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Il magistero del "Deus caritas est" ("Dio caro-prezzo è") o il magistero del "Deus charitas est" ("Dio è Amore") ?!

DOPO WOJTYLA, LA CHIESA SULLA STRADA DELLA CIVILTA’ DELL’AMORE ("CHARITAS")? NO!!! SU QUELLA DEL DIO DEGLI AFFARI ("Mammona" - "Caritas") E DEL SILENZIO DELLE "TRE SCIMMIETTE" (di "Mammasantissima"). Speriamo che la nottata non sia troppo buia e silenziosa. La Chiesa senza pastori: un commento di Filippo Di Giacomo - a cura di pfls

LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE DI GESU’ E DEL "PADRE NOSTRO". E’ ORA DI RESTITUIRE "L’ANELLO DEL PESCATORE" A GIUSEPPE, PER AMARE BENE MARIA!!!
venerdì 9 novembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Quanti parroci, quanti vescovi hanno esercitato il loro diritto-dovere di visita? E se hanno visitate le sue case, trovandovi solo cose ottime, perché ora tacciono? Nella stanza di uno degli indagati di Torino sono stati trovati dei fogli di carta che dimostrano che il taglieggio subito durava da mesi e mesi: un calvario esistenziale facilmente immaginabile. Vissuto in disperata, e spaventata, solitudine.
Mentre questo accadeva, nessun confratello aveva occhi per vedere, orecchie per (...)

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> DOPO WOJTYLA, LA CHIESA SULLA STRADA ... DEL SILENZIO DELLE "TRE SCIMMIETTE" ---- Il Papa e l’assedio mediatico secondo Filippo Di Giacomo.

mercoledì 14 marzo 2012

Il Papa e l’assedio mediatico

di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 14 marzo 2012)

Non è vero, però....Nel 1993, mentre Giovanni Paolo II pellegrinava in Polonia, e un quotidiano italiano annunziava perentorio: «la fine del pontificato di Wojtyla è ormai questione di mesi e di settimane», per tanti sarebbe stato meglio chiedere un’opportuna benedizione a don Gabriele Amorth, lo scaccia diavoli più gettonato dai gazzettieri. Successe infatti che tutti coloro, più o meno direttamente, indicati come futuri papabili ebbero il privilegio di avere le esequie celebrate proprio dal Pontefice che avrebbero dovuto rimpiazzare. Dopo diciannove anni, il giochino del «Papa dimesso» viene rilanciato, mescolando un paio di trite nozioni chiesastiche ad un paio di ancor più triti criteri di pratica mediatica e, contrabbandando il tutto come auspicabili capisaldi dell’ecclesiologia giuridica moderna.

Ai tempi di Giovanni Paolo II un ricovero in ospedale era sufficiente per servire all’orbe mediatico un argomento inoppugnabile per poter invocare, a cicli alterni dal 1993 al 2005, una «guida forte» per la Chiesa. Quando questa è arrivata, in discreta salute e sufficienti forze, per contrastare con coraggio l’allegra eutanasia che i cattolici di mezza Europa stanno da decenni disinvoltamente infliggendosi, il tiro è stato spostato sui suoi collaboratori, per dichiarare fallito il pontificato e anche, tanto per gradire, l’ormai quasi inesistente «centralismo romano».

Il Papa si dimette e tutti pensano al «gran rifiuto» di Celestino V. Invece, Pietro da Morrone, che il buon padre Dante classificò «lapso», cioè vile, per il suo gesto, fu solo il terzo pontefice che ricorse ad una decisione già ammessa dalle consuetudini della Chiesa dei primordi. Clemente I, nel 97, e Ponziano nel 235, mandati in esilio dall’autorità imperiale, furono sostituiti come vescovi di Roma. Benedetto IX, diciottenne indegno e immorale posto sul soglio di Pietro grazie agli intrighi materni, accettò (nel 1045) di ridiventare semplice cardinale quando gli vennero promesse le rendite dell’obolo di San Pietro.

Questi quindi i precedenti ai quali, nel 1294, Celestino V poté ricorrere per ridiventare semplice monaco. Dopo di lui, nel 1415, anche Gregorio XII tornò all’umiltà di un’abbazia benedettina perché il Concilio di Costanza fosse libero, scegliendo un altro Papa, di sanare il grande scisma d’Occidente: per decenni, il Papa di Roma doveva convivere con due antipapa. Frugando ancora nelle pieghe della storia della Chiesa, altre dodici volte il Soglio Pontificio ha cambiato titolare mentre il legittimo occupante era ancora vivo. Non è dunque per disattenzione se, almeno secondo l’attuale codice di diritto canonico, è più facile far dimettere il Papa che rimuovere un parroco.

Infatti, mentre alle dimissioni del pontefice il codice dedica solo il secondo paragrafo del canone 332, il procedimento di rimozione di un parroco abbraccia tutto il capitolo primo della seconda sezione del VII libro. Dunque, per restare solo al codice di diritto canonico, per i cattolici dei nostri tempi il Pontefice Romano è, per sua stessa natura, un pastore condiviso e non un governante più o meno imposto. Come ogni vescovo, realizza la pienezza del suo sacerdozio esercitando tre «munera», tre compiti: santifica, insegna, regge la sua Chiesa.

Le discussioni di questi giorni riguardano sostanzialmente solo il terzo munus del Papa, quello che gli attribuisce la piena potestà ecclesiale. Questo però, per la base cattolica, è certo l’aspetto meno interessante della funzione pontificia perché, quando si tratta di «comandare», è facile comprendere come il Papa sia inserito in un puzzle istituzionale costruito nei secoli per escludere qualunque regime e qualunque colpo di scena, secondo la logica semplificante e tutta ecclesiastica, del «né troppo, né poco», valida in ogni circostanza, nella salute e nella malattia.

A leggere le dissertazioni di questi giorni sulla presunta volontà di Benedetto XVI di dimettersi, in fondo, si ha solo la solita impressione: un Papa in pieno assedio massmediatico; perché gridare «dimissioni, dimissioni», non costituisce forse, in un’epoca in cui la comunicazione ha la forza e l’importanza che le riconosciamo, un tentativo di privare il Pontefice romano della libertà di insegnare e santificare il suo popolo?

E non è strano che siano anche uomini e donne di Chiesa, per presunte ragioni imposte da meccanismi di successione e di governo, a cadere in questa tentazione? Allora, prima di teorizzare realtà che nella Chiesa equivalgono a poco più di uno starnuto, e interessano solo i «soliti ambienti» delle sacrestie romane, meglio porsi per un attimo dalla parte dei fedeli: è con loro, e non con la Curia, che Benedetto XVI deve continuare a spiegare la razionalità di un modello di vita cattolica che, nella Babele di questa modernità, rappresenta per molti un orizzonte possibile.


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