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Per una nuova antropologia e una nuova pedagogia - quella dell’Amore (Deus charitas est), non quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est") della Chiesa Cattolico-romana!!!

SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA". La lezione di Sigmund Freud (l’"Istruzione sessuale dei bambini") e una nota di Federico La Sala

domenica 22 luglio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Per uscire dalla barbarie non ci sono altre strade: bisogna spezzare il cerchio vizioso della cecità e della follia e aprire gli occhi all’altro, all’altra, e a noi stessi e a noi stesse. E’ attraverso la mediazione delle cause interne che quelle esterne producono il loro effetto - questo ci hanno sempre detto i grandi saggi, e anche Freud. E, alla fine della sua vita (1938), lo dice in tutta chiarezza: Gesù è stato interpretato edipicamente - in modo tragico! Lo sapeva già anche (...)

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mercoledì 23 maggio 2007

Una fabbrica di favole o disciplina necessaria? Due libri a confronto LETTINO E MISFATTI

Se lo psicoanalista fugge dalla Storia

di Umberto Galimberti *

Un giorno una donna si presenta nello studio che il dottor Freud aveva appena aperto a Vienna dopo le sue sfortune accademiche, per esporgli un quadro di sofferenze che lo stesso Freud faticava a trattare. Dopo diversi incontri Freud decise di inviare la paziente al dottor Fliess, famoso otorinolaringoiatra di Berlino che teorizzava una stretta relazione tra il naso e i mali dell’organismo. Questa relazione Freud l’aveva già sperimentata su di sé a proposito di certi suoi spasmi cardiaci superati dopo un trattamento nasale.

La poveretta, che si chiamava Emma Eckstein, fu sottoposta da Fliess a un’operazione al naso che la lasciò sfigurata, anche perché nella cavità nasale era stata dimenticata una benda. Ne seguì un’emorragia che portò la paziente vicino alla morte, ma Freud, amico di Fliess, difese a tal punto l’operato del collega da interpretare quell’emorragia come un sintomo isterico. La paziente, ripresasi, tornerà da Freud per curare la diagnosticata isteria e dopo alcuni anni diventerà essa stessa analista.

Di questi episodi la psicoanalisi alle sue origini, ma forse non solo alle sue origini, ne annovera molti, e probabilmente le cose non possono andare diversamente quando la volontà interpretante prevale sulle vicende della vita e sulla versione che ne dà il senso comune. Ma il sapere non è mai nato dal senso comune perché la pigrizia intellettuale, che è poi il terreno infecondo del senso comune, lascia le cose come sono, senza forzarle a cedere il segreto che custodiscono.

Approfittando di questo e di molti altri casi simili che la storia della psicoanalisi annovera, quaranta studiosi francesi dalle competenze più svariate sferrano un attacco senza precedenti alla psicoanalisi, accusandola di non essere una scienza, ma solo una fabbrica di favole, di non aver alcun effetto terapeutico se non quello generico di un placebo, di non condurre alla conoscenza di sé perché seleziona il materiale clinico all’unico scopo di trovare una conferma alle proprie teorie, di non promuovere alcuna ricerca, ma solo una difesa dei propri interessi economici e di potere.

Quando nel 2005 Il libro nero della psicoanalisi (oggi tradotto in italiano da Fazi Editore, pagg. 690, euro 29,50) uscì in Francia, Massimo Ammaniti intervenne opportunamente su Repubblica per denunciare che un simile attacco era rivolto a quel settanta per cento di psichiatri francesi che, nei loro trattamenti, utilizzavano la psicoanalisi o terapie di derivazione psicoanalitica. Quindi una guerra interna dove anche la cultura finisce stritolata e un po’ malmenata nei giochi di potere, per la gioia di chi diffida della psicoanalisi e, senza volerci entrare, plaude ad attacchi impropri come questo che accusa la psicoanalisi di non rispondere a criteri scientifici quando la psicoanalisi non ha mai preteso di essere una scienza.

La ragione è molto semplice. Il metodo scientifico prevede l’oggettivazione dell’uomo, la sua riduzione a cosa, e pertanto è incompatibile con la psicologia che non può annullare la soggettività e l’individualità dell’umano a cui essa è naturalmente ordinata. Queste cose le ha dette a chiare lettere Dilthey più di un secolo fa, le ha ribadite Jaspers, Husserl e Binswanger che hanno sottratto la psicologia all’ambito delle scienze della natura (Naturwissenschaften) per iscriverla tra le scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) oggi denominate «scienze ermeneutiche». Stupisce che i francesi queste cose non le abbiano ancora imparate. Il loro atteggiamento assomiglia a quello di chi volesse affrontare lo studio della storia partendo dalle leggi della fisica o, per essere più comprensibili, di chi pretendesse di giocare a tennis tirando in porta.

