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Come in cielo così in terra ...

POLITICA E LINGUAGGIO. IL SENZA-NOME: LE FIGURE DI NESSUNO. Roberto Esposito riavvia il discorso sulla "Terza Persona" ... e apre la strada a una comprensione antropologica inedita della Prima (e Quarta) "Persona" del "Tetragramma" divino e dello stesso "Logos" - a cura di Federico La Sala

lunedì 9 luglio 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Dal ragionamento di Esposito affiora non tanto la condanna dell’idea di persona, ma la critica al suo fondamentalismo: «Pensi alla retorica sui diritti umani letti in chiave di riproposizione del concetto di persona». Apparentemente ineccepibile, in realtà largamente fallimentare: «Basta uno sguardo al quadro internazionale per accorgersi che il diritto oggi di gran lunga più disatteso è proprio quello alla vita. Non che in passato fosse meglio. Ma adesso, in relazione ai mezzi (...)

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> POLITICA E LINGUAGGIO. IL SENZA-NOME: LE FIGURE DI NESSUNO. --- In principio l’atto del giurare mette la lingua umana in relazione con quella divina (di G. Zagrebelsky - Quando si dice lo giuro).

venerdì 19 dicembre 2008


-  Conosciamo il giuramento come pertinente alla sfera del sacro e in seguito come istituto giuridico per lo studioso si tratta di una storia che in origine riguarda la parola
-  Le cose sono molto cambiate nel corso dei secoli e oggi si vive senza un patto giurato
-  In principio l’atto del giurare mette la lingua umana in relazione con quella divina

-  Quando si dice lo giuro
-  Un saggio di Giorgio Agamben

di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 19.12.2008)

La molla intellettuale comune a molta parte delle ricerche di Giorgio Agamben è l’interesse per l’archeologia dell’essere umano, archeologia non come risalita della corrente del tempo verso le origini, ma come scoperta di principi costitutivi e fondativi: arcani, da arké, per l’appunto. C’è molta differenza tra queste ricerche e, per esempio, quella che si potrebbe dire di antropologia filosofica elementare di un Arnold Gehlen, in Italia noto soprattutto per il suo volume tradotto da Feltrinelli nel 1983, col titolo L’uomo. Qui si sviluppa un nucleo concettuale, l’idea dell’essere umano come eccesso di pulsioni che si "istituzionalizza" per tenerle sotto controllo e, su questa idea, si compone un sistema. Questo accenno serve per differenza. In Agamben, è il contrario. Egli, per così dire, segue segni e tracce, dovunque si trovino: certo nella preistoria o ultra-storia, nella storia e perfino nella "poststoria", ma anche nella filosofia, nella filologia, nella linguistica, nella teologia, nella politica, nella fisiologia, nella psicologia, nell’arte e perfino nel diritto. Insomma, un seguire le piste che conducono dovunque si possa trovare qualcosa di utile. Per muoversi così, occorre illimitata curiosità unita a eccezionale vastità del sapere. In ogni caso, sono travolte le consuete divisioni disciplinari accademiche, onde definire Agamben un "filosofo" è certo riduttivo.

Il risultato, secondo il titolo di un suo volume del 2003, è L’aperto, l’essere umano indefinito che viene definendosi, mai definitivamente, entro campi di tensione che, oggi, a differenza d’un tempo, mettono in questione l’esistenza stessa di una sostanza, un’ontologia minima, comune a tutti gli esseri umani e costante in ogni tempo. Davvero, l’uomo non è più una «natura umana», ma qualcosa da ridefinire continuamente attraverso scomposizioni e composizioni dall’esito sempre variabile. I campi di tensione sono i più diversi, determinati da forze materiali ed elaborati culturalmente: corporeità-spiritualità, macchina-organismo, tenebre-luce, tempo finito-tempo infinito, animalità-umanità, eccetera, fino al dualismo radicale vita-morte, proprio dell’epoca della biopolitica e della «nuda vita».

