Inviare un messaggio

In risposta a:
Identità "italiana". "Tristi tropici" ... e "Forza Italia"!!!

UNA "RETE" PER I "CERVELLI ITALIANI" ALL’ESTERO? PROVINCIALISMO!!! LODE A ERMANNO BENCIVENGA, CHE NON ANDRA’ AL RADUNO DI WASHINGTON. "La Voce di Fiore" condivide la sua denuncia: «Ma quale eccellenza? Basta con le reti per pochi privilegiati» - a cura di pfls

domenica 15 aprile 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Sono un intellettuale che ha fatto la scelta di lavorare in California invece che a Bari o a Parigi; ho colleghi che rispetto e con cui talvolta sono in rapporti di amicizia a Bari, a Parigi, in California e in tanti altri posti; se rappresento qualcosa è proprio lo sforzo di superare il mio essere stato «gettato» (avrebbe detto Heidegger) in un luogo specifico - superarlo conservandolo, certo, ma anche trasfigurandolo: tramutandolo in una storia unica e personale di cui l’essere (...)

In risposta a:

> UNA "RETE" PER I "CERVELLI ITALIANI" ALL’ESTERO? PROVINCIALISMO!!! LODE A ERMANNO BENCIVENGA, CHE NON ANDRA’ AL RADUNO DI WASHINGTON. "La Voce di Fiore" condivide la sua denuncia: «Ma quale eccellenza? Basta con le reti per pochi privilegiati» - a cura di pfls

domenica 15 aprile 2007

Le radici antiche dell’Italia cattiva

di GIUSEPPE D’AVANZO *

L’Italia appare ad Adriano Sofri incattivita**. Il Paese si guarda in cagnesco; ha sempre la bava alla bocca; è prigioniera di "una lotta politica recitata come una parodia dell’eterna guerra civile". Naturalmente Sofri non crede - al quadretto "artefatto, edulcorato" degli "Italiani, brava gente"; e tuttavia la violenza dell’oggi lo intimorisce. Ne è come stupefatto.

Lo chiamo al telefono e mi dice che a farglielo pensare non è tanto (o non solo) quel che vede nel dibattito politico-parlamentare o quel che legge del discorso pubblico (e già basterebbe), ma soprattutto quel che osserva nel mare magnum della blogosfera, dove i sentimenti, le opinioni sono meno controllate, meno mediate, diciamo più nude e autentiche. Odio, vi scorge, un odio cieco e ottuso. Un’inimicizia assoluta e irreparabile, un’invidia, un rancore che Sofri avverte come orizzonte nuovo, condizione inedita in Italia per la sua forma, diffusione, distruttività, urgenza. Anche se so che la sua è soprattutto una provocazione, sono stupito dello stupore di Sofri perché egli non appartiene alla famiglia dei "buonisti" di casa nostra che, si sa, dietro la predicazione nascondono intolleranza; nichilismo; un amore incondizionato per il calduccio che assicura loro l’ordine costituito.

L’Italia è stata sempre cattiva, cattivissima, feroce. Non è vero (non mi pare vero) che "la deformazione del volto umano dell’Italia", come diceva Aldo Moro, faccia data dal maggio del 1978. Magari. La cattiveria e l’odio reciproco sono stati e sono la nostra, più vitale e antica linfa. Quasi il nostro tratto originario, così primigenio da precipitare finanche nel senso comune.

A Napoli l’invincibilità del risentimento italico ha addirittura una sua storiellina molto popolare. Uno straccione viene chiamato a Palazzo Reale e si vede offrire dal Re Borbone qualsiasi cosa desideri a condizione che un altro straccione, suo acerrimo nemico, ottenga il doppio. Il lazzaro fortunato ci pensa su, ci ripensa e poi, con un sorriso compiaciuto, sbotta contento: "Maestà, fatemi cieco a un occhio!".

Se non si vuole credere alle storielle, si può credere alla storia. Scienza politica e storiografia definiscono cleavages le fratture strutturali di un Paese. Ogni Paese ha le sue, il guaio è - dicono gli storici - che le nostre sono fitte come la tela di un ragno molto laborioso. Il Nord contro il Sud; l’Italia laica contro l’Italia clericale; l’Italia industriale versus quella agricola e via dicendo.

