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Disastro

TREVISO. INCENDIO: STABILIMENTO DE LONGHI DISTRUTTO. Le analisi avrebbero completamente escluso che nell’area ci sia stata dispersione di diossina

giovedì 19 aprile 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Oggi Treviso si risveglia dopo un incubo e restano le disposizioni della Prefettura: studenti e bambini dovranno restare chiusi nelle scuole e non potranno andare nei cortili, si invita a non consumare ortaggi e verdure raccolte nella zona dell’incendio. Giuseppe Dè Longhi, titolare dell’azienda, ha già rassicurato il migliaio di operai che temono per il loro posto di lavoro: oggi ci sarà una riunione d’emergenza per mettere a punto un piano e far ripartire l’attività in un’altra (...)

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giovedì 19 aprile 2007

"Dalla finestra sembrava il fungo di Hiroshima"

Un interminabile pomeriggio di angoscia a Treviso

di FABIO POLETTI, INVIATO A TREVISO *

In via Francesco Da Milano le tapparelle sono abbassate. Dietro i vetri chiusi si intravede un filo di luce e la gente che guarda fuori dalle finestre il buio e il nulla di questa colonna di fumo. «Sembra il fungo di Hiroshima...», dice un ragazzo mentre si infila veloce nel portone, il fazzoletto imbevuto d’acqua per combattere questo sapore acre che ti prende la gola, ancora adesso che sono passate più di sei ore. Non è Hiroshima, è Treviso, poteva essere Seveso. La De Longhi che va a fuoco, fabbrica sicura ma troppo polistirolo e plastica che provoca diossina. Una nube alta 600 metri nel cielo, che la si vede dalla laguna di Venezia e su fino a Conegliano, a 40 chilometri di distanza. Un incendio scoppiato sul tetto dove alcuni operai stavano lavorando per impermeabilizzare il capannone. Un incendio che scoppia - «Abbiamo sentito tre boati, era l’ora del telegiornale» - e che si mangia 30 mila metri quadrati di stabilimento. Ma quello che è peggio è la colonna di fumo che prima si alza nel cielo e poi spinta dai venti sembra mangiarsi Treviso.

Due ore dopo qualcuno teme l’Apocalisse. Il comandante dei carabinieri del Noe per il Nord Italia, Michele Sarno, dice che sta accadendo il peggio del peggio: «La nube sta portando su Treviso un’abbondante quantità di diossina. E’ un fatto naturale, quando si bruciano materie plastiche». Parole di un tecnico, eccessivamente zelante, si scoprirà poi, ma a tutti viene in mente una cosa sola: il viso devastato dalla cloracne di quella bambina troppo vicina alla fabbrica Icmesa di Seveso, luglio di 31 anni fa. Che possa succedere lo stesso agli abitanti di queste casette a due piani, grigie come è grigia la fabbrica di fronte? O agli alunni della scuola elementare dove i bambini giocavano in giardino, quando dall’altra parte della strada è iniziato il finimondo, con le fiamme alte e il fumo che viene su che sembra un fungo velenoso?

«Speriamo di no...», dice l’operaio Lorenzo Cescon, il cappello degli alpini in testa, la divisa della Protezione civile addosso, la maschera antigas sul volto - «E’ quella che uso quando lavoro nella mia fabbrica, reparto verniciatura» - e i pensieri che girano nella testa. Comandato per ore a stare qui, ad accompagnare gli inquilini delle case più vicine fatte evacuare per precauzione e a non far passare più nessuno, nemmeno i curiosi che non si accontentano delle riprese al telegiornale. Con l’alpino Cescon all’inizio di via Francesco da Milano ci sono tre carabinieri, le mascherine di carta, quelle che vanno bene quando c’è un po’ di smog in città, mica questa nube nera bucata dagli elicotteri che le passano in mezzo per analizzare il concentrato di polveri e materie chimiche.

Sembra Hiroshima ed invece è solo Treviso. I vigili del fuoco e gli esperti del Nucleo chimico, batteriologico e radioattivo si muovono tra i capannoni che bruciano per ore. Nella zona rossa ci possono stare solo loro. Ma il peggio è quello che potrebbe capitare nella zona gialla e bianca, quella dove ci sono le case con i giardini tenuti in ordine, i bambini che vanno in bicicletta, le donne che tornano dalla spesa e i papà che chiamano dall’ufficio e a casa non risponde più nessuno. «Ci hanno fatto evacuare, speriamo che non sia per sempre...», è terrorizzata una donna, mentre tira una valigia con le rotelle e in una mano porta due sacchetti di plastica del supermercato con dentro la prima risposta a questa emergenza. Cosa mettere in salvo: i vestiti buoni o gli oggetti preziosi? I ricordi di una vita o i libri di scuola del bambino?

Il «Ducato» della Protezione civile e il fuoristrada «Defender» con le insegne bianche e gialle e le luci arancioni girano piano nel quartiere appena fuori dal centro di Treviso, zona Fiera si chiama, e su un campetto spelacchiato ogni tanto ci sono le giostre. Per il resto solo capannoni. I più grandi sono quelli della De Longhi condizionatori, l’emblema del fresco, un paradosso davanti a queste pareti di cemento e di materiale prefabbricato sciolto per il troppo calore. Dai mezzi della Protezione civile gli altoparlanti ripetono la stessa litania: «Non uscite di casa, tenete le porte chiuse, se avete fatica a respirare mettete acqua su un panno e avvicinatela al viso». Le strade sono deserte come se ci fosse il coprifuoco, la nube di fumo sembra Hiroshima e invece è solo Treviso.

Vicino all’ospedale di Ca’ Foncello dove c’è la Chiesa votiva si alzano le tende per gli sfollati. Poco distante dallo stadio c’è un altro accampamento. Alla fine rimarranno quasi vuoti. Anche gli ospedali dove all’inizio era scattato l’allarme rosso, alla fine registrano poca cosa. Otto persone intossicate, ricoverate e subito dimesse. Qualche anziano con problemi respiratori, una donna in crisi di panico e un vigile tenuto in osservazione. Alle 17 e 40 l’Arpav emette un bollettino che a tutti fa tirare un sospiro di sollievo: «L’acido cloridrico e gli Ipa presenti nella colonna di fumo che si è prodotta non sono in concentrazioni tali da creare problema alla cittadinanza. La nube si sta spostando in direzione opposta alla città». I venti tirano verso Montebelluna, ma non c’è pericolo nemmeno lì. L’operaio Lorenzo Cescon non si toglie la maschera antigas nemmeno adesso che le 15 squadre dei vigili del fuoco hanno quasi avuto ragione delle fiamme. Le tapparelle rimangono abbassate. Per vedere quello che succede a 100 metri, i prigionieri nelle loro case si accontentano della televisione.

* La Stampa, 19/4/2007 (7:19)


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