Nel libro che qui si presenta, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Laterza), l’essere umano è considerato nella tensione tra parola significante e oggetto significato. Nel momento in cui l’essere vivente si percepisce come parlante, percepisce anche una realtà esterna che deve essere in corrispondenza, deve essere "corrisposta" dal discorso. Ma non c’è nessuna garanzia di corrispondenza, c’è invece uno spazio vuoto, una distanza incolmabile che nessuna parola, nessuna moltiplicazione di parole può colmare: anzi, si potrebbe dire che il moltiplicare le parole moltiplica questi spazi. Poiché la parola detta non è detta soltanto per sé dal parlante, ma è detta in funzione della comunicazione con altri, per costoro la parola diventa a sua volta una "cosa", un significato che ha bisogno d’essere afferrato attraverso un significante, cioè un’altra parola. Questa può anche essere la medesima della prima, ma con questa entra in un rapporto di indeterminatezza analogo a quello che legava la prima parola alla cosa significata. In altri termini, il linguaggio umano e i rapporti sociali che esso stabilisce sono una somma di innumerevoli spazi intermedi di comprensioni incerte, di fiducia carente, di equivoci, di menzogne, di inganni possibili, di sospetti inevitabili. L’essere umano sta in questo vasto luogo incerto, che le sue parole delimitano da una parte, e la realtà cui il linguaggio si riferisce delimita dall’altra. Qui, in questo spazio, si collocano l’essere umano, in quanto "parlante", e il suo giuramento.

Il giuramento, così come lo conosciamo, è un istituto della religione e del diritto: un’affermazione (di un fatto o di una promessa), assistita dall’evocazione della divinità, o comunque di qualcosa di sacro, come testimone o garante, e da un’auto-maledizione in caso di spergiuro. L’apparato sanzionatorio è messo in moto da norme e strumenti religiosi o giuridici. Sempre secondo le idee ricevute, in base a un paradigma esplicativo di portata generale, in origine il giuramento sarebbe appartenuto alla sfera del sacro, poi, attraverso processi di differenziazione del diritto dalla religione, sarebbe divenuto un istituto giuridico.

Ma, secondo Agamben, la ricerca dell’arké ci porta altrove, rispetto alla religione e al diritto. Il giuramento, nella sua essenza, sarebbe una vicenda della parola, non dell’autorità. Religione e diritto intervengono semmai in un secondo momento, a supporto di un deficit di linguaggio. Il giuramento è una proposizione di validità della parola, cioè di rispondenza fedele del significante al significato; esso non riguarda, in origine, una promessa (di dire la verità, di adempiere un impegno preso) nei confronti dell’udente, ma riguarda il linguaggio stesso e, come tale, appartiene al suo "statuto" e alla condizione di parlante.

L’archetipo della parola è la parola di Dio, la parola creatrice. «E Dio disse: sia la luce. E la luce fu» (Gen 1, 3). La parola di Dio è vera, è la parola per eccellenza, perché essendo creatrice, non ha di fronte a sé "cose significate" cui deve corrispondenza, anzi non ha nulla «di fronte a sé», che non sia nella parola che realizza se stessa. La parola divina è l’esempio più chiaro di "performativo": l’atto linguistico che non descrive uno stato di cose, ma produce immediatamente un fatto, realizzando il suo significato. Sotto questo aspetto, si comprende che Dio non giuri, perché - si può dire - in verità ogni sua parola è un giuramento. Sotto un altro aspetto, si può aggiungere che ogni parola divina è miracolo. «Talità kum», fanciulla alzati, disse il Cristo alla figlia morta del capo della Sinagoga (Mc 6, 41) e la fanciulla si alzò. Ecco un altro esempio della potenza creatrice della parola divina.

Nel modo che è possibile, il giuramento degli esseri umani è un modo di mettere la loro lingua in comunicazione con quella divina, sotto l’aspetto che più d’ogni altro interessa: la corrispondenza tra significante (la parola) e il significato (la cosa), ciò che è alla base della fiducia, la risorsa essenziale per la costruzione di qualsiasi forma di convivenza tra gli umani. Un esempio di "performativo" nel linguaggio umano è certo linguaggio giuridico. «Uti lingua nuncupassit, ita ius esto», dicevano le XII Tavole (come correttamente sarà detto dalla parola, così sarà per il diritto). Un altro è il "sì" che si pronuncia davanti all’ufficiale dello stato civile che, di per sé, produce lo status coniugale. Un altro ancora è il linguaggio legislativo, quando esso determina situazioni giuridiche: l’extra-comunitario che entra nel nostro Paese, in assenza di determinate condizioni, è "clandestino".

Qui davvero le parole creano le cose, le situazioni. Ma si vede l’irriducibile differenza rispetto alla parola divina: mentre questa deriva da un potere totalmente fondato su se stesso (l’ «io sono colui che sono» del roveto ardente), la parola umana, per produrre i suoi effetti, ha sempre bisogno di fondare la sua validità su qualcosa, una norma (le XII Tavole o il codice civile) o un principio che la precede come un criterio di validità. Anche la legge è sottoposta a un test di validità. In un supremo esercizio di teologia politica, potremmo dire che lo Stato, assunto come assoluto, cioè come colui che ha detronizzato Dio, potrebbe ambire ad auto-assegnarsi la parola creatrice, la parola che non dipende che da se stessa: lo Stato che potesse auto-definirsi, per analogia, «io, lo Stato, sono colui che sono stato». Ma ciò non è nemmeno per le teorie più marcate in senso assolutistico: lo Stato di Thomas Hobbes è pur sempre e solo un Dio "mortale", di cui occorre comunque poter giustificare la sua "vita".

In breve, il giuramento è un performativo: vuole legare fino a far coincidere la parola con la cosa. Ma, per gli umani, occorre che il giuramento stesso risponda a un criterio di validità. Il criterio è: i giuramenti sono vincolanti. Ma il giuramento non esclude lo spergiuro; l’invocazione del nome di Dio non è garanzia ch’essa non sia "invano". Il perché i giuramenti fossero e dovessero essere vincolanti, per molti secoli è dipeso dalla presenza, testimoniale o vendicatrice, di Dio.

Oggi non è, palesemente, più così, in particolare nella sfera pubblica. Il giuramento, che Machiavelli metteva a base della gloria romana, più ancora che l’obbedienza alle leggi; il giuramento da cui, per Locke, poteva scaturire l’appartenenza al patto sociale, con la conseguenza che gli atei, che non potevano giurare, dovevano esserne esclusi; il giuramento, dunque, non figura più al posto d’onore delle istituzioni politiche, che la secolarizzazione ha reso autonome dalla dimensione del sacro. Dove residua, ha perso questo suo carattere, essendosi trasformato in una semplice «promessa solenne» (Corte costituzionale, sent. n. 334 del 1969), oppure essendo divenuto facoltativo (Corte costituzionale, sent. n. 117 del 1979).

L’integrità della parola è rimessa interamente alla auto-responsabilità verso gli altri, potremmo dire alla responsabilità politica di chi la usa. Forse, c’è un rapporto tra evanescenza del giuramento ed evanescenza di questa responsabilità. La menzogna, magari spudoratamente spergiurata; la parola detta e poi subito dopo contraddetta; la parola che vaga male-detta, indipendentemente da ogni legame con un significato: tutto ciò ha invaso la nostra vita e costituisce uno dei non minori segni di disfacimento di convivenza.

Il libro di Agamben inizia e termina con la citazione da Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente (1992). In questo libro si constatava che le nostre generazioni convivono, pur senza fondarsi su alcun patto giurato, e ci si chiedeva se la novità non dovesse indurre a riflettere su una capitale trasformazioni delle modalità di associazione politica. Agamben, riprendendo questo spunto, conclude con queste osservazioni la sua diagnosi circa la dissociazione tra parola e cosa, causa ed effetto di radicale de-responsabilizzazione del parlante rispetto al parlare e alle cose di cui parla, prima che rispetto all’ascoltatore: «da una parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall’altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui qualcosa come un’esperienza politica diventa sempre più precaria». Anche questo è un tassello, non tra i meno preoccupanti, per la comprensione di che cosa sia quella materia mobile, aperta, che è l’essere umano.


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