fFILOLOGIA E CRITICA: LA "DIVINA COMMEDIA", A PARTIRE DAL CANTO XXVII DEL "PURGATORIO".
Il dolcissimo padre: la figura di Virgilio in Purgatorio XXVII
di Roberta Conte ("Caffé Letterario 2.0", 24 giugno 2015)
Nel viaggio dantesco molti personaggi hanno un’importanza significativa, ma se c’è chi ricopre in una sola persona il ruolo di guida, maestro e padre questo è Virgilio, ed è in Purgatorio XXVII che queste tre funzioni emergono distintamente, in maggior misura l’ultima.
Dante è arrivato quasi alla fine del suo cammino nel Purgatorio, in particolare nella settima e ultima cornice dove si trovano i lussuriosi. È mezzogiorno e viene incontro a lui, Virgilio e Stazio l’angelo della castità che avverte i tre della necessità di attraversare il muro di fuoco che hanno davanti, se vogliono proseguire verso la cima del monte; così, superate le fiamme giungono in prossimità della scala per iniziare la salita, ma il calare del sole li costringe a fermarsi e nella notte Dante sogna Lia, la moglie di Giacobbe, intenta a raccogliere fiori. Al mattino, una volta arrivati alla sommità della montagna Virgilio parla a Dante per l’ultima volta e, congedandosi, lo incorona imperatore di se stesso.
Virgilio in questo canto tiene per due volte discorsi visibilmente lunghi e in entrambi si mostra non solo guida, ma padre buono. Come ogni padre sprona il figlio ad andare avanti e tuttavia nel momento della prova, prima, e del saluto, poi, un’umana tenerezza per forza di cose compare. Avviene dunque così, quando il «dolce padre» (v. 52), nel primo discorso, caldeggia Dante a non aver timore del muro («Figliuol mio, / qui può esser tormento, ma non morte», vv. 20-21) e ad aver invece fiducia, spronandolo a tentare il fuoco con la sua stessa veste. Questa volta però la ragione non ne esce vittoriosa, se ne rende conto Dante stesso, capendo che la sua paura e il rimanere paralizzato davanti alle fiamme vanno «contra coscienza» (v. 33), e se ne adombra «un poco» (v. 35) pure Virgilio.
Quello che vive Dante è un vero e proprio dramma che si consuma nella scelta di fidarsi o meno del suo maestro: sa che può farlo ma non ne ha il coraggio (e in questo si manifesta l’uomo Dante con tutte le sue debolezze), ciò nonostante attraversare il fuoco è per lui un imperativo. Il muro è lo strumento di punizione dei lussuriosi, ma è anche una barriera da oltrepassare per raggiungere la sommità del monte: Dante, infatti, si sta portando sempre più vicino al Paradiso terrestre dove incontrerà Matelda.
Di questo limite da varcare «è segno l’umano dramma di Virgilio, che riconosce qui la sua impotenza, e cede di fatto a Beatrice [...] il posto fin qui tenuto accanto a Dante» che si rinfranca all’udire il nome della donna, quando Virgilio afferma: «Or vedi, figlio: / tra Beatrice e te è questo muro» (vv. 35-36).
Il prezioso richiamo al mito di Piramo e Tisbe fa intuire come il nome di Beatrice sia così vincente: lei è l’amore che permette, sopra ogni ragione, di superare il fuoco. Questo Virgilio lo sa, come sa anche di rivolgersi a un Dante nell’atteggiamento di un figlio timoroso e di fatto gli sorride «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (v. 45) dopo che Dante, al nome della donna, «fatta solla» (v. 40) la sua rigidità, si volge verso di lui. Allo stesso modo in cui Piramo, in punto di morte, al sentire Tisbe verso di lei muove gli occhi.
Se si osserva ancora il testo, si comprende come il rapporto che viene esaltato di più in Purgatorio XXVII non sia, dunque, soltanto quello fra maestro e discepolo, ma soprattutto quello fra padre e figlio. Il secondo, infatti, sembra avere molti accenni anche nella veste linguistica del canto.
Pubblicità
Impostazioni sulla privacy Dante si rivolge a Virgilio solo una volta con l’appellativo di padre («Lo dolce padre mio», v. 52); quando invece si riferisce a entrambe le guide, dunque includendo anche Stazio, le chiama «buone scorte» (v. 19) e «gran maestri» (v. 114), e anche nel momento in cui Virgilio fa un passo indietro per richiamarsi all’aiuto del nome di Beatrice, si rivolge a lui chiamandolo «savio duca» (v. 41), ancorché l’evocativa immagine dei pastori («tali eravamo tutti e tre allotta, / io come capra, ed ei come pastori», vv. 85-86) ricorda come, nel senso cristiano del termine, il pastore sia guida ma, ancor di più, padre buono e amorevole.
Tuttavia è nelle parole di Virgilio che si palesano numerosi riferimenti al rapporto padre-figlio. Innanzitutto Virgilio chiama Dante figlio per ben tre volte (vv. 20, 35 e 128) e il comportamento paterno che ha nei suoi confronti viene evidenziato soprattutto quando lo stesso Dante vive una situazione infantile sottolineata, come ha notato bene Contini, dall’uso del pronome allocutorio di prima plurale («Volenci star di qua?», v. 44): in questo momento Virgilio si comporta appunto come un padre o comunque nell’atto di rivolgersi a un fanciullo, non a caso il plurale viene solitamente usato dagli adulti quando parlano a un bambino.
Lo stesso Virgilio poi, con premura paterna, lo accompagna «dentro al foco» (v. 46), prega Stazio di seguirli e conforta Dante, con una frase che non può non metterlo al riparo da qualsiasi dubbio, «Li occhi suoi già veder parmi» (v. 54) e così a queste parole il fanciullo, insieme con le guide, giunge al principio della salita.
Dante ha dunque superato questa grande prova e, tralasciando tutti i risvolti simbolici che possono far pensare al passaggio del muro come a un rito di purificazione, da compiersi prima di arrivare nei pressi dell’Eden, ciò che si può rilevare è che la scomparsa del terrore in Dante (tramutatosi in fermezza tramite l’intervento implicito di Beatrice) e l’arrivo dall’altra parte del fuoco siano stati possibili grazie alle parole di Virgilio.
Tuttavia, dei due discorsi tenuti da Virgilio è sicuramente il secondo quello che resta nella memoria di ogni lettore, ovvero quello del momento del saluto, in cui la sua figura trova compimento: ha ormai portato a termine il suo compito e ha guidato Dante come maestro e come padre. Siamo alla fine del canto, ancora prima del congedo anche il paesaggio e l’atmosfera preparano l’evento, le tenebre fuggono da tutti i lati (v. 112) e la luce del nuovo giorno accompagna le parole piene di speranza di Virgilio:
«Quel dolce pome che per tanti rami cercando va la cura de’ mortali, oggi porrà in pace le tue fami». (vv. 115-117)
Il dolce frutto è la metafora della felicità terrena verso la quale Dante si avvicina sempre di più e il cui raggiungimento sarà la sua piena realizzazione, ma non solo, queste parole hanno così tanta forza da spronarlo a continuare a salire, purtroppo però «dove Dante arriva, Virgilio deve tornare indietro».
Le ultime parole di Virgilio sono profonde come il suo sguardo («in me ficcò [...] li occhi», v. 126): sa che la sua missione è compiuta dicendo a Dante «se’ venuto in parte / dov’io per me più oltre non discerno», inoltre comprende l’impossibilità di proseguire per la sua condizione di abitatore del Limbo, ma è una consapevolezza che, giustamente osserva la Chiavacci Leonardi, non cede al sentimento personale e che dunque non manca di autorità. Adesso a Dante viene data totale responsabilità poiché «dritto e sano» (v. 140) è il suo arbitrio.
In definitiva, si può leggere il canto come un momento di formazione in cui il fanciullo Dante, presosi di ardire e avendo con sé l’insegnamento di Virgilio, va avanti per la sua strada non più accompagnato, ma con la padronanza di sé ricevuta dall’incoronazione da parte del padre-maestro di imperatore di se stesso («per ch’io te sovra te corono e mitrio», v. 142). C’è qualcun altro che lo aspetta dall’altra parte, l’amore che vince le barriere di fuoco: Beatrice.
* "INCREDIBILE, MA VERO": CHE, DOPO LA LEZIONE EVANGELICA DI FRANCESCO DI ASSISI (GRECCIO, 1223: IL "PRESEPE" COME "MODELLO" ANTROPOLOGICO E TEOLOGICO), E, ALLA LUCE DELLA ACCETTAZIONE E CONDIVISIONE DA PARTE DI DANTE ALIGHIERI DELLA FRANCESCANA "IMITAZIONE DI CRISTO", è soprendente che, ancora oggi (dopo la celebrazione del "Dante 2021" e l’istituzione del "25 Marzo" come giornata del "Dantedì"), si continui a negare la tradizione evangelica per la quale "Il cristiano è un altro Cristo" e a difendere la tradizione autoritaria e dogmatica della tradizione paolina che "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010).
"GIUSEPPE" ["VIRGILIO"] E "MARIA" ["BEATRICE"] E "GESÙ" "["DANTE"]: ARRIVARE A PENSARE CHE Dante non "cantò" i "mosaici" dei "faraoni", ma diede conto e testimonianza della Legge del "Dio" di Mosè di Elia e di Gesù, del "Dio" dei nostri "Padri" e delle nostre "Madri", dell’’Amore che muove il Sole e le altre stelle, e sollecitò a porre fine allo "spettacolo" della "tragedia" del cattolicesimo costantiniano, è cosa ancora impensabile per la dottrina della "dotta ignoranza" (1440) e della "pace della fede" (1453), nonostante il lavoro di Lorenzo Valla?! Non è il caso di riorganizzare le idee e orientarsi meglio sul problema antropologico del come nascono i bambini e come è possibile recuperare la diritta via e rinascere a sé?!
Federico La Sala