La vera radice della politica
di Giovanni Cesareo (il manifesto, 25.05.2007)
Gianni Ferrara, sul manifesto di mercoledì, sostiene che il problema di fondo oggi è quello di «rispondere alla domanda di che cosa sia diventata la politica». Mi sembra giusto ma penso che a questa domanda si possa rispondere davvero se si comincia col riflettere sull’uso stesso della parola «politica».
Ormai da parecchio tempo, quando si dice «politica» ci si riferisce alle istituzioni e, spesso, al mondo dei «professionisti della politica». E con ciò stesso si sconta la separazione della «politica» dalla «società civile» e, infatti, lo si ammette esplicitamente. Qui, secondo me, sta la vera radice del problema. Perché la politica, invece, andrebbe intesa come attività sociale, pubblica, quotidiana di tutti i cittadini e, prima ancora, come modo di concepire il mondo e le relazioni che contribuiscono a configurarlo e a indirizzarlo. Se riflettiamo un momento, ci rendiamo conto che questo era, all’origine, il significato autentico di «politica» (non per nulla la radice è polis) e, d’altra parte, ancora alcune decine di anni fa, questo era il modo di intenderla, almeno nelle dichiarazioni pubbliche, e in questa direzione si cercava di praticarla. I partiti non sono forse nati proprio per offrire ai cittadini uno strumento destinato a permettere il loro intervento nella «cosa pubblica» e a organizzare la loro rappresentanza?
Se si accetta questa visione non basta, però, «rivalutare la nobiltà della politica», come auspica Giovanni Berlinguer nella sua intervista a Parlato sul manifesto della settimana scorsa. Un’intervista, peraltro, di grande livello e interesse, che merita di essere il punto di partenza per una riflessione e una discussione larga, aperta e approfondita in vista della costruzione di una nuova, autentica sinistra nel nostro paese che, come afferma lo stesso Berlinguer, cominci con l’impegnarsi nella lotta per «i beni comuni» e per l’eguaglianza.
Credo che temi primari di questa discussione - che potrebbe e dovrebbe coinvolgere anche i «movimenti» - dovrebbero essere appunto la concezione stessa della politica, la strutturazione dei rapporti tra i cittadini e tra i cittadini e le istituzioni, l’attività sociale di tutti in tale contesto, e, infine, la pratica e la concezione stessa del potere.
Il che ci porta, com’è ovvio, alla concezione e alla pratica della democrazia. La quale sembra oggi ridotta «a mero esercizio del rito elettorale» e quindi conciliabile con l’antipolitica, come ha acutamente osservato Ida Dominijanni. Siamo ben oltre una crisi congiunturale della democrazia rappresentativa come sembra ritenere Ferrara: in realtà, l’ho scritto altre volte, siamo a una crisi irreversibile di questa forma - peraltro limitata - di democrazia (che, tra l’altro, non si riscontra soltanto in Italia, come molti ormai osservano - spero per non cavarsela con la giustificazione del... male comune).
Credo che oggi da questa crisi non si possa uscire che in due direzioni: verso una «democrazia autoritaria» o verso una «democrazia partecipata». Dunque, la riflessione e la discussione su queste prospettive non può che essere il logico sviluppo della riflessione e della discussione sulla politica. Che dovrebbe includere anche una coraggiosa e robusta analisi autocritica sul passato, sul lungo percorso della sinistra, delle sinistre nel secolo scorso: perché a me pare che un gravissimo errore commesso all’inizio degli anni ’90, quando si sciolse il Pci, fu quello di omettere quest’analisi autocritica e di avviasi verso il futuro cercando di adottare la famosa regola dello «...scurdammoce ’o passato» e via così.
In realtà solo dall’analisi autocritica del passato e dalla più larga riflessione sul presente possono nascere le ipotesi, teoriche e pratiche, sul futuro. In questo senso, l’invito di Berlinguer a «cambiare radicalmente i comportamenti» e a avviare una «campagna di ascolto, di dialogo e di proposta» mi sembra imprescindibile. Anche perché la partecipazione, come osservava a suo tempo un uomo che se ne intendeva, Paulo Freire, non è un comportamento che le persone comuni richiedono spontaneamente: la partecipazione, diceva Freire, va deliberatamente stimolata, insegnata, strutturata, sviluppata e praticata secondo le differenti possibilità e esigenze che si pongono nei diversi contesti sociali.
Sono convinto che solo questa possa essere la via per restituire alla politica e quindi alla democrazia il loro autentico significato e anche per mostrarne ai cittadini i concreti vantaggi che possono derivarne non solo nella gestione dei pubblici poteri ma anche nella vita concreta, quotidiana di ciascuno.