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Il magistero del "Deus caritas est" ("Dio caro-prezzo è") o il magistero del "Deus charitas est" ("Dio è Amore") ?!

DOPO WOJTYLA, LA CHIESA SULLA STRADA DELLA CIVILTA’ DELL’AMORE ("CHARITAS")? NO!!! SU QUELLA DEL DIO DEGLI AFFARI ("Mammona" - "Caritas") E DEL SILENZIO DELLE "TRE SCIMMIETTE" (di "Mammasantissima"). Speriamo che la nottata non sia troppo buia e silenziosa. La Chiesa senza pastori: un commento di Filippo Di Giacomo - a cura di pfls

LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO". E’ ORA DI RESTITUIRE "L’ANELLO DEL PESCATORE" A GIUSEPPE, PER AMARE BENE MARIA!!!
venerdì 9 novembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Quanti parroci, quanti vescovi hanno esercitato il loro diritto-dovere di visita? E se hanno visitate le sue case, trovandovi solo cose ottime, perché ora tacciono? Nella stanza di uno degli indagati di Torino sono stati trovati dei fogli di carta che dimostrano che il taglieggio subito durava da mesi e mesi: un calvario esistenziale facilmente immaginabile. Vissuto in disperata, e spaventata, solitudine.
Mentre questo accadeva, nessun confratello aveva occhi per vedere, orecchie per (...)

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> DOPO WOJTYLA, LA CHIESA SULLA STRADA DELLA CIVILTA’ DELL’AMORE? NO!!! SU QUELLA DEL DIO DEGLI AFFARI ("Mammona") E DEL SILENZIO (di "Mammasantissima") DELLE "TRE SCIMMIETTE". ... Quando il gallo annunciava la speranza di Enzo Bianchi.

domenica 12 agosto 2007

Quando il gallo annunciava la speranza

di ENZO BIANCHI (La Stampa, 12/8/2007)

Quando oggi parliamo dell’udito e di ciò che esso recepisce, pensiamo subito al rumore, alla mancanza di silenzio e non a caso l’inquinamento sonoro è ormai percepito come un problema ecologico. Del resto, l’udito è un senso sempre in funzione perché le nostre orecchie sono sempre aperte: a differenza degli occhi e della bocca, non possiamo chiuderle e quindi questo doppio orifizio, nonostante la sua apparente passività - non si muove, né morde, né penetra, né cattura... - è in realtà l’unico a essere sempre in funzione, giorno e notte. Sempre aperte sul mondo, le orecchie non sanno opporre nessuna chiusura: possiamo solo tendere l’orecchio oppure fare i sordi, ma non possiamo impedire al suono di raggiungerci. Così, se l’occhio cattura la visione e può fermarsi a contemplarla, se la mano può stringere e continuare a palpare e sentire, se la bocca può continuare a gustare, l’udito può solo ascoltare nella fugacità del suono e non può nulla trattenere né contemplare. Diciamo «porgere l’orecchio» ed è un atto provvisorio perché il suono, una volta ascoltato nella sua forza, non è più, è già passato.

Forse anche per questo il passare del tempo - quel tempo così «fugace» - è stato espresso più con il suono che con la vista: nell’antichità in città giravano le sentinelle che «gridavano» le ore oppure erano gli squilli di tromba a segnare il tempo.

Più tardi, in città e nei villaggi, si sono diffuse le campane. Sì, le campane, quelle che oggi non sono più tollerate in quei rari casi in cui il silenzio circostante le rende ancora udibili, quelle campane che al mattino disturbano pacifici cittadini che desiderano dormire, magari dopo aver schiamazzato per l’intera notte. Così, mentre da turisti nei paesi musulmani si ascolta il grido del muezzin - peraltro sovente affidato a dischi collegati all’altoparlante - come una simpatica novità, tornati a casa si è infastiditi dalle vecchie campane nostrane.