La divisività - non è una scoperta - è il nostro più autentico paradigma culturale, il canone interpretativo di lungo periodo e la rappresentazione mentale di noi stessi, a qualsiasi pagina si voglia aprire il libro della storia comune. Se si escludono i Balcani, non c’è stato altro spazio europeo che abbia avuto una sequenza secolare così ininterrotta e feroce di conflitti e divisioni interne. Qualsiasi potere straniero abbia avuto voglia di mettere tenda dalle nostre parti ha potuto farlo con l’appoggio di alleati "interni". Le sole creazioni originali di istituzioni politiche partorite dal genio italico - il Comune, la Signoria, che poi erano null’altro che la risposta a quella catastrofe geopolitica - hanno vissuto di guerre, tradimenti, stragi, saccheggi, incendi, "veneziani contro ravennati, veronesi e vicentini contro padovani e trevigiani, pisani e fiorentini contro lucchesi e senesi...". L’unità del Paese è stata vissuta, dai piemontesi, come colonizzazione ("Questa è Affrica: i beduini a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile") e, dai regnicoli, come ladrocinio. La Repubblica nasce addirittura da una guerra civile e la democrazia italiana a lungo nel dopoguerra vive, e anche prospera, sempre incapace di condividere un sentimento di cittadinanza, un accettato e "interiorizzato" quadro di valori, sempre scissa nelle "appartenenze separate" dell’ideologia.

Non può sorprendere dunque la cattiveria dell’Italia di oggi. È - più o meno - quella di ieri, di avantieri, di cinque secoli fa. Stupisce - deve stupire - che appaia come un destino o che lo sia. È qui che c’è il meglio della provocazione di Sofri: indica la responsabilità dell’Italia incattivita nell’incapacità della politica italiana a "mettere qualcosa in comune". Perché quel cum appare ancora oggi in Italia come osceno, quasi uno scandalo? Perché lo avvertiamo come un desiderio frustrato e irrealizzabile o come un sopruso, un vincolo, un limite intollerabile? "Benché i muri siano caduti..." dice Sofri, con malinconia.

Temo che Sofri sia prigioniero di un inganno che il tempo avrebbe dovuto liquidare; di una sottovalutazione della "natura" della politica italiana; dell’ipervalutazione delle capacità della politica italiana di "modernizzare" i suoi tratti distintivi. La faccio breve. Inganno. Era soltanto un’illusione che fossero "i grandi conglomerati tirannici" a produrre guerra, infelicità, inimicizia, aggressività. Con molta colpa abbiamo pensato che, una volta dissolti i totalitarismi, avremmo potuto inaugurare un’epoca di pace e di reciproca comprensione. È sotto gli occhi di tutti che non è così. Caduti i muri, si è affacciata alla scena "una specie umana del tutto nuova", l’homo democraticus.

Massimo Cacciari, una decina di anni fa, lo tratteggiò così. Intollerante di ogni dipendenza, estraneo ad ogni foedus, gelosissimo della propria individualità, dogmaticamente certo della "naturale bontà" dei propri appetiti (come la "scienza" economica gli conferma), egli è però anche incapace di vera solitudine; è fragile; è impaurito; è bisognoso di protezione. Non appena i suoi "diritti" gli appaiono minacciati, si trasforma in massa. La sua pretesa assoluta di "libertà" - la volontà di trasformare il proprio particolare interesse in universale - provoca per necessità l’organizzazione di quegli interessi in un percorso che è del tutto indifferente alla forma del regime politico.

L’apparire dell’homo democraticus fa piazza pulita di ogni contrapposizione tra individuo e società. La società, i suoi valori, la sua stessa necessità, le forme politiche in cui è organizzata, in cui l’hanno organizzata i partiti e la organizzano la politica, semplicemente evapora. Non esiste più. Quali valori o collanti possono tenere insieme quel mondo di singolarità assolute? Il cum, il "mettere qualcosa in comune" è allora l’autentica questione prioritaria di ogni progetto politico. Ricostruirlo, ripensare in modo realistico e disincantato alle forme politiche possibili dinanzi all’energia inarrestabile (e terrificante) dell’homo democraticus dovrebbe essere la sfida politica più responsabile e moderna.

