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Per una nuova antropologia e una nuova pedagogia - quella dell’Amore (Deus charitas est), non quella di "Mammasantissima" e di "Mammona" ("Deus caritas est") della Chiesa Cattolico-romana!!!

SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA". La lezione di Sigmund Freud (l’"Istruzione sessuale dei bambini") e una nota di Federico La Sala

domenica 22 luglio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Per uscire dalla barbarie non ci sono altre strade: bisogna spezzare il cerchio vizioso della cecità e della follia e aprire gli occhi all’altro, all’altra, e a noi stessi e a noi stesse. E’ attraverso la mediazione delle cause interne che quelle esterne producono il loro effetto - questo ci hanno sempre detto i grandi saggi, e anche Freud. E, alla fine della sua vita (1938), lo dice in tutta chiarezza: Gesù è stato interpretato edipicamente - in modo tragico! Lo sapeva già anche (...)

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> SESSO (EROS) E AMORE (AGAPE, CHARITAS). L’ARTE DI AMARE: COSTITUZIONE E "KAMASUTRA". ---- Identita’ e destino... L’inizio e la fine: ipotesi sulla vita (di Emanuele Severino).

domenica 22 marzo 2009

Identità e destino.

Il dibattito su corpo e resurrezione, su esistenza e morte. Il «prossimo» del Vangelo e la legge morale di Kant

L’inizio e la fine: ipotesi sulla vita

Fede e ragione si interrogano (e si sfidano) su che cosa definisce un essere umano

di Emanuele Severino (Corriere della Sera, 20.03.2009)

Quando incomincia la vita umana? Quando finisce? Cosa significa «vita umana », «uomo»? Pressoché assente, invece, quest’altra domanda: «Esiste l’uomo? ». Certo, essa sembra paradossale, un perditempo fuori luogo. Sanno tutti che un uomo è un corpo che agisce e si esprime, guidato da sentimenti e pensieri. Di uomini ne vediamo tanti ogni giorno. Ma a rendere umano un corpo sono quei sentimenti e pensieri; che però non si lasciano vedere, toccare, sperimentare, nemmeno nell’amore più profondo. Se ne deve congetturare il contenuto, l’intensità, la provenienza, la direzione. A volte si coglie nel segno; a volte no. Nella vita quotidiana, comunque, non ci si rende conto che l’esistenza stessa dei sentimenti e pensieri altrui, dunque l’esistenza stessa dell’uomo, è una congettura. Dell’uomo, dico, ossia del «prossimo» e di me stesso in quanto mi credo radicalmente legato al mio prossimo. Tanto poco «evidente», l’esistenza dell’«uomo», quanto lo è l’esistenza di «Dio». La filosofia lo sa da tempo, anche se una delle questioni più complesse è appunto il significato dell’«evidenza».

Che l’uomo, il suo esser «prossimo» esista è qualcosa di voluto. Ossia di creduto. Qualcosa di discutibile, dunque. Si ha fede nell’esistenza dell’uomo; anche se nella vita quotidiana si crede (si ha fede) che certi esseri siano indiscutibilmente degli uomini. Esistono innumerevoli «conferme» di questa fede; ma che certi eventi siano «conferme » è daccapo una fede: come è soltanto una fede che i baci siano una conferma dell’amore, visto che si può esser baciati da chi ci tradisce.

Per Gesù il prossimo è chi viene amato («Ama il tuo prossimo»); e quindi è prossimo proprio perché viene amato. Dunque è prossimo anche l’amante (il buon Samaritano lo è rispetto all’uomo derubato), giacché se l’amore rende prossimo, cioè vicino, l’amato, anche l’amante si avvicina all’amato, gli si rende prossimo. Un essere è reso «prossimo» dall’amore, ma l’amare è il contenuto della «Legge», ossia di un «Comandamento »; e non si comanda quel che si ritiene «evidente». Al sole che splende nel cielo non si comanda di illuminare la Terra, né a un albero si comanda di non essere una pietra. Se per Gesù il prossimo è l’amato-amante, l’amore è un atto di volontà (persino quando non si può fare a meno di amare); dunque anche per Gesù che il prossimo esista è qualcosa di voluto, creduto, è una fede da cui ci si può quindi allontanare. (Si può dire che il vacillare di questa fede stia all’origine del massacro che incomincia con l’uomo, ma lo si può dire stando all’interno di questa fede). Anche per Kant che certi esseri debbano essere trattati come prossimo è il contenuto della «legge morale», di un «imperativo », di un comando. È un dovere morale credere che il prossimo esista, non è la constatazione di un fatto indubitabile. All’inizio della vicenda dei mortali sulla Terra tutto è per essi «prossimo » (e demonico): luce e suolo, acque, monti, cielo, stelle, animali e piante, vento, tuono, pioggia, lampo e, certo, anche questi esseri a cui oggi abbiamo ridotto l’ampio cerchio antico del «prossimo» e che chiamiamo «uomini». Ma questa riduzione non ha fatto ancora uscire dalla semplice fede, dalla semplice volontà che certi eventi siano il «prossimo».

