Perché vale la pena farsi un viaggio nello spazio con Interstellar
di Patrizia Caraveo *
Uniamo le previsioni più fosche circa il futuro del nostro pianeta con la maestria di un grande fisico nel gestire la relatività generale, aggiungiamo effetti speciali a piacere ed abbiamo tutti gli ingredienti alla base del successo (annunciato) di Interstellar. Un film non banale da vedere, decisamente lungo e impegnativo, alla fine del quale si è provati. Non per niente al botteghino USA, nel primo week-end di programmazione, è stato battuto da Big Hero 6, la storia di un robot gonfiabile nella tradizione dell’animazione Disney. Intendiamoci, è stata tutt’altro che una disfatta: tra IMAX e cinema normali Interstellar ha incassato 53 milioni di dollari, circa un terzo del costo di produzione, che verrà sicuramente ripagato in queste prime settimane di programmazione.
Il regista è una garanzia per i finanziatori, i sette precedenti film di Christopher Nolan hanno fatta registrare un vertiginoso totale di incassi di oltre 3 miliardi e mezzo di dollari. Oltre ad essere la storia di un padre che cerca di salvare l’umanità per amore dei suoi figli, Interstellar vuole essere un film di fantascienza con una solida base scientifica, forse un po’ immaginifica, ma sempre tendenzialmente corretta, basata su effetti della relatività generale come il ripiegamento dello spazio e la dilatazione del tempo.
Tutto parte dalla constatazione che le risorse della terra si stanno esaurendo, qualcosa che ci suona vagamente familiare, visto gli ultimi preoccupanti dati sul riscaldamento globale. Quello che rimane dell’umanità è costretto ad occuparsi a tempo pieno della coltivazione del granoturco, l’unica pianta capace di resistere alle malattie che hanno sterminato tutte le altre coltivazioni. Come se non bastasse la dieta così monotona, il mondo è devastato da terribili tempeste di polvere, che ricordano le descrizioni della dust bowl della grande depressione.
Il nostro eroe è un pilota della ex NASA, diventato per necessità coltivatore diretto, in una fattoria che produce un mais stentato, fatto crescere apposta in Canada, in un setting bellissimo ma dalle condizioni non ottimali. Una misteriosa presenza, che si scoprirà dopo essere un’onda gravitazionale, gli dà la sveglia. Così non si può andare avanti, bisogna unirsi agli scienziati che lavorano in segreto e andare alla ricerca di un altro pianeta. Dal momento che il sistema solare non ha nulla da offrire, bisogna andare più lontano, verso altre stelle.
Anche se non tutti sono abitabili, cioè offrono le condizioni perché l’acqua rimanga liquida. Peccato che, con la propulsione attualmente disponibile, anche per arrivare alla più vicina stella ci vorrebbero migliaia di anni. Per accorciare la distanza, o meglio i tempi di percorrenza, ci vuole un aiutino. E quello lo fornisce Kip Thorne fisico teorico del Caltech, famoso per i suoi studi di quello che succede nei dintorni di un buco nero. La passione per la relatività generale lo ha accompagnato in tutta la sua brillante carriera. Così a 74 anni non esita a riempire lavagnate di equazioni che nel film diventano realtà per permettere agli intrepidi esploratori di saltare dal sistema solare ad altri mondi. Kip Thorne dice che il rendering degli effetti di distorsione della luce nelle vicinanze di un buco nero sono i migliori mai fatti e gli hanno permesso di notare effetti ai quali non aveva mai pensato.
Non ne dubito, anche se ne avevo visti di bellissimi in “Black Hole the other side of infinity” di Tom Lucas. Lì i buchi neri stanno nel centro della galassie, dove è normale che stiano, non nel giardino dietro casa nostra, come succede in Interstellar. Il traghetto cosmico è un wormhole nei dintorni di Saturno, una singolarità spazio-temporale che avrebbe non poco effetto di disturbo sui poveri pianeti del nostro sistema solare. Non ce ne preoccupiamo perché è li che le astronavi si tuffano alla ricerca di altri mondi più ospitali della sgangherata terra. Le astronavi sono bellissime: l’ammiraglia Endurance (nella foto in alto, come la nave della disastrosa spedizione Transantartica di Ernest Henry Shackleton) è una gigantesca ruota come quella di 2001 Odissea nello spazio. Poi ci sono due astronavi di servizio per le ricognizioni, chiamate Ranger e Lander e che - una volta confezionate - sono state impaccate in un container e spedite in Islanda dove è stato allestito il set extraterrestre. Da un lato la desolazione del ghiacciaio Vatnajofull coperto da cenere vulcanica, dall’altro lato la laguna Brunasandur che illude gli esploratori con la sua aria accogliente, fino a quando non viene spazzata da un’onda terrificante.
Mentre i nostri sono a spasso chissà dove - e vivono in un tempo dilatato grazie alla relatività generale - sulla terra il tempo passa come al solito e le condizioni peggiorano. L’eroe cerca la figlia e trova una vecchia. In più si scopre che l’onda gravitazionale che l’aveva guidato è la stessa che aveva generato lui al passaggio del wormhole.
Con un costo medio di un milione di dollari al minuto, meglio mettersi comodi e cercare di non perdersi niente. Chissà cosa avrebbe detto di tutto questo diluvio di relatività generale l’antico professore di Kip Thorne, il mitico John Archibald Wheeler, meglio noto come Gravity Joe. Per gli studenti di fisica Wheeler significa un tomo di 1000 pagine dal titolo che non ammette compromessi “Gravitation”, uno scoglio durissimo da superare. Tutto avrebbe potuto immaginare il grande Wheeler, tranne che vedere le sue equazioni diventare il set di un film dal quale i produttori si aspettano incassi stellari.
Chi ha detto che con le equazioni non si mangia?
ROMA, 8 DICEMBRE 2014
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("Che Futuro", 8 dicembre 2014 (ripresa parziale - senza immagini).)