Ma la politica italiana? Rimuove semplicemente il problema. Anzi, lo accentua, lo esaspera, lo enfatizza ritrovando una sua antica tradizione, la sua radice più profonda. Mai il "vivere politico" in Italia, come auspicava Machiavelli, è stato la fine della separatezza individuale, l’ingresso degli individui nella sfera pubblica, la partecipazione responsabile alla vita collettiva, la definizione di un interesse collettivo. La politica italiana è stata sempre, esclusivamente, fazione e oligarchia. Quindi, esercizio d’autorità; governo (e appropriazione) delle risorse pubbliche; palude di consorterie. L’avvento dell’homo democraticus, la sua aggressività ne legittima tutti i difetti, ne esalta la negatività e la violenza. Il peggio che può capitarti in Italia è farti sorprendere non protetto da un sistema di relazioni, estraneo a una forma organizzata di interessi, isolato e senza famiglia. Può capitarti come a Piergiorgio Welby, straniero alle grandi chiese e alle consorterie e accompagnato soltanto dalla pattuglia dei radicali, di non aver diritto nemmeno a un degno funerale. L’Italia non è incattivita. È come è sempre stata.

Profondamente naturale, avrebbe detto Ennio Flaiano, e gli animali assalgono il più debole, i vecchi, gli isolati, quelli che non hanno la forza per difendersi o non l’hanno mai avuta. Toccherebbe alla politica "civilizzarla", ma la nostra mediocre politica, inconsapevole anche del male che incarna e dell’arretratezza che rappresenta, è parte del problema. Non è purtroppo la soluzione.

* la Repubblica, 15 aprile 2007


**

I salvati e i caduti dell’Italia incattivita

di ADRIANO SOFRI ***

Questo è un articolo sull’Italia incattivita. Eppure le rondini sono arrivate, e in anticipo. Non passerà molto e torneranno le famose lucciole, e saranno anche loro più precoci e indaffarate. Poi arriverà il 2008, e i trent’anni da Moro. Ristamperò anch’io il mio libro, e intanto quell’ombra implacata agita già di nuovo le cronache. Si prometteranno chissà quali rivelazioni. Il mio indice si accontenterà di aggiornare la domanda di allora: a che punto è l’Italia? Qualcuno paventò, in quel maggio del 1978, "una deformazione del volto umano dell’Italia". Successe, e il riscatto non è venuto.

Certo, il mondo intero è incattivito. Ogni luogo del mondo ha la sua data dopo la quale "niente è più stato come prima". L’Italia ha quella. Moro lo scrisse: con la mia morte l’Italia non sarà più quella di prima. Non importa quanto fosse veritiero, e quanto edulcorato e artefatto il quadretto dell’italiano brava gente. Allora svanì, e lasciò una fisionomia pronta a storcersi per la rabbia e il rancore. Cattiveria è parola da bambini, Moro prigioniero la usò ripetutamente. Non è vero che il tempo guarisca le ferite. Il tempo, lasciato a se stesso, può esacerbarle, e renderle incurabili. Benché i muri siano caduti, la lotta politica è stata ancor più recitata come una parodia dell’eterna guerra civile.

Un anno fa il centrodestra volle far passare la sconfitta per un broglio. Il centrosinistra aveva improntato il meglio della sua campagna elettorale alla promessa di una svolta negli animi, un disarmo civile, uno spirito di riconciliazione da nuovo dopoguerra. Ora la delusione è diventata un luogo fin troppo comune, ma è su quel punto che si lascia davvero misurare, dell’Italia in cagnesco.

E’ il succo della vicissitudine di Mastrogiacomo e dei suoi poveri compagni. È successa una disgrazia, senza colpa. Le disgrazie succedono, all’improvviso, e fanno deragliare le vite ordinarie. Si deve lasciare il corso usato delle cose e affrontare la disgrazia, ciascuno con una propria responsabilità, non fosse che l’apprensione solidale. Un inganno infame ha fatto della vita di tre persone il gioco di una banda di invasati vanitosi.

Un inganno infame ha fatto della vita di tre persone il gioco di una banda di invasati vanitosi. Tre vite destinate al mattatoio: due sono state spente, e non resta che piangerle e augurarsi che gli assassini paghino caro il loro inganno, una è stata salvata, e bisogna esserne felici, per lui e per i suoi, sentendosi dei suoi. La si vorrebbe giocare come una resa dei conti con la bava alla bocca: largamente simulata in qualche personaggio, abbastanza al corrente della propria coda di paglia e abbastanza cinico per recitare secondo copione; più vera e schiumante per tanti cittadini, sobillati o no a pensare che "avete salvato uno dei vostri".

Li guardo, questi che fanno le facce, senza alcun pregiudizio politico, perché sono stato sempre dalla parte di chi si adoperava per salvare vite rapite e minacciate, di chiunque si trattasse, persone insultate come "mercenari" o all’opposto come fiancheggiatrici del terrorismo. Ora che Berlusconi ha detto che bisogna mettere il buon nome comune al primo posto, basta solo che ci creda davvero. In una disgrazia un paese può riconoscersi e sostenersi, o rinnegarsi e maledirsi. Ma se con la vicenda afgana è così prepotente quest’ultima voglia, è per l’aria che tira.

Aria cattiva. Per questo si rievoca a ogni piè sospinto la trincea tragica del sequestro di Aldo Moro, nonostante il paragone sia così arduo. Con Moro, la superstizione della fermezza sostenne (e ripete ancora) che la strage della scorta vietava di salvare la vita a lui, a "uno di noi". Così, c’è oggi chi vorrebbe Mastrogiacomo morto in nome dei due trucidati. Ancora, qualcuno ha ricordato di aver disposto, allora, in caso di sequestro, di non essere ascoltato: un’autointerdizione preventiva che voleva attenuare l’interdizione e il rinnegamento del Moro prigioniero.

Ma di fronte ai sequestri è bene non limitarsi a immaginarsi nei panni del sequestrato, per figurarsi invece in quelli del padre, o della sorella, o del tutore involontario del sequestrato. Questo semplice slittamento dell’immaginazione serve a spazzolar via un po’ di polverina dorata dall’amor proprio, e a torcersi le mani come può fare chi non le abbia incatenate. E anche a non contentarsi della sfida scolastica fra la legge del sangue e quella dello Stato. Giuseppe D’Avanzo ha evocato qui Antigone, con un argomento suggestivo. Anche l’ombra sorella di Antigone segue i nostri passi, e quando affiora allo scoperto vuol dire che i nostri passi si avvicinano al baratro.

Ma Antigone, nata all’amore, può rivendicare l’ultima parola quando la disgrazia sospende il corso ordinario della vita, e della stessa legge. Creonte non è il buon governante, e la ragion di Stato non è la ragione. Antigone vuole dare sepoltura al corpo del fratello ribelle. Nella vastità del Laterano gli impietriti dignitari della repubblica celebrarono le esequie senza cadavere di Aldo Moro, tumulato dai suoi nel piccolo recinto di Torrita Tiberina.

Era inevitabile che fosse così? Forse i brigatisti di allora lo avrebbero comunque assassinato: ma gli italiani avrebbero pregato in un unico funerale. Si confonde l’aspirazione decisiva - la legge è uguale per tutti - con la formula militaresca, "non guarda in faccia a nessuno". Bisogna guardare in faccia tutti: ci si accorgerà che tutti hanno una faccia, e non solo un poster elettorale, o dei polpastrelli da limare e bruciare con l’acido.

Come sono pesanti, i funerali. E’ appena successo di nuovo nella piazza in cui le porte della chiesa si erano chiuse al corpo di Pier Giorgio Welby. Bruttissima giornata dell’Italia incattivita. La Chiesa gerarchica ha voluto mostrarsi col gesto della Cacciata a uno che chiedeva di entrare - e che era per giunta morto, come ordini professionali e tribunali hanno certificato, senza violazione di legge. (Anche i tribunali sono incattiviti, e si troverà sempre un procuratore smanioso di riaprire la pratica).

La stessa Chiesa era stata protagonista della richiesta di clemenza, con l’appello tenace di Giovanni Paolo II, e la fede postuma che vescovi e preti gli hanno tenuto. In tutte le rilevazioni sul governo l’indulto figura al primo posto fra le ragioni di impopolarità, e del resto fu la prima delle sue decisioni importanti. Nessuna misura avrebbe più esemplarmente significato un’intenzione di ricominciamento della convivenza, nessuna avrebbe avuto un’impronta così "giubilare".

La maggioranza parlamentare inaudita che la votò non ebbe intero il coraggio della sua azione e, quando non finì senz’altro con lo scaricarsene, si trincerò dietro argomenti d’emergenza: le carceri sarebbero esplose eccetera. Gli indirizzatori d’opinione, per scandalo vero o per compiaciuto scandalismo, anteposero i compromessi che era costato il voto al suo effetto per la moltitudine di disgraziati, e annunciarono catastrofi per la sicurezza dei cittadini.

I cittadini, allarmati e incitati contro il cinismo della politica, misero l’indulto in testa alla classifica della rabbia. Una campagna ostinata fece il resto, addebitando a vanvera all’indulto i crimini più efferati, inventando carceri di nuovo riempite. Intanto, il tempo documentava che i detenuti usciti in anticipo - 23 mila nel solo agosto scorso - non avevano peggiorato l’andamento della criminalità, e che i recidivi erano meno che negli anni "normali".

Una spropositata distanza fra il fatto e, non dirò la sua percezione, che ormai è un luogo comune e un alibi, ma la sua presentazione. E questo nonostante che, non certo inavvertiti dell’impopolarità, il Presidente Napolitano, Romano Prodi e il ministro della Giustizia abbiano tenuto ferma la convinzione della bontà dell’indulto. E che la magistratura associata abbia riconosciuto che un’amnistia, irrilevante rispetto all’ulteriore svuotamento delle galere, avrebbe smaltito l’enorme arretrato di processi superflui. Ma, ha commentato Mastella, vallo a trovare chi nomini la parola amnistia con l’aria che tira.

Anche nella piazza di Welby, temo, non si trattava di un episodio: si trattava dell’aria che tira. La Chiesa che chiama a raccolta il suo reparto scelto e scava una trincea, persuasa che il medico pietoso procuri la morte delle anime dei suoi pazienti, è pronta ora a operazioni dolorose. Ho sentito un intelligente cittadino italiano e gay spiegare il proprio rimpianto per gli anni ’60 e ’70, nei quali, diceva, il pregiudizio della chiesa non si traduceva in un accanimento, e non impediva agli omosessuali di trovare ascolto e conforto umano nei preti, mentre oggi un’intolleranza militante rende le cose tanto più difficili e amare.

Non si può certo collegare alla durezza ecclesiastica il suicidio di un ragazzo irriso dai compagni: tuttavia si riconosce anche qui l’aria che tira. Eppure la Chiesa ha saputo tante volte custodire la carità che la vita pubblica e privata più facilmente dimenticano. Non torno a quel "partito dei vescovi e di Lotta Continua" sul quale si ironizzò troppo facilmente durante i 55 giorni di Moro. Ma la Chiesa ha fatto da argine alla più rischiosa manifestazione di risentimento e di chiusura degli italiani, quella contro gli stranieri poveri. Quanto durerà il nuovo corso?

E nel mondo laico? La stessa ispirazione di fondo del Partito Democratico era nella voglia di mettersi insieme, di mettere qualcosa in comune: magari il destino delle generazioni a venire, magari la parte dell’Italia nel grande mondo. Lo sconcerto che si è diffuso non riguarda tanto i programmi politici - i programmi politici sono tutti un po’ posticci, al momento: registrati in memoria di un passato da cui congedarsi, o al quale aggrapparsi - quanto una spinta contraria al mettersi in comune.

Una riluttanza a fraternizzare, a fare amicizia, a dirsi compagni come se fosse la prima volta. Una lite per la roba. Così l’aria che tira trascina la nostra comunità di qua e di là, sommergendo di applausi il digrignar di denti, partiti, serate televisive e blog e fermate d’autobus. Perfino nei suoi lustrini l’Italia incattivita cede alle piazze Loreto rosa. Qualcuno paventò, in quel maggio del 1978, "una deformazione del volto umano dell’Italia". Quel qualcuno era Aldo Moro.

* ** la Repubblica,15 aprile 2007


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: