Il cammino della Pasqua, dall’Egitto a Roma imperiale
di Manlio Simonetti (Avvenire, 05.4.2007)
Il termine greco pàscha - di genere neutro, dall’ebraico pesah - venne in antico erroneamente connesso col verbo pàschein ("soffrire") con riferimento alla passione di Cristo; ma un’altra spiegazione, più attendibile, l’interpretava come "passaggio, transito" con riferimento all’uscita degli israeliti dall’Egitto, sotto la guida di Mosè, alla volta della Terra promessa.
In effetti la festività pasquale rimonta al periodo in cui Israele era ancora un popolo di pastori nomadi, e consisteva nel sacrificio di un agnello di un anno, il cui sangue veniva sparso, con finalità apotropaica, all’ingresso della tenda, e successivamente, in epoca sedentaria, sugli stipiti della porta di casa. La festa veniva celebrata la sera del 14 del mese lunare di Nisan (tra marzo e aprile) in occasione dell’equinozio di primavera.
Messa per tempo questa celebrazione in relazione con l’esodo degli israeliti dall’Egitto, il racconto della sua istituzione, al momento in cui essi si accingono a mettersi in viaggio, si legge in Esodo (12); subito dopo (13) Mosè prescrive al popolo di mangiare per sette giorni pane azzimo e di evitare qualsiasi cibo fermentato. È la festa degli Azzimi, che in epoca storica prolunga quella pasquale, ma che originariamente era una festa agricola, perciò istituita quando gli israeliti si furono stabiliti in Palestina, e solo in un secondo momento connessa con quella di Pasqua.
Questa festività, con quelle della Pentecoste e delle Capanne, era una delle tre feste di pellegrinaggio a Gerusalemme, e il ricordo della liberazione d’Israele dall’Egitto manteneva viva nel popolo, in epoca di asservimento, l’aspirazione alla libertà.
Dato che Gesù era stato crocifisso ed era risorto in periodo pasquale, la festività fu trasferita per tempo in ambito cristiano, già nel II secolo, e diventò la prima festa cristiana. In effetti già in Paolo leggiamo: «È stata immolata la nostra pasqua, Cristo» (1 Corinzi, 5, 7), il che fa pensare che Cristo fosse stato già assimilato all’agnello pasquale, e questa assimilazione è evidentissima nel vangelo di Giovanni. Di qui il trasferimento della festività dal contesto ebraico a quello cristiano, con una radicale trasformazione del suo significato.
Riguardo a tale significato è documentata nella seconda metà del II secolo una divergenza tra le Chiese cristiane d’Asia (Efeso, Smirne, Sardi, e così via) da una parte, e Roma e Alessandria dall’altra. In effetti la festività pasquale implicava il ricordo sia della morte sia della risurrezione di Gesù, e mentre le Chiese d’Asia rilevavano soprattutto la morte (Pasqua di crocifissione), Roma e Alessandria mettevano l’accento soprattutto sulla risurrezione (Pasqua di risurrezione). Di conseguenza, nell’Asia cristiana la Pasqua veniva celebrata, in coincidenza con la Pasqua ebraica, il 14 del mese di Nisan (donde la definizione di quartodecimana), indipendentemente dal giorno della settimana, mentre a Roma e ad Alessandria questa festa veniva celebrata la domenica successiva al 14 di Nisan.
Due antiche omelie, una di Melitone di Sardi e l’altra anonima (In sanctum Pascha), documentano la celebrazione pasquale quartodecimana: veniva letto l’intero capitolo 12 dell’Esodo, proprio come facevano gli ebrei, e il significato cristiano della celebrazione era affidato all’omelia che seguiva la lettura, nella quale il celebrante interpretava l’agnello che quelli immolavano come simbolo che aveva prefigurato il sacrificio di Cristo, il vero agnello messo a morte dai giudei, il quale col suo sacrificio aveva liberato gli uomini dal peccato e dalla morte.
Nella comunità cristiana di Roma c’erano nel II secolo anche fedeli di origine asiatica, i quali nella nuova residenza continuavano a celebrare la Pasqua il 14 di Nisan, mentre il resto della comunità la celebrava la domenica successiva e, dato che tale festa era sentita come molto importante, questa discrasia faceva scandalo. Intorno al 155 Policarpo, vescovo di Smirne, venne a Roma per discutere della questione, ma il suo abboccamento col vescovo di Roma, Aniceto, fu infruttuoso, anche se i due ebbero cura di evitare toni polemici. Ma intorno al 190 un autoritario vescovo di Roma, Vittore, riaprì la polemica a danno dei fedeli di Roma d’origine asiatica, al fianco dei quali si schierarono le Chiese d’Asia, capeggiate da Policrate di Efeso. A fatica fu evitata un’aperta rottura, ma gli asiatici di Roma furono costretti ad accettare l’osservanza pasquale romana, che gradualmente finì per imporsi anche in Asia.