché le istituzioni africane riescano a creare condizioni appropriate per trasformare i due miliardi di africani attesi nel 2050 nel più grande mercato del pianeta e, parallelamente, a incentivare le imprese cinesi in Africa a frenare il lusso migratorio dalla Cina e a impiegare le competenze locali per sradicare dal continente la povertà.
La Cina svolge un ruolo ragguardevole nel percorso di sviluppo dei paesi africani e non c’è dubbio che la sua inluenza sul continente continui a crescere parallelamente all’aumento dei flussi commerciali e degli aiuti economici imponendo a migranti di stabilirsi permanentemente sul continente. Nessuno può escludere che l’invasione cinese dell’Europa possa realizzarsi dalle coste dell’Africa mediterranea e non più dalla già dissestata “nuova Via della seta”.
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Così si sono comprati il futuro
di Federica Bianchi (l’Espresso, 07.10.2018)
Prima una rapida crescita. Poi, negli ultimi tre anni, l’esplosione. Questo l’andamento dell’espansione economica cinese nel mondo. L’Africa è il terzo Paese di destinazione degli investimenti di Pechino dopo Asia e Europa. E, a stare ai dati del Brookings Institute, nel mondo è la Nigeria, il serbatoio petrolifero africano, il Paese che riceve il maggior numero di risorse cinesi: cinque di quei 60 miliardi che la Cina si impegnò a investire in diverse forme nel 2015 e che ha rinnovato quest’anno per altri tre anni.
Ma con l’aumento dei progetti infrastrutturali sono schizzati in alto anche i debiti contratti dagli africani verso la Cina, legandone indissolubilmente l’avvenire. Se il debito keniota è aumentato di dieci volte in cinque anni quello dell’Angola è addirittura per oltre il 50 per cento in mano cinese. Un modello di sviluppo economico e di espansione globale talmente consolidato che è ormai noto sotto il nome di “trappola del debito”. E mentre gli stessi Stati Uniti hanno consegnato il venti percento del loro debito estero nelle mani di Pechino (1.180 miliardi di dollari) prima che Donald Trump optasse per una drastica politica di riequilibrio degli interscambi a costo di scatenare una guerra mondiale del commercio, nella trappola del debito è già scivolata una buona parte degli oltre 80 Paesi che partecipano alla Bri, l’iniziativa “Belt and Road”.
Questo piano cinese di investimenti infrastrutturali lanciato nel 2016 mira a connettere fisicamente ed economicamente una serie di Paesi che si trovano lungo un duplice asse terrestre e marittimo che da Pechino porta in Europa passando per l’Asia centrale, l’Africa occidentale, la Grecia, ino ad arrivare a Venezia. L’obiettivo dichiarato dallo stesso presidente Xi Jinping - in una celebre vignetta del sudafricano Zapiro, ritratto mentre spinge un carrello della spesa con dentro il continente africano sotto la dicitura “Takeaway cinese” - è un nuovo modello di governo economico globale che lentamente sostituisca il crescente isolazionismo americano. I cinesi detengono oggi quote proprietarie nei due terzi dei 50 principali porti commerciali mondiali; le banche di Pechino hanno finanziato più centrali elettriche di qualsiasi altro Paese e le sue società di telecomunicazioni stanno costruendo una fitta “strada digitale della seta” composta da una rete di satelliti connessi a una ragnatela di cavi ottici terrestri.
Sono già otto i Paesi del network Bri che hanno un problema di insostenibilità del debito: oltre allo stato di Gibuti, il cui debito è passato dal 50 all’85 per cento in due anni, il Kirghizistan, il Tagikistan, il Laos, le Maldive, la Mongolia, il Montenegro e il Pakistan.
Recentemente però non tutti i progetti stanno andando nella direzione auspicata da Pechino. Con il cambio di governo nei regimi democratici molti investimenti faraonici considerati inutili e dannosi cominciano ad essere cancellati. Pioniera è stata la Malesia che ha rinunciato pubblicamente a quei 20 miliardi cinesi siglati dal primo ministro precedente, cacciato nelle urne. Ora ci sta provando il nuovo governo pakistano di Imran Khan.
Anche l’Europa, target privilegiato dello shopping aziendale cinese, ha deciso, seppur in ritardo, di muoversi, allarmata dalla “piattaforma di cooperazione 16+1”, lanciata da Pechino a luglio in Bulgaria. Si tratta di un piano di cooperazione economica tra 16 paesi dell’Europa orientale - i 9 dell’Unione, i 5 dei Balcani più Macedonia e Albania - che rischia di spaccare in due l’Europa lungo la sua faglia più debole. L’Alto rappresentante Federica Mogherini ha risposto il mese scorso con una contro iniziativa che offre investimenti, stavolta economicamente sostenibili e non dannosi all’ambiente, a un Continente, quello asiatico, bisogno di 1300 miliardi in infrastrutture all’anno. Resta da vedere se si tratta di una timida mossa difensiva o l’inizio di un vero contrattacco.