Dimenticate o vituperate, le campane tendono a non suonare più e comunque quando rintoccano nessuno riesce nemmeno ad ascoltarle, soffocate come sono dal frastuono del traffico e dell’attivismo incalzante. Ma il ricordo della mia generazione va con gratitudine al suono delle campane che scandiva la vita nei paesi di campagna, ed era ascoltato come monito quotidiano. Erano le campane, infatti, a interrompere il grande silenzio della notte: al mattino, a un’ora che variava con il variare dell’alba, suonava l’Ave Maria e la gente si alzava - in inverno era ancora buio - per iniziare i lavori della stalla. Poi suonavano nuovamente a mezzogiorno, per segnare la pausa dal lavoro nei campi e il tempo del pasto frugale e infine rintoccavano ancora a sera, per richiamare ciascuno attorno al focolare, assieme ai suoi cari.

Così le campane ritmavano il passare del tempo e avvolgevano la vita delle comunità, aiutandole nella loro identità e fornendo loro un vero linguaggio di comunicazione a distanza. Strumenti capaci di essere interpretati da tutti, parlavano una lingua universale che narrava le gioie e i dolori e scandiva l’esistenza della gente. Il loro suono aveva soprattutto la capacità di radunare l’intero paese, di chiamarlo a raccolta a qualsiasi ora. Infatti, oltre al regolare scorrere dei giorni, le campane erano erano annunciatrici di gioia e di dolore, di morte e di pericolo incombente: tutti nel medesimo istante potevano essere avvertiti che era accaduto qualcosa, che un evento aveva toccato la collettività, e ai rintocchi inattesi tutti si affrettavano in piazza per conoscere il motivo di quel ritrovarsi insieme. Ma qualcosa lo si poteva già intuire dal semplice suono perché le campane rintoccavano in modo diverso a seconda delle circostanze e la combinazione dei loro suoni esprimeva sentimenti diversi: timbro, ritmo, numero dei colpi, durata del suono chiedevano ascolto e discernimento.

Per chi e per cosa suonava la campana? Di notte, per esempio, tacevano e il loro improvviso rintocco a martello annunciava un incendio in qualche cascina e richiamava tutti ad accorrere per spegnere il fuoco... Di giorno, invece, suonavano per annunciare che qualcuno stava per morire, «suonavano l’agonia» e con il numero diverso dei rintocchi avvisavano se era un uomo o una donna, sicché ciascuno poteva immaginare un nome e un volto dietro quel suono: allora ci si affacciava sulla soglia di casa per vedere la direzione presa dal prete che, accompagnato da un chierichetto che reggeva un ombrello bianco, portava il viatico al moribondo. Poi, con un suono diverso, le campane ne annunciavano la morte e si univano alla tristezza dei funerali, indicando con il rintocco della campana più grossa - chiamata appunto campanone - l’ «andan-na», l’arrivo della salma: rintoccando mesta e solenne sembrava accompagnare con il suo timbro profondo i passi della processione. Sì, allora nessuno moriva solo!

Ma anche i momenti di festa e di gioia erano segnati dalle campane: simpatici carillon annunciavano la domenica, mentre uno scampanio ancor più solenne e armonioso si distendeva ad aprire le grandi feste e la festa del paese. Sì, le campane erano una presenza eloquente al cuore della società contadina, anche se oggi è impensabile di poter sperimentare le sensazioni che esse suscitavano. Ogni campana aveva addirittura un nome diverso e molte recavano iscritte preghiere, soprattutto contro la grandine, la tempesta, i fulmini... Così, quando sul campanile veniva issata una nuova campana era un evento di grande festa: la campana veniva benedetta, unta con il crisma e si chiedeva a Dio che essa fosse capace di fugare i mali atmosferici come i mali sociali che minacciavano la gente del paese.

Ma che fine ha fatto oggi questo oggetto così amato e popolare? Povere campane: da linguaggio comune, da strumento di comunicazione eccezionale, da «difensori civici», quando non sono scomparse del tutto o ridotte al silenzio, vengono trascinate sul banco degli imputati per inquinamento acustico! Io mi rallegro che nella valle in cui abito, adombrata da boschi e abitata solo da noi monaci e da qualche anziano, le campane sono ancora libere di suonare, già al mattino alle 5,30 e poi durante il giorno, a ritmare come un tempo l’ordinario e lo straordinario delle nostre vite: le ore del lavoro e del riposo, il ritrovarsi per la preghiera e per i pasti, ma anche l’arrivo imprevisto di un amico attorno al quale stringersi con affetto, l’annuncio pasquale al cuore della notte, la trepida invocazione perché la grandine risparmi il frutto della fatica dei campi... Ma quando la nostra memoria corre verso il campanile, un’altra immagine emerge dall’oblio, anch’essa legata a un suono ormai in via di estinzione: il gallo, banderuola che segnava il vento come la campana segnava il tempo. Ma quella sagoma di ferro rimandava a una realtà in carne e ossa, dotata soprattutto di un canto così caratteristico, il canto del gallo, un canto che da «banditore» del giorno è stato bandito dalle nostre esistenze: confesso che per me è sempre stato ed è il suono quotidiano più straordinario, più desiderato, più amato. Dopo una prima avvisaglia incerta nel cuore della notte, ecco che non appena appare all’orizzonte un po’ di chiarore, foriero dell’alba e dell’aurora, risuona sicuro il canto del gallo. È il gallo che ha da tempo immemorabile l’incarico di annunciare la luce alle cose, quasi che il suo canto imperioso ingiunga: «Fuori la luce!». Simbolo della vigilanza, già negli inni scritti da sant’Ambrogio - detti appunto «ad galli cantu» - è chiamato «notturna luce ai viandanti» perché «separa la notte dalla notte»: così «il gallo sveglia chi dorme e incita i sonnolenti». Ma è il versetto di un altro inno che ancora oggi mi torna alla mente ogni mattino: Gallo canente spes redit, «con il canto del gallo ritorna la speranza». La speranza di un nuovo giorno, la speranza che la notte sia vinta dalla luce, la speranza che i fantasmi notturni fuggano per cedere il posto alla realtà della vita, sempre più bella di ciò che sogniamo, una speranza di cui tutti abbiamo così bisogno...

E del resto il gallo, lo sappiamo, è significativamente presente nei momenti più tragici di vicende umane fortemente evocatrici: Socrate, bevuta la cicuta e ormai morente, mandò Critone a portare un gallo a Esculapio; nei Vangeli è il canto del gallo che scandisce il tradimento di Pietro... E’ questa una figura dai tratti a volte inquietanti che ritroviamo sovente nei dipinti di Chagall, dove il gallo sembra accompagnare deportazioni e crocifissioni.

Di certo, assieme alle campane, il canto del gallo era uno dei suoni più presenti nella vita di campagna, dove nella notte il silenzio sembrava covare la terra, mentre di giorno l’unico suono era il muggito dei buoi, il rumore dei carri che attraversavano lenti le strade del paese e qualche raro abbaiare dei cani. Di tanto in tanto si poteva udire la voce ritmata e incalzante degli ambulanti come l’acciugaio e l’arrotino che percorrevano il paese gridando, oppure quella delle «lingere», poveri viandanti che vendevano «carta da lettere» oppure compravano pelli di coniglio, stracci e ferri vecchi... Campane, galli, venditori: suoni, rumori e figure oggi smarriti, che rendevano ancor più parlante un silenzio che non ritroviamo più e che non riusciamo nemmeno a immaginare. Viene da chiedersi se, assieme a questo silenzio, non abbiamo smarrito anche la segreta sapienza di una quotidianità più rappacificata con la natura e con gli altri e l’ascolto di suoni destinati a tutti.


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