Colloquio con Carlo Rovelli
Lo scienziato a caccia della Verità
«Si cerca attraverso l’ignoranza»
Ho passato la vita a studiare la gravità quantistica temendo che non sarebbe mai servita a nulla
Poi arriva questo film, Interstellar, dove la gravità quantistica salva il mondo. Fantastico
di Paolo Giordano (Corriere della Sera, 31.12.2014)
All’università, il poderoso volume di Carlo Rovelli sulla «gravità quantistica» circolava surrettiziamente fra gli studenti di fisica teorica, quasi si trattasse di un testo eversivo. Non vi era alcun corso, neppure fra quelli specialistici, che affrontasse la fisica moderna dalla sua prospettiva, perciò il nome di Rovelli suonava alle nostre orecchie come quello di un eremita, isolato chissà dove fra le sue idee troppo audaci.
In realtà, non era così lontano: si trovava appena al di là dell’arco alpino, a Marsiglia (dove lavorava già presso il Centre de Physique Théorique), e si sarebbe presto fatto conoscere fuori dalla cerchia ristretta della fisica teorica, grazie agli articoli sui quotidiani e a saggi come La realtà non è come ci appare (Raffaello Cortina) o Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi). Per il suo dono, assai raro, di attraversare indenne la selva oscura della complessità e di uscirne con un racconto semplice, adatto ai più, Rovelli è destinato ad aggiungersi ai pochi punti di riferimento italiani nella comunicazione scientifica. Quando, a luglio, gli consegnai il premio Merck Serono - premio che illumina talenti nel corridoio stretto fra scienza e lettere - ebbi l’impressione che avesse chiara la sua missione in questo senso, che ci fosse, nascosta in lui, una ferita aperta fra la fisica più estrema e il sapere inteso come corpo unico, una ferita che con quel premio, simbolicamente, si rimarginava.
C’è in tutto ciò che scrivi, mi pare, questa ambizione sottostante a voler ricomporre la frammentazione del sapere. Torni spesso a Lucrezio, e ai greci, che potevano ancora permettersi una visione unitaria della conoscenza. Scegli Anassimandro come modello di scienziato. Abbiamo perso qualcosa di importante?
«Abbiamo trovato, più che perso. Abbiamo aggiunto informazioni sulla natura, la musica di Schubert, i pensieri di Kant e Wittgenstein, una letteratura splendida. Non abbiamo perso l’unità del sapere, perché non c’è contraddizione fra le tante facce della cultura contemporanea».
Eppure, il nostro sistema universitario costringe a compiere una scelta drastica fra scienza e cultura umanistica a diciannove anni quando, forse, non si è ancora davvero coscienti delle proprie inclinazioni. Ricordi com’eri all’epoca di quella biforcazione e che cosa ti spinse infine verso la fisica?
«Lo ricordo bene. Un misto di domande sgangherate e confuse, come si hanno a quell’età. Le stesse domande che hanno guidato i miei pensieri nel resto della vita. Credo che si dovrebbe scegliere un mestiere, non quale cultura apprendere. La cultura è una, sfaccettata, inesauribile: è l’insieme degli strumenti che l’umanità ha elaborato per pensare e comprendere il mondo».
Sceglieresti gli stessi studi oggi, o credi che si siano aperti nuovi fronti più eccitanti, come quello delle neuroscienze?
«Leggo tutto ciò che posso sulle neuroscienze, sulle discipline che studiano la coscienza. Stiamo capendo cose nuove e importanti. Ma la bellezza della fisica resta per me ineguagliata. Forse proprio perché ci costringe a smettere di pensare a noi stessi, ci costringe a uscire dalla nostra melma, aprire la finestra, guardare fuori e contemplare la bellezza rarefatta del mondo».
Mi torna alla mente un libro di Saint-Exupéry, «Terra degli uomini», del quale ho scritto pochi giorni fa su queste stesse pagine. Parla di traversate aeree, ma soprattutto di quanto importante sia la «gravità» degli affetti, delle relazioni, ciò che ci dona peso come esseri umani e ci tiene incollati al suolo. Come fisico teorico sentivo spesso venire meno questa forma di gravità, mi sembrava di fluttuare per troppe ore al giorno in uno spazio interstellare, disabitato, e ne avevo paura.
