Inviare un messaggio

In risposta a:
Come in cielo così in terra ...

POLITICA E LINGUAGGIO. IL SENZA-NOME: LE FIGURE DI NESSUNO. Roberto Esposito riavvia il discorso sulla "Terza Persona" ... e apre la strada a una comprensione antropologica inedita della Prima (e Quarta) "Persona" del "Tetragramma" divino e dello stesso "Logos" - a cura di Federico La Sala

lunedì 9 luglio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Dal ragionamento di Esposito affiora non tanto la condanna dell’idea di persona, ma la critica al suo fondamentalismo: «Pensi alla retorica sui diritti umani letti in chiave di riproposizione del concetto di persona». Apparentemente ineccepibile, in realtà largamente fallimentare: «Basta uno sguardo al quadro internazionale per accorgersi che il diritto oggi di gran lunga più disatteso è proprio quello alla vita. Non che in passato fosse meglio. Ma adesso, in relazione ai mezzi (...)

In risposta a:

> AL DI LA’ DELL’ "IO" E DEL "TU", "EGLI", "ESSO": NUOVI SCENARI TERRESTRI E CELESTI. IL SENZA-NOME: FIGURE DI NESSUNO. Roberto Esposito riavvia il discorso sulla "Terza Persona" ... il criterio dell’inerme (Dominjanni sull’"Orrorismo" di A. Cavarero)

domenica 10 giugno 2007

violenza

Il criterio dell’inerme

L’inadeguatezza dei concetti moderni della guerra e del terrorismo impongono un salto di paradigma per interpretare la violenza globale. «Orrorismo», la provocatoria proposta di Adriana Cavarero

di Ida Dominijanni (il manifesto, 09.06.2007)

I bambini iracheni dilaniati da un attentatore suicida a Baghdad il 12 luglio 2005. Gli invitati a un matrimonio di un villaggio iracheno al confine con la Siria, massacrati il 19 maggio 2004 dai missili lanciati «per sbaglio» dagli americani. La giovane kamikaze cecena di nome Ajza di cui, dopo l’autoesplosione, il padre raccoglie in un sacchetto ciò che resta, cioè la testa coi capelli arruffati, una spalla e un dito. La donna con una maschera di garza sul viso che è diventata l’icona fotografica degli attentati di Londra del 7 luglio 2005. I diciotto civili annientati a Damadola, Pakistan, il 14 gennaio 2006, in un prolungamento della guerra contro l’Afghanistan, da aerei americani senza pilota telecomandati da una base del Nevada. Le teste dei sequestrati occidentali mozzate davanti alla telecamera dalle bande irachene. I corpi umiliati a Abu Ghraib davanti alla macchina fotografica dalle torturatrici americane.

Si muove fra questi e altri materiali di quel sequel dell’orrore che è il nostro presente il nuovo libro di Adriana Cavarero, un titolo - Orrorismo - che è un programma. «Orrorismo» è una parola inesistente nel vocabolario italiano, orrenda e respingente come quello che, nelle intenzioni dell’autrice, vuole significare. Che cosa? Il salto di scala che la violenza sugli inermi sta compiendo nel teatro globale del terrorismo e della guerra. «Un neologismo - scrive Cavarero - è sempre un azzardo, e quando sia coniato a tavolino lo è ancora di più». Se decide di giocarlo, è perché i nomi tradizionali non bastano più a dire la realtà; la lingua va in scacco di fronte all’impazzimento dei fatti, e con la lingua il pensiero.

Che i concetti della tradizione politica moderna non bastassero più a interpretare il presente fu improvvisamente chiaro l’11 settembre del 2001, davanti a quei quattro aerei-kamikaze nei cieli americani che più che un atto di terrorismo sembravano configurare una dichiarazione di guerra. E divenne ancor più chiaro un anno dopo, quando la National Security Strategy di Bush delineò quel teorema della «guerra preventiva» che faceva carta straccia di tutte le definizioni e regolamentazioni della guerra convenzionale. Del resto, seguendo i tracciati di genealogia dei concetti moderni di «guerra» e «terrorismo» che Cavarero ricostruisce, si capisce che l’arte della distinzione esercita dalla filosofia politica e dalla scienza giuridica non ha mai retto granché alla prova della storia: se è vero che il paradigma della guerra regolare fra stati era già stato messo in mora nel Novecento dai combattenti «irregolari», come comprese Carl Schmitt nella Teoria del partigiano già all’inizio degli anni Sessanta; e se è vero che la definizione di terrorismo come forma criminale di violenza incompatibile con la guerra convenzionale è messa in mora ab origine dal carattere statuale di tutti i regimi del terrore, da quello giacobino in avanti. Ma oggi più che mai, di fronte a «guerre regolari» che fanno dello sterminio dei civili la norma e a un terrorismo «irregolare» che agisce su scala planetaria, quell’arte della distinzione vacilla e si perde nel comune teatro della devastazione. Dove tuttavia, se «sul piano della macelleria la bilancia pende decisamente dalla parte della guerra e della sua propensione a tecnologizzare il massacro», sul piano concettuale va invece al terrorismo il primato di una doppia innovazione - l’uso del corpo suicida per uccidere altri corpi, e l’individuazione dell’obiettivo in chiunque, ovunque e in qualsiasi momento - che fa la differenza dal passato.

Il salto di scenario comporta dunque un salto di paradigma interpretativo, contro l’ostinazione sia degli specialisti sia dei massmedia a leggere quello che accade con lo schema usurato della guerra fra stati (o di provvisorie deroghe a quello schema). La chiave dell’«orrorismo» proposta da Cavarero apre invece almeno due porte. Per un verso, punta lo sguardo sull’orrore come ingrediente centrale, e non collaterale, sia della guerra sia del terrorismo di oggi: per «orrore» intendendosi il salto dell’obiettivo dalla morte al massacro del nemico, e dalla sua sconfitta alla sua disumanizzazione attraverso lo sfiguramento del suo corpo e della «singolare umanità» che ogni corpo racchiude. Per l’altro verso, la chiave dell’«orrorismo» domanda uno spostamento del punto di vista: dal «criterio del guerriero», dominante nei paradigmi tradizionali e della guerra e del terrorismo, al criterio della vittima inerme - spostamento che a sua volta comporta l’abbandono della logica mezzi-fini come bussola di valutazione politica della violenza e dei suoi effetti.

Non si tratta solo - solo? - di sostituire alla centralità del carnefice la centralità della vittima. Nel «criterio dell’inerme» proposto da Cavarero precipita una più ampia riflessione filosofica, non a caso femminile, che dall’11 settembre in poi accompagna la rilettura del mondo globale, dei suoi dispositivi di dominio, delle sue strutture politiche ed economiche, con una rilettura dell’ontologia del presente incentrata su un ripensamento dell’umano, in contrapposizione ai processi di disumanizzazione innescati dalla violenza globale. Di questo ripensamento, la vulnerabilità e l’esposizione di ciascuno/a all’altro (alla violenza e alla cura dell’altro) sono perni cruciali, comuni a Adriana Cavarero, a Judith Butler (Vite precarie, Meltemi; Critica della violenza etica, Feltrinelli) e a quante altre abbiano elaborato lo shock dell’11 settembre prima e della guerra poi non nella logica della ritorsione o della vendetta ma nell’apertura alla vulnerabilità e all’interdipendenza come condizione che accomuna la popolazione del pianeta globale.

Nel libro di Cavarero la figura dell’inerme - di chi cioè, ontologicamente vulnerabile, è anche contingentemente privo di mezzi per difendersi - prosegue e completa questo tracciato. E si sporge non solo sul presente, ma, sulla scia di Hannah Arendt e di Primo Levi, anche sul passato, nella stazione su Auschwitz e sui metodi pianificati di annientamento dell’umano nei campi di sterminio che in un libro sull’orrore non poteva mancare, e in altre stazioni che ripercorrono le tappe dell’orrore novecentesco, dal genocidio degli Armeni a Hiroshima, dal Vietnam al Ruanda ai Balcani.

Lo scopo non è iconografico - un’ennesima galleria degli orrori, è il caso di dire - e l’intenzione non è di marca «buonista»; si tratta piuttosto di una ruvida convocazione a interrogarci sulle poste in gioco ultime e ultimative del presente, che non si risparmia una decisa presa di distanza sia dai paradigmi etico-politici che giustificano la violenza estrema sulla base di «più alti» valori (la retorica dell’eroe), sia dalle correnti culturali che da Bataille in poi hanno associato alla guerra il sublime, l’erotismo e il godimento, sia da una certa deriva della psicoanalisi che ha fatto della pulsione di morte freudiana un criterio di naturalizzazione della violenza. Sia ancora, last non least, da qualsivoglia visione salvifica del femminile, che in questo libro viene al contrario interrogato nelle sue maschere orrifiche più sintomatiche: dalle figure mitiche di Medusa e di Medea a quelle contemporanee delle suicide bombers cecene e palestinesi e delle torturatrici di Abu Ghraib. Nessuna delle quali va interpretata come eccezione dalla «retta via» del femminile che mette al mondo, cura e accudisce, bensì come il suo inquietante rovescio: perché è proprio quando l’orrore assume un volto femminile che la deriva verso la messa a morte e la disumanizzazione arriva al suo limite estremo.

Da questo limite, il corpo torna a interrogare la politica. In un testo di qualche anno fa, Corpo in figure, Adriana Cavarero aveva egregiamente descritto il processo di astrazione che lungo tutta la storia del politico occidentale neutralizza il corpo singolare per metaforizzarlo e disciplinarlo nella figura del corpo politic.

Uno degli effetti imprevisti del presente globale è che il corpo sembra oggi presentarci il conto di questo processo di neutralizzazione e metaforizzzaione, ripresentandosi nella forma - e nella forza - irriducibile di un corpo-arma, che non punta a preservarsi dalla morte ma a uccidere uccidendosi; o nella forma di un corpo messo a nudo, umiliato, sadomasicamente deriso e orgiasticamente fotografato com’è accaduto a Abu Ghraib.

La spettacolarizzzazione, anzi l’intrinseca mediaticità di queste figurazioni contemporanee del corpo non deve fare velo - qui Cavarero è in sintonia con Susan Sontag - alla materialità della sofferenza inflitta e autoinflitta. Ma è pur sempre dal corpo che viene, in forma di sintomo, un’indicazione al pensiero. Se è il volto di Medusa la maschera estrema dell’orrore, l’antico mito racconta di una specularità dello sguardo, di una reciprocità del vedere e dell’essere visto, intrinseche alla sua produzione: «C’è a quanto pare, nell’orrore, un faccia a faccia che non può essere evitato». La politica dell’orrore non riguarda mai solo l’altro: dal volto dell’altro, implacabilmente ci guarda e ci interpella.


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: