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ILIADE E ODISSEA. Duplice il centro di elaborazione: l’Atene dei tiranni e gli esuli di Sigeo. L’ipotesi dello studioso Antonio Aloni - a cura di pfls

sabato 12 maggio 2007 di Maria Paola Falchinelli
Omero trasloca:
epica da rivedere?
Muovendo da Pilo, la città di Nestore, l’ipotesi dello studioso Antonio Aloni è che
il centro di elaborazione e l’uditorio per i cantori dell’«Iliade» e dell’«Odissea»
sarebbero duplici: l’Atene dei tiranni e gli esuli di Sigeo
di Bianca Garavelli (Avvenire, 12.05.2007)
Anche Nestore, l’eroe di un tempo antico, personaggio già anziano nell’Iliade, ha avuto un passato da giovane glorioso. E attenzione ai suoi racconti di imprese e conflitti: sono ricordi (...)

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> ILIADE E ODISSEA. Duplice il centro di elaborazione: l’Atene dei tiranni e gli esuli di Sigeo. L’ipotesi dello studioso Antonio Aloni - --- Kafka era vicino, assai più vicino di Omero; era più facile, in un certo senso, leggerlo come un pensatore politico (di Nadia Fusini).

lunedì 21 luglio 2008


-  Il segreto di Hannah
-  Quel che Kafka rivelò alla Arendt

-  Se la Weil e la Bespaloff avevano intuito il tema dello sradicamento umano, lei poté osservare l’intera parabola del totalitarismo
-  Durante l’esilio in America, la pensatrice affrontò "Il Castello" e capì il male radicale che stava stravolgendo il mondo
-  Solo la coscienza individuale può difendere il volto etico dell’esistenza
-  L’abuso della forza tramutava in dis-umani sia i persecutori che le vittime

di Nadia Fusini (la Repubblica, 21.07.2008)

Nell’agosto 1944 Hannah Arendt fu invitata ai colloqui di Pontigny-en-Amerique, che si svolgevano presso il College di Mount Holyhoke, nel Massachussets, non lontanto da Boston. Dal monastero circestense in Borgogna, armi e bagagli gli «Entretiens de Pontigny» si erano lì trasferiti, dopo l’invasione nazista del suolo francese, e Mount Holyhoke era diventato in quegli anni un sicuro riparo per chi di origine ebraica fuggisse dalle persecuzioni razziali. Del comitato di intellettuali esuli facevano parte Jacques Maritain, Gustave Cohen, Jean Wahl. Insieme con Jean Wahl, nel 1942 era arrivata Rachel Bespaloff. La quale dal ‘43 aveva preso a insegnare Letteratura Francese.

Rachel era senz’altro tra coloro che in quell’agosto ascoltarono il discorso di Hannah Arendt su Kafka. Partendo dal romanzo Il Castello, Hannah Arendt affrontava lo stesso tema della violenza, cui Rachel e Simone Weil s’erano appassionate leggendo l’Iliade. A partire da un testo letterario anche lei rifletteva sul presente.

Kafka era vicino, assai più vicino di Omero; era più facile, in un certo senso, leggerlo come un pensatore politico. E soprattutto profetico, perché Hannah Arendt rintraccia nel romanzo kafkiano la descrizione di una nuova forma di governo, sconosciuta - osserva - a Montesquieu; la forma che di lì a poco - Kafka scriveva negli anni ‘20 - il mondo avrebbe assunto. Anzi, aveva assunto.

Agli orecchi di chi ascoltava l’appassionata conferenza si profilò un nuovo nesso tra passato e futuro; un vincolo agghiacciante in cui il futuro investiva d’impeto il presente e non donava, semmai toglieva il passato, facendosi beffe di ogni umana, troppo umana arroganza. Ma se il futuro era alle spalle, e il presente intransitabile - che fare?

La domanda non è irrilevante per Hannah, la quale si presenterà sempre non come una filosofa: «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi» ripeterà più volte. Ci tiene a dirlo, quasi annunciasse in tal modo la sua vocazione, che è quella di pensare: «il mio mestiere, la mia disciplina è di pensare» afferma senza mezzi termini; e prosegue qualificando il suo proprio modo di pensare come Selbstdenken. E cioè, al modo di una che pensa da sé, che pensa da sola. Così amava dire Rahel Levin Varnhagen, la giovane donna ebrea a cui all’inizio degli anni Trenta aveva dedicato la sua attenzione. Quando nel suo salotto letterario di Berlino Rachel conversava con Schlegel, con Humboldt, con Schleiermacher, Rachel proclamava: «tutto dipende dal riuscire a pensare da soli». Appunto.

Il fatto che si pensi da soli, però, non significa che i pensieri non si intreccino in una rete di stimoli, impulsi, echi, rimandi. E’ questa trama, al contrario, che io invito a cogliere tra i pensieri di Hannah, di Rachel - questa Rachel che ora Hannah ha di fronte in ascolto - e Simone.

Dopo il seminario di Mount Holyhoke Rachel Bespaloff e Hannah Arendt si incontrarono un’altra volta a una cena a cui erano presenti, tra gli altri, Hermann Broch e Mary McCarthy. I quali saranno nel tempo grandi amici di Hannah. Ed erano stati entrambi coinvolti nella pubblicazione in inglese del saggio sull’Iliade di Rachel. Se Rachel ascoltò Hannah, perché Hannah non avrebbe dovuto leggere Rachel?

Pur nelle distinzioni che rimangono tra loro, le due donne condividono esperienze che le accomunano; l’esilio, la persecuzione, e delle letture. Kafka, Benjamin, Brecht sono nomi che dicono molto anche a Rachel. La quale in quegli anni legge i romanzi di Albert Camus e rabbrividisce alla «furia di gelida violenza» che vi trova.

K. - il protagonista del Castello - spiega Hannah voleva essere un uomo come tutti gli altri. Ma scopre che la società in cui vive non è più umana; ragion per cui, la sua intenzione, all’apparenza semplice, modesta, di realizzare i diritti umani essenziali risulterà in un progetto impossibile a realizzare. Le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una camera, osserva Hannah, ma non «a soddisfare il bisogno elementare di vivere un’esistenza umana».

Ecco, il male - che Simone aveva definito «incolore, monotono, arido, noioso», e Hannah chiama «radicale», mentre più tardi, con maggiore precisione, sostituirà l’aggettivo «radicale» con «estremo». Ecco, la violenza - e cioè, la distruzione della dignità umana, l’uccisione della personalità morale, dell’unicità dell’uomo. Ecco l’«uomo-cosa». Ecco l’«irrealtà». Un uomo di buona volontà, il quale vuole solo quello che gli spetta di diritto, e cioè una casa, un lavoro, una famiglia, il diritto di cittadinanza; un uomo che non chiede mai nulla più del giusto, le cui ambizioni sono tutte qui, ripete Hannah: avere una casa, una posizione, un lavoro - viene trattato come se chiedesse l’impossibile. Gli si fa capire che potrebbe avere quel che esige, se solo lo chiedesse come un dono, come un’elargizione dall’alto; non come un diritto. K. si rende conto di qualcosa che è accaduto senza che tutti gli altri abitanti del villaggio l’abbiano compreso; anzi, proprio senza rendersene conto, l’hanno accettato. E’ accaduto che tutto ciò che secondo natura dovrebbe essere in mano all’uomo gli è stato sottratto dal potere, e gli torna dall’alto come destino, o come dono, o come una maledizione. K. non vuole accettare quel sistema di violenza, né l’ossessione della paura in cui vive il villaggio all’ombra del Castello. Morirà spossato in una battaglia che non riesce neppure a ingaggiare.

Il potere di fatto non gli riconosce la libertà, ovvero, la «capacità umana di agire», di confrontarsi in un’«amicizia eguale» con gli altri, di costruirsi la sua propria vita. Ecco il male radicale, il male estremo che soffoca l’esistenza. - argomenta Hannah. Kafka lo rivela. Coglie il segreto doloroso, ma vero, dell’esistenza umana. Che il tramite sia l’Iliade, o il Castello, chi legge il testo vi legge il mondo.

Se avvicino Hannah Arendt a Simone Weil (e a Rachel Bespaloff) non è per stringerle in una identità di vedute che le scolorisca l’una sull’altra. Sono al contrario ben avvertita del «doppio paradosso» di cui parla Roberto Esposito nel suo bel libro L’origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, uscito qualche anno fa per Donzelli: quel che le avvicina, nel loro caso, sono d’accordo, è una «lontananza approssimante», «una distanza che congiunge». Ma le risonanze contano e quello «sradicamento umano», che sia Simone sia Rachel avevano intuito nei loro anni, e ora si stava realizzando, Hannah, che sopravvisse loro, ebbe il tempo di vederlo. Simone, ricordo, morì nel 1943. Rachel nel ‘49.

Hannah nel ‘65. Erano nate Simone nel 1909, Rachel nel 1895 e Hannah nel 1906. Se le prime due conobbero la sola ipostasi nazi-fascista, Hannah potè osservare per intero compiersi la parabola del fenomeno totalitario. Ebbe modo dunque di portare a fondo un’intelligenza che si nutrì anche dell’incontro con il pensiero delle altre due donne. Anzi, con un pensiero femminile che non separava la filosofia dalla vita, né la lettura dall’esistenza.

Un pensiero la cui potenza di illuminazione cresceva in proporzione all’indignazione etica, secondo una piega che muoveva la sensibilità e l’intelligenza a prendere il punto di vista dell’altro, a mettersi nei panni del più debole.

La «forza» torna al centro della sua attenzione. Simone l’aveva detto: «non credo che si capisca molto dei rapporti umani, se non si mette al centro la nozione di forza». Hannah la segue; ma di quella forza, che Simone vede come costante universale della natura umana (della quale verità l’Iliade è «il più bello, il più puro degli specchi»), vuole descrivere l’espressione "nuova", frutto dei regimi totalitari che indaga. Nel mondo di Hannah, secondo Hannah, è accaduto qualcosa di nuovo, una degenerazione, una perversione, una mostruosità abnorme in cui l’abuso della forza tramuta in dis-umani sia i persecutori, sia le vittime.

Tutto è forza, «salvo in un punto» aveva detto Simone. In quel «punto» aveva identificato una specie di non-forza, una specie di negativo della forza, e l’aveva chiamato Amore. Amore tiene in pugno Ares, aveva detto. Rachel quel «punto» lo chiama piuttosto poesia, ovvero la capacità del poeta di mantenere viva nella parola l’avventura umana della conoscenza. La sua difesa di un luogo dell’interiorità, dove l’esistenza prende un volto etico.

Per Hannah quel «punto» è la coscienza individuale. La forza ha il potere di «congelare l’anima», aveva detto Simone. Hannah riprende l’immagine, e la modula diversamente: mai nessun potere, afferma, ha preteso l’annientamento della presenza umana, se non quello totalitario. Mai nessun potere ha voluto con altrettanta determinazione annichilire la coscienza. Qui si vuole non soltanto l’obbedienza; qui si vuole l’annientamento non solo della vittima, ma anche del carnefice. Qui si distrugge non solo l’ebreo, ma il nazista. Si annienta l’uomo. E tale degenerazione non è iscritta nelle cellule del potere; semmai, ne è l’esito perverso.

Su questo punto tra le tre donne non c’è accordo. Non si tratta di stabilire oggi, a distanza di anni chi ha torto e ragione. Ma di non dimenticare l’ascolto di cui sono state capaci proprio mettendo a tema ognuna a suo modo la loro differenza.

Perché oggi si ha l’impressione che sia necessario pensare la libertà, e ripensare la politica.

(fine - le altre puntate sono uscite il 15 e il 18 luglio)


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