«Io penso che la gravità degli affetti, di ciò che ci rende umani, non venga da un altrove rispetto alla Natura. La Natura è complessa, iridescente, bellissima: costruisce archi di galassie, esplosioni di buchi neri, onde di probabilità, il cielo stellato, il profumo delle viole, i sorrisi della mia ragazza. La fisica non mi fa sentire estraneo al mondo, mi fa sentire profondamente parte del mondo. È come l’alta montagna: uno spazio nudo, spopolato, essenziale. Ma dove ci si sente più a casa nel mondo che lassù?
A proposito di vagare fra gli astri, hai visto Interstellar?
«Ho passato la vita a studiare la gravità quantistica, temendo che non sarebbe mai servita a niente. Poi arriva questo film dove la gravità quantistica salva il mondo. Fantastico. Tra una baggianata e l’altra, il film riesce perfino a spiegare correttamente la differenza di velocità a cui può scorrere il tempo».
La gravità quantistica mi è sempre apparsa come una sorta di «controcultura» della fisica teorica. Il mainstream sono le stringhe, mentre tu hai scelto e difeso un’altra strada per tutta la vita.
«Ogni cultura nasce come controcultura: dal cristianesimo a Mazzini, dagli impressionisti alla gravità quantistica. Le stringhe erano dominanti anni fa, oggi meno. Soprattutto, dopo la mancata scoperta delle particelle supersimmetriche al Cern (la cui esistenza è fondamentale per la coerenza della teoria delle stringhe, ndr ), sono rimasti in pochi a essere sicuri quanto lo erano prima».
La gravità quantistica in una riga?
«Lo spazio vuoto è fatto di granelli indivisibili».
Nel mondo, e anche in Italia, c’è una fame non saziata di conoscenze scientifiche da parte del grande pubblico. Ma i modi di raccontare la scienza sono più o meno sempre gli stessi, non sembrano evolversi alla velocità di altre forme di narrazione.
«A me sembra che siano i romanzi moderni a essere ripetitivi (forse è per questo che, come ultimo romanzo letto e amato, mi cita il Genji Monogatari , datato 1021, ndr ). La divulgazione è invece cambiata moltissimo: il teatro che parla di scienza, i romanzi scientifici, le sperimentazioni su YouTube e sui blog, le iniziative per i bambini. E poi restano i grandi libri di idee, quelli di Hawking, Penrose, Smolin».
E la televisione?
«Ci sarebbe anche la televisione, se la smettesse di fare programmi profondamente antieducativi, come Voyager e simili. In altri Paesi - Inghilterra, Germania, Stati Uniti - ci sono splendide trasmissioni televisive sulla scienza. Piacerebbero anche in Italia».
Al termine di «Sette brevi lezioni» parli di «diffidenza per la scienza di una parte della cultura contemporanea». In Italia è più accentuata che altrove?
«È certamente più accentuata che altrove, sia rispetto ai Paesi ricchi sia rispetto ai Paesi emergenti. Per molti motivi: i residui crociani nella nostra scuola, l’impazzare di Heidegger nei dipartimenti di filosofia, ma soprattutto lo strapotere della Chiesa. Come dice il Vangelo di Matteo, nessuno può servire a due padroni: o la Verità è rivelata, oppure la cerchiamo attraverso la nostra ignoranza, con la limitatezza della nostra ragione».
Lo sai che agli scienziati, ai fisici in particolare, non viene mai risparmiata una domanda sull’esistenza di Dio...
«Sono convintamente ateo. Serenamente ateo».
Lavori fuori dall’Italia da più di vent’anni: Yale, Pittsburgh, Marsiglia. Lasciare il Paese oppure restare è diventato un leit-motiv un po’ irritante, e il modo in cui le generazioni più vecchie guardano alle più giovani e alla loro necessità di andare all’estero sembra solo l’ennesimo atto di commiserazione. Com’è stata la tua vita di nomade?
«Andare in giro per il mondo è bello. Peccato, però, che dall’Italia escano le menti più preziose. Ma arrivano in barca dei giovani dall’Africa: fra loro ce ne sono di sicuro di brillanti, per rimpiazzarle».
Tu che dichiari che «il tempo non esiste», come te la cavi con i passaggi di anno?
«Li vivo come tutti, sentendo il tempo che scivola fra le dita, amando per questo la vita ancora di più: proprio perché breve, è così preziosa».
E nella notte del passaggio?
«Sarò in una casuccia isolata, nel mezzo della natura, insieme alla persona che amo».