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Per la democrazia - dalla parte dei lavoratori...

A PROPOSITO DI MERITO. BRUNO TRENTIN, UN PROTAGONISTA DELLA CGIL E UN INNOVATORE PERMANENTE. Il ricordo di Guglielmo Epifani e l’ultimo articolo di Trentin, apparso su "l’Unità" - a cura di pfls.

venerdì 24 agosto 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione (...)

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> A PROPOSITO DI MERITO. BRUNO TRENTIN, UN PROTAGONISTA DELLA CGIL E UN INNOVATORE PERMANENTE. ... Il mio amico Bruno Trentin di Rossana Rossanda. (Domani pomeriggio i funerali).

domenica 26 agosto 2007

Il mio amico Bruno Trentin

-  Molto vicