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Musica

Concorso musicale "RINOCANTANDO" aperto a tutti gli artisti

Dedicato al cantautore calabrese Rino Gaetano
sabato 2 luglio 2005 di Emiliano Morrone
Il Comune di Roma - Municipio IV insieme alla Heristal Entertainment S.r.l. indice il concorso musicale "RINOCANTANDO" aperto a tutti gli artisti, cantanti solisti e/o in gruppo senza esclusione di sesso o nazionalità purchè abbiano compiuto il 15° anno di età.
(Per tutti coloro non ancora maggiorenni accorrerà comunque l’autorizzazione alla partecipazione di un esercente la podestà).
L’idea di "Rinocantando" non è quella di rifare il cosiddetto "verso" all’inimitabile e indimenticabile (...)

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sabato 24 febbraio 2007

INEDITI

L’indimenticato «figlio unico» della canzone italiana, scomparso in un incidente 25 anni fa, sarà presente a Sanremo con una composizione ancora attuale. E provocatoria

Rino Gaetano. Il ritorno

In un quaderno a righe datato 1967 ritrovati i pensieri di un ragazzo del Sud che con la sola arma della poesia tentava di contrastare i razzismi, le guerre, la solitudine e altre contraddizioni di una società malata

di Massimiliano Castellani (Avvenire, 22.02.2007)

Tenetevi forte; Rino Gaetano, l’indimenticato «figlio unico» della canzone d’autore italiana sta per tornare a Sanremo. Ma forse sarebbe meglio dire che quel ragazzo dal ricciolo e dallo spirito ribelle, che sotto un Cielo sempre più blu cantava il paradosso e lo sfascio dell’Italia a cavallo tra i plumbei anni ’70 e i vuoti ’80 (che fece solo in tempo a vedere), non se ne è mai andato, nonostante il destino crudele se lo sia portato via a soli trent’anni.

Torna in via virtuale, ma anche profondamente spirituale, su quel palco della «sublime banalità» canzonettara, come vuole il filosofo Giulio Giorello, dove nel 1978 salì per cantare Gianna. E come quando saliva sul «109» creò la rivoluzione. Quella fu la sua unica, ma memorabile e irriverente esibizione sanremese, con tanto di frac, cilindro, scarpe da tennis e una chitarrina, l’ukulele, autentico cimelio nel simbolismo di Gaetano, che sua sorella Anna 5 anni fa ha capitalizzato mettendolo all’asta: il ricavato è stato devoluto in favore dei bambini della Sierra Leone.

Torna dunque l’eterno Rino, al quale presta la voce un degno erede della dissacrazione, l’attore-comico Paolo Rossi che interpreterà la sua sconosciuta «eppure attualissima» - come conferma la produttrice del disco, Claudia Mori - In Italia si sta male. Una delle tante composizioni inedite di quel ragazzo, romano d’adozione come tutta la famiglia, ma fiero di essere arrivato dal Sud (era nato a Crotone il 29 ottobre 1950). I primi tentativi cantautoriali di Gaetano risalgono infatti agli anni dell’adolescenza, trascorsi in seminario in Umbria, alla Scuola apostolica Piccola Opera del Sacro Cuore di Gesù di Narni, dove era entrato nel 1961. Appena uscito da lì esattamente quarant’anni fa, nel 1967, Rino cominciò ad archiviare i suoi pensieri, che oggi sono gelosamente custoditi da Anna. In un quaderno a righe che reca quella data, compare il testo che può forse considerarsi una delle sue prime canzoni: «Mondo in re maggiore».

«Quando un bambino chiede alla sua mamma l’amore che non ha/ è un soldato che chiede alla nazione un poco di libertà...». Sono i versi di un diciassettenne in rivolta che avverte la spinta liberatoria di un Sessantotto alle porte, un figlio dei fiori che cerca nello scontro con il passato e le vecchie e obsolete convenzioni la ristabilizzazione di un’armonia e una modernità che sappia di «sale negli occhi» e in zucca, ma soprattutto di pace. È l’appello disperato di un ragazzo triste, che rimarrà tale fino alla fine, avvertendo su di sé il peso dell’«emarginazione» di un popolo, quello meridionale, quei 5 milioni di emigranti saliti verso Nord, che ai suoi occhi diventano metafora della solitudine universale dell’uomo contemporaneo.

Un uomo che Rino Gaetano osserva con disincanto, con l’ironia sferzante che gli deriva da quello che considera un «maestro», Enzo Jannacci. Ma nelle sue prime composizioni si avverte anche la rabbia civile di De André e la protesta pacifista americana di Bob Dylan. Sente nella sua musica la necessità del rock di Adriano Celentano, ma pure l’artigianato naif di Ricky Gianco, dei «Gufi», di Gian Pieretti, e l’irregolarità poetica di un maledetto come Piero Ciampi.

La poesia è l’unica arma che fin da ragazzo lo sottrae all’accerchiamento di un mondo corrotto, avvelenato da marchiane contraddizioni e umilianti differenze di classe, dalla violenza gratuita e soprattutto dalla minaccia imperante della guerra. Così, per difendersi nella stanza del «figlio unico» e solitario, Gaetano chiama a rinforzo i suoi miti, i comandanti ideali di un esercito pacifista. Ne L’umidità che manca la dedica è per Louis Armstrong che «vuol suonare la tromba e non la bomba». I meridionali d’America per lui sono i neri, e il più grande è stato Martin Luther King che nel suo Spiritual ha una missione divina da compiere: «Il Signore ha scelto un negro/ gli affidò la pace/ lo mandò in un Paese dove non c’è pace ». La morte di King non interrompe il processo di pace, così come l’ultimo sorriso tra la folla di Dallas per lui non deve segnare la fine del New Deal, il sogno di J.F.Kennedy. «La vita non è tutta qui/ lui lavora anche lassù/ e come un fiume bagnerà qua, il suo fantasma inspirerà».

Ma quel sogno, con la tragica fine del presidente più amato e che ne fu l’artefice, Rino sente che si è spezzato; è con un certo malessere che condanna la guerra in Vietnam in Ah! Quanto è bella l’Usa e con fastidio annota: «E presto vedremo sul nostro mercato/ un biofucile che fa il bucato/ e compreremo quello più grosso/ di quel fucile che lava più rosso». Canta già con il sorriso amaro quel ragazzo che non vuole arrendersi ai mali della società, o meglio di quella che lui chiama l’«Associazione antropologica mondiale». Una società malata, ferita in quegli anni di terrore in cui c’era - e forse c’è ancora - chi «tira la bomba e chi nasconde la mano». I suoi occhi vivi, sempre vigili, vedono un’Italia e un universo con un Sud povero, pieno di gente «che vive in baracca» e un Nord sempre più ricco, ma anche più inquinato, per il quale si sente in diritto di scomodare i santi: «Contro lo smog cittadino S. Ambrogio ci è vicino/ per aiutare Celentano S. Ambrogio da Milano».

Sono ancora lontani gli anni della censura pretestuosa nei suoi confronti e rispetto ai colleghi cantautori del romano Folk Studio (De Gregori e Venditti) Gaetano per tutta la sua breve vita ha continuato a nutrirsi di utopia, portandosi dietro il fardello dell’idealista-puro, arrivato alla melanconica e assurda verità che «oggi l’uomo è solo emarginato, estromesso, figlio unico». Tutti i trent’anni del suo passaggio su questa terra, anche se in forma talvolta acerba, come è normale che siano gli scritti giovanili di ogni poeta, sono già abbozzati in quei quaderni.

Persino quella precoce sbandata all’alba, in solitudine come sempre, su quell’ultima curva della vita, il 4 giugno 1981, è descritta nell’inedita Quando Renzo morì io ero al bar. «Era già tutto previsto», canta l’amico Riccardo Cocciante. È andata proprio così, come Rino aveva scritto su quel quaderno. Nel Paese da sempre offeso dalla malasanità, tre dei 5 ospedali che quella notte dell’incidente rifiutarono il suo ricovero compaiono nel testo, che va letto forse non solo come il testamento del più grande cantautore italiano, ma di un’intera generazione: «È morto in un giorno di festa/ leggeva il giornale agli amici del bar/ amava la vita di tutti/ ustionata dalla pubblicità».


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