L’esistenza stessa della vita altrui è un grande arcano e oggi, dimenticando tutto questo, si discute con convinzione per stabilire quando la vita altrui incominci e quando finisca! Di più: si ritiene che non ci sia niente, o più niente, da dire intorno al significato dell’«incominciare» e del «finire», e a questo punto l’inadeguatezza della riflessione tocca il fondo. Dalla quale non sanno liberarsi né scienza, o cristianesimo e altre forme religiose, né arte e filosofia. Si discute con convinzione per stabilire il momento dell’inizio e della fine di qualcosa - il «prossimo» e «io» stesso in quanto mi sento legato ad esso dalle radici - che potrebbe non esserci affatto. Si può replicare dicendo che la cosa non è poi così scandalosa, giacché è lecito e tutt’altro che insensato discutere sull’inizio e la fine di qualcosa la cui esistenza è probabile; e che anzi è insensato ritenere che alle nostre certezze possa competere qualcosa di più della probabilità più o meno elevata, cioè quel di più che sarebbe la loro «verità assoluta e definitiva». Un «sogno finito»; svegliamoci. Ma - rispondiamo - è davvero finito? Sì, dato il modo in cui ci si è addormentati. No, se si riesce a scorgere che c’è dell’altro, che da sempre circonda quel sogno e quel risveglio e che è libero da entrambi.

È stato comunque, quel sogno, grandioso: il sogno della «ragione». Se lo si dimentica, il risveglio è ben poca cosa, è un altro sogno. Il sogno della ragione evoca un sapere che stia al di sopra di ogni fede e di ogni volontà, un sapere che affermi che le cose stanno in un certo modo non perché si vuole e si ha fede che così stiano, ma perché esse stanno incontrovertibilmente così. «Il morire tra ragione e fede» è appunto il tema del Convegno che si terrà in questi giorni all’Università di Padova. Ma ci si vorrà accontentare del discorso (il discorso della scienza, di cui oggi la Chiesa si fida, ossia in cui oggi ha fede) per il quale è «probabile» che l’«uomo» esista, è «probabile» che la sua vita incominci in un certo momento e in un cert’altro finisca?

Si dice che «ognuno di noi» sperimenta la morte del prossimo, non la propria. Ma poiché l’esistenza stessa del prossimo non è sperimentata, del prossimo non si può sperimentare nemmeno la morte (o la nascita). Si sperimenta il sopraggiungere di configurazioni via via diverse di ciò che chiamiamo «il corpo altrui», sino a quella, angosciante, che chiamiamo «cadavere» (e poi altre ancora, come gli scheletri e le ossa, che le feste e i riti arcaici mostrano di considerare ancora come «prossimo»).

Configurazioni via via diverse e, certo, sempre più terribili. Che tuttavia non mostrano quanto è più terribile e angosciante: l’annientamento delle precedenti configurazioni del corpo altrui. Il cadavere mostra sì qualcosa di orrendamente diverso dalla vita da cui è preceduto, ma non mostra l’annientamento di questa vita. Gli uomini hanno imparato che, quando il cadavere compare sulla scena, la vita da cui è preceduto non ha più fatto ritorno, e hanno pensato che questo mancato ritorno sia l’«annientamento » della vita. Non appare, non si fa esperienza dell’annientamento della «beltà» di Silvia («Quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi »), ma appare, dopo le configurazioni del tempo dello splendore di Silvia, il suo «chiuso morbo» e il suo cadavere.

E l’annientamento non può apparire, perché quando si crede che le cose si annientino è necessario che si creda anche che non se ne possa più fare esperienza, ed è quindi impossibile che l’esperienza mostri a quale destino siano andate incontro le cose che da essa sono uscite. Appunto per questo ogni vita e ogni cosa che dopo il proprio calvario esce dall’esperienza «può» ritornare. Se qui si potesse spingere fino in fondo il discorso, si dovrebbe dire anzi che «è necessario » che ritorni.

Sia la ragione, sia la fede (e innanzitutto la fede cristiana e delle altre due religioni monoteistiche) credono che l’annientamento delle cose e dei viventi (e il loro uscire dal niente) costituisca quanto di più «evidente» vi sia, di più manifesto, di più esperibile. Ma alterano ciò che si manifesta, gettano sul suo volto la maschera della morte-che-annienta, l’autentico «pungiglione della morte». La resurrezione dei corpi e della carne, annunciata dal cristianesimo, è certo un tratto della maschera: per risorgere, la carne deve essere diventata niente. La resurrezione è figlia legittima del pungiglione mortale. Eppure, sebbene profondamente sviante, quell’annuncio è una metafora del destino di ciò che, uscendo dalla manifestazione delle cose del mondo, non è diventato niente, ma, eterno, attende di ritornare, nella sua gloria.

All’università di Padova

Confronto tra il filosofo e il patriarca di Venezia

Si apre oggi, alle 9.15, all’Università di Padova, nella sala dell’Archivio antico di Palazzo Bo, il convegno internazionale «Il morire tra ragione e fede: universi che orientano le pratiche di aiuto». I lavori iniziano con un dibattito, moderato da Armando Torno, tra il cardinale Angelo Scola (Patriarca di Venezia) e il filosofo Emanuele Severino (del quale pubblichiamo in anteprima alcune considerazioni sull’argomento). L’iniziativa è nata da un accordo tra il rettore dell’Università Vincenzo Milanesi, il sindaco Flavio Zanonato e il preside della Facoltà Teologica del Triveneto Andrea Toniolo. La direzione scientifica si deve a Ines Testoni, con il concorso delle Facoltà di Scienze della Formazione, di Medicina e Chirurgia, del Dipartimento di Psicologia Generale.

Tra i relatori: Enrico Berti, Dora Capozza, Antonio Da Re, David Spiegel, Michael Barilan. Tra i patrocinatori figura la «World Cultural Psychiatry Research Review».


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