Molto più interessante è leggere il libro di Eli Zaretsky, professore di storia presso la New York School University, autore de I misteri dell’anima. Una storia sociale e culturale della psicoanalisi (Feltrinelli pagg 520 euro 45) dove la psicanalisi esce dagli studi degli psicoanalisti per entrare in modo radicale nella società e nella storia della cultura, a cui fornisce gli strumenti teorici e pratici che rafforzano i nuovi valori che la modernità è andata proponendo.

In primo luogo il «principio dell’autonomia» che significa la libertà di decidere da soli cosa è giusto e cosa è sbagliato, anziché seguire un percorso stabilito dai propri natali, dalla consuetudine, dalla condizione economica. Nel tentativo di capire perché tale autonomia fosse così difficile da conseguire la psicoanalisi elaborò i concetti di ambivalenza, di resistenza, di meccanismi di difesa che aiutarono il processo di emancipazione.

Allo stesso modo la psicoanalisi contribuì all’emancipazione femminile e al riconoscimento dei diritti dell’omosessualità, sfatando l’idea ottocentesca di una totale alterità dei generi e ridefinendo il genere come scelta dell’oggetto sessuale, portando in primo piano l’individualità nella sfera dell’amore sessuale e l’aspirazione a una vita personale che non fosse in ogni suo aspetto subordinata ai codici sociali.

Dando espressione alla vita personale e sottolineando la distinzione tra pubblico e privato, la psicoanalisi ha emancipato dall’autorità paterna, centripeta, gerarchica e incatenata alla famiglia, e ha dato un significativo contributo all’interiorizzazione del concetto di "democrazia", lasciando intravedere la possibilità di nuove e più riflessive relazioni con l’autorità, nonché l’ingresso nella sfera pubblica di istanze considerate private come l’esercizio della sessualità, la libertà da vincoli irrevocabili, il diritto dell’individuo di operare scelte a partire dalla propria personale natura, considerata non per come appare, ma per come è vissuta.

Oggi, se un invito si può e forse si deve rivolgere alla psicoanalisi è quello di non abbandonare questo stretto contatto con la società e con la storia e andare ad esempio a indagare se accanto a un «inconscio pulsionale» non si sia formato negli uomini del nostro tempo anche un «inconscio tecnologico» che condiziona l’io risolvendo la sua identità in funzionalità, la sua libertà in competenza tecnica, la sua individuazione in atomizzazione, la sua specificità in omologazione.

E come nella vita impersonale della specie a cui appartiene, nelle vicissitudini del suo corpo che segue il proprio ritmo autonomo, l’io trova se stesso nell’inconscio pulsionale da cui cerca di emanciparsi, così nella vita sociale, in qualità di produttore e di consumatore, l’io incontra se stesso come funzionario dell’apparato tecnico, o addirittura come anello di quella catena che l’inconscio tecnologico sopraggiunto connette con il mondo delle macchine che, siano esse amministrative, burocratiche, industriali, commerciali, esigono l’omologazione dell’individuo.

Ciò significa che l’individuo realizza solo se stesso quanto più attivamente si adopera alla propria "passivazione", che consiste nella sua riduzione a semplice ingranaggio dell’apparato tecnico, a sua espressione, con progressivo decentramento da sé, e trasferimento del suo centro nel sistema tecnico che lo riconosce come sua componente e, riconoscendolo, gli conferisce un’identità appiattita sulla sua funzionalità.

Di questi problemi si sono accorti, prima degli psicoanalisti, i filosofi che proprio per questo hanno ideato la «consulenza filosofica» che gli psicoanalisti guardano con sospetto, invece di instaurare un proficuo dialogo, perché la psiche umana non è qualcosa di immutabile, di cui la psicoanalisi ne avrebbe scoperto una volta per tutte la struttura, ma è qualcosa che cammina con la storia e con la storia si modifica. Non seguire queste modificazioni potrebbe significare, per la psicoanalisi, chiudere definitivamente la sua storia.

Fonte: la Repubblica, 21.05.2007, p. 31


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