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DANTE E LA "MONARCHIA" DI AMORE. L’Arca dell’Alleanza, il Logos, e l’ordine di Melchisedech...

DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.

AL DI LÀ DELL’EDIPO E DEI VECCHI HEGEL HEIDEGGER HABERMAS E RATZINGER. Nel 200° anniversario della pubblicazione della "Fenomenologia dello Spirito" di Hegel (1807)
martedì 23 ottobre 2007 di Maria Paola Falchinelli
L’Arca dell’Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech
La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
di Federico La Sala
IL DIALOGO/Quaderni di teologia, Martedì, 24 luglio 2007

VIRGILIO A DANTE: "«[...]Dunque: che è? perché, perché restai?/perché tanta viltà nel core allette?/perché ardire e franchezza non hai?/poscia che tai tre donne benedette/curan di (...)

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> DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. --- "Maps of Paradise" (Alessandro Scafi). Paradiso in terra dove sia qualcun lo sa (di Claudio Gallo).

martedì 17 dicembre 2013

Paradiso in terra dove sia qualcun lo sa

di Claudio Gallo (La Stampa, 16 dicembre 2013)

«Immagina che non ci sia nessun paradiso, provaci, non è poi così difficile, immagina che non ci sia nessun inferno sotto di noi». Così cantava John Lennon nel 1971, con la sua Imagine, proponendo di abolire il paradiso mentre, per l’ineludibile dialettica delle cose, ne proponeva una nuova versione. Si può vivere senza un altrove? Sembrerebbe di no, perché, anche nelle menti più scettiche, l’idea o l’immagine emerge puntualmente dal pozzo tenebroso da cui sorge la coscienza. Non ci credo, ma lo immagino.

Gli antichi, che vedevano il mondo con occhi diversi dai nostri, non si ponevano il problema della sua esistenza ma s’interrogavano sul dove. Una raffinata scienza cartografica si sviluppò lungo i secoli per indicare dove il paradiso terrestre fosse situato. Una «scienza» cangiante che si è prefissata l’obiettivo di spiegare l’inspiegabile e che è riuscita a sopravvivere anche all’era delle misurazioni esatte.

Segue il suo percorso affascinante, che è allo stesso tempo una mappa della nostra mente, lo storico Alessandro Scafi, docente al Warburg Institute di Londra, nel suo Maps of Paradise, appena pubblicato in Gran Bretagna (dalla British Library) e in Nord America (dalla University of Chicago Press) e in attesa di traduzione italiana. Il libro traccia la storia della cartografia di una specifica forma di paradiso: il Giardino dell’Eden descritto nel libro della Genesi . Il termine usato nella versione ebraica è «Gan Eden», Giardino dell’Eden.

La parola persiana da cui deriva il termine paradiso adottato nelle versioni greche e latine della Genesi , «pairi-daeza», indicava all’inizio (nell’epoca achemenide, tra il ’600 e il ’300 a.C.) uno spazio chiuso da un muro. Quando i traduttori greci e latini dell’originale ebraico scelsero il termine paradiso trasformarono il luogo perfetto di Adamo ed Eva in un giardino recintato. È interessante che per tutta l’antichità l’ideale di perfezione fosse rigorosamente uno spazio finito. L’idea di un infinito illimitato, che a un filosofo greco avrebbe fatto orrore, è un dono della modernità, con le sue dimensioni disumane. Il paradiso socialista, di cui Marx profetizzava l’avvento sulla terra, nasceva proprio dalla negazione dell’accumulazione illimitata delle ricchezze per tornare al limite naturale del rapporto umano. Ciò che i greci chiamavano «metron» e mettevano alla base di ogni convivenza sociale.

Dall’inizio dell’era cristiana fino al Rinascimento le mappe del mondo situavano il Paradiso a Oriente perché così era indicato in alcune traduzioni della Genesi . «Infatti, in molte mappe medievali - ha spiegato Scafi presentando il libro all’Istituto italiano di cultura di Londra - il paradiso è localizzato a Est. Le moderne misurazioni geografiche non rappresentano che luoghi. Ma prima del Rinascimento, prima della riscoperta della geografia tolemaica, prima dell’uso di longitudine e latitudine, le mappe del mondo erano narrazioni storiche piuttosto che rappresentazioni geografiche».

Niente di più distante da Google Maps delle mappe medievali (anche se Google Earth ha cominciato a inserire una dimensione storica). Nelle antiche carte si compendiava la storia del mondo: il dramma dell’umanità si rivelava attraverso la geografia. Si poteva vedere il mondo di ieri ma anche il mondo di domani che, coincidendo con la fine dei tempi, era al di fuori del tempo e dello spazio: uno stato rappresentabile ma non pensabile.

«In Armenia - ha detto Scafi, illustrando il mappamondo di Hereford - vediamo l’Arca di Noè, in Mesopotamia la Torre di Babele, tra il Sinai e il Mar Rosso l’esodo del popolo d’Israele; a Gerusalemme la crocifissione di Gesù Cristo; a Creta il labirinto di Minosse; in Asia il Vello d’oro degli Argonauti. Nel Medioevo si credeva che lo spazio fosse inestricabilmente legato al tempo, una cosa tornata ovvia agli occhi dei fisici del ’900».

Il paradiso terrestre in quelle mappe è fissato nel momento topico in cui Adamo ed Eva commisero il peccato originale, come la finestra di un’altra dimensione affacciata sul presente. Così il giardino dell’Eden esiste e non esiste allo stesso tempo, è geograficamente localizzabile sulla terra ma rimane inaccessibile. Un luogo che è contemporaneamente dentro e fuori del mondo, sulla terra ma non della terra. Lo spazio diventa una semplice convenzione: mentre i cristiani medievali immaginavano un paradiso a Oriente, i loro contemporanei buddisti guardavano al paradiso d’Occidente.

Profondi cambiamenti nella teologia e nella cartografia hanno poi trasformato la visione medievale di un giardino ancora esistente in un Oriente misterioso nell’idea moderna di un paradiso perduto, i cui resti sono stati identificati con precisione in vari luoghi del mondo conosciuto. Nei modi più vari e ingegnosi cartografi e teologi hanno tentato per due millenni di situare il loro paradiso.

Nessuno più di Dante ha cercato di spiegare perché il paradiso non si può spiegare: «Nel ciel che più de la sua luce prende / fu’ io, e vidi cose che ridire / né sa né può chi di là su discende / perché appressando sé al suo disire / nostro intelletto si profonda tanto / che dietro la memoria non può ire»


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