Usa, moratoria per le stragi
di Furio Colombo *
Da molti anni, ormai, dagli anni di Reagan, la vita interna americana è stretta in una morsa che blocca l’immagine democratica di quel Paese e ne limita il valore di modello nel mondo. Sto descrivendo il corrispondersi, simmetrico e tragico, della pena di morte, ovvero della morte data «per ragioni giuste» dallo Stato, e della libera e impetuosa circolazione della armi.
Armi (personali, semiautomatiche e automatiche) che rendono possibile a singoli individui - non importa per quali ragioni - di eseguire, anche in dimensioni impressionanti, una propria “giusta” sentenza, legittimata dall’orgoglioso possesso dell’arma e dal sentirsi parte di uno Stato che ha l’autorità di uccidere. Occorre cominciare di qui, dalla pena di morte e dalla morte di Stato, che purtroppo segna ancora la vita americana, per provare a riflettere sulla spaventosa carneficina nel Campus del Virginia Technological Institute, uno dei più avanzati centri di formazione tecnico-scientifica negli Stati Uniti e forse nel mondo.
Come si vede il livello altissimo della migliore cultura scientifica sfiora, senza vederlo, il problema del pericolo che incombe sempre sulla protezione della vita. L’esempio allarmante è in quella fotografia mostrata la sera del 16 aprile nel programma «Controcorrente» di Corrado Formigli. Si vede il preside di una facoltà del Technological Institute della Virginia che riceve un vistoso premio in danaro per la sua scuola dalla National Rifle Association, la potente lobby americana delle armi. Che cosa ha fatto il preside per meritare quel premio? Ha creato o aiutato a creare nel suo Stato (ed evidentemente impiegando risorse e personale della Università colpita dalla strage) una serie di club o centri per i ragazzi e adolescenti. Hanno il macabro nome di «Shooting Educational Centers» luoghi in cui - tra i dodici e i quattordici anni - ragazzi e bambine imparano a usare “correttamente” le armi da fuoco. “Correttamente” - ti dicono - vuol dire imparare a non usare le armi a sproposito. Ma il senso vero, specialmente se impersonato da un educatore-tiratore traspare facilmente: “corretto” è il tiro che centra il bersaglio. Lo sparatore del Virginia Tech ne ha centrati trentatré, senza contare i feriti.
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Spostiamoci ora sull’altro lato della tenaglia, la pena di morte che continua ad essere eseguita in trentasei Stati americani, nonostante vistose prove e documentazioni di errori giudiziari, di condannati innocenti e di esecuzioni lunghe e terribili dovute a macabri errori.
Viene dall’Italia il messaggio che potrebbe interrompere la sequenza senza sfidare l’orgoglio e la legittima rivendicazione del diritto di decidere degli Stati che - come l’America - continuano a credere nella pena capitale. Il messaggio - è necessario ricordarlo - è di Marco Pannella. Da 25 giorni digiuna per dire: «fermatevi. Non occorre rivedere alcuna legge, aprire alcuna disputa, discutere principi che alcuni ripugnano e ad altri appaiono sacri. Fermarsi vuol dire solo smettere di eseguire le condanne. Il termine è “moratoria”». Moratoria universale per la pena di morte nel mondo.
Il senso è «Io non pretendo di essere più giusto di te. Ti chiedo solo di fermarti e dare spazio e tempo al confronto di idee». A chi lo sta dicendo Pannella con la sua testarda manifestazione che sembra locale e riguarda il mondo e stranamente provoca meno attenzione del premio di maggioranza alla tedesca? Lo sta dicendo al governo italiano affinché presenti - insieme a molti altri governi che condividono la civiltà della proposta - una risoluzione che la Assemblea generale delle Nazioni Unite potrebbe votare (ci si è quasi riusciti in passato) in questa sessione. Cioè subito. È ovvio che non stiamo parlando di un simbolo. La moratoria che dice “Basta morte di Stato” è un messaggio che si estende all’impegno di far prevalere la politica sulla guerra, la trattativa sull’ultimatum, la forza del diritto sulla forza delle armi. E qui, all’altro capo della grande questione troviamo l’enorme fenomeno della libera circolazione delle armi. E noi, che in Italia ne fabbrichiamo di ottime e ci vantiamo che vadano forte sui mercati di Stato di Usa e Cina, non possiamo chiuderci in un comodo giudizio di condanna della “solita violenza americana”.
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Un argomento è che la moratoria o riguarda il mondo o non riguarda nessuno e dunque ci collega in modo attivo e intelligentemente interventista all’orrore delle stragi, che sono esecuzioni informali.
Un altro argomento - e qui so di forzare le motivazioni assai più ecumeniche e rispettose della moratoria sulle esecuzioni delle condanne a morte invocata da Pannella - è che è urgente spezzare una cultura della destra che salda l’uomo “giusto” che distribuisce pene eque (la vita si paga con la vita) con l’uomo “giusto” che viene avanti dalla prateria dotato di armi adeguate, fiero del diritto di portare quelle armi, implicitamente consapevole del diritto a usarle.
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Cominciano insieme, nella recente storia politica americana, il ritorno (dopo un lungo intervallo senza esecuzioni) della pena di morte, principio e pratica, e il riaffermare intenso, continuo, fanatico del diritto di portare le armi, che risponde alle esigenze di una vasta e moderna produzione di pistole e fucili molto più che al principio costituzionale vecchio di secoli e tutt’altro che invocato da gran parte degli americani. Il debutto avviene nel 1988 quando, nel corso della campagna elettorale del democratico Dukakis, allora governatore del Massachusetts contro George Bush padre, un detenuto nero condannato per stupro ha stuprato e ucciso mentre era in permesso fuori dal carcere. L’evento ha stroncato Dukakis, riaperto la strada alla pena di morte e - nel corso della stessa campagna elettorale - rilanciato il diritto dei cittadini liberi e “giusti” di portare armi. Si tratta di armi leggere dell’ultima generazione. Ma tutto è avvenuto lungo un percorso promozionale in quattro tappe: prima la pistola per difesa, poi il fucile per la caccia, quindi il semiautomatico che, con lievi modifiche artigianali diventa arma automatica da guerra. Infine il diritto di portare “concealed weapons”, armi nascoste sulla propria persona. Ovvero il diritto di girare armati. Anche questo ritorno di fiamma della libera circolazione delle armi ha il suo momento di triste celebrazione: il capo di una setta cristiana detta “davidica” , David Koresh, che era ricercato dallo Fbi perché aveva fatto apertamente incetta di armi automatiche nella sua chiesa-fortino di Waco, Texas, è sfuggito all’assedio della polizia facendosi saltare in aria con più di 80 fedeli fra cui 19 bambini. Era il 19 aprile 1993. L’evento è stato visto e denunciato come un tentativo del governo federale di impedire agli “uomini giusti” di armarsi. Ed è stato brutalmente vendicato.
Lo stesso giorno, nel 1995, il soldato McVeigh (non si sa con quali complicità) ha fatto saltare in aria l’edificio federale di Oklahoma City: centosessantotto morti fra cui 19 bambini, lo stesso numero delle piccole vittime di Waco. Contro le richieste dell’intero mondo giuridico americano, McVeigh è stato condannato a morte. Neppure l’esecuzione della condanna ha chiuso il caso. La memoria di Oklahoma a destra è cancellata, ma non l’episodio di Waco che è ancora citato come esempio del delitto di perseguitare chi “legittimamente” vive armato. Come si è detto, la parte sanguinosa di questa storia è coperta dalla parte promozionale, “Educational Shooting”, avviare i ragazzi a sparare. I parlamentari americani per ora non si oppongono perché la lobby delle armi non scherza nel diffamare chi vuole porre un freno al loro mercato, come è accaduto nelle ultime elezioni al candidato democratico ed eroe di guerra John Kerry, come è accaduto negli otto anni della sua presidenza a Bill Clinton, ostinato avversario della libera circolazione delle armi. La strage di Virginia Tech provocherà una rivolta dell’America che si oppone? Lo abbiamo detto: molto, forse tutto, dipende dalla moratoria universale sulla pena di morte, il congelamento del simbolo, della bandiera, della cultura delle armi. Sarebbe immensamente importante per tutta la cultura democratica nel mondo. E molto più efficace della ricorrente esecrazione, dopo ogni vittima della morte di Stato e della morte di mercato. Sarebbe il segnale di una vera campagna popolare contro la circolazione delle armi e il presunto e folle diritto di uccidere. furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 18.04.07, Modificato il: 18.04.07 alle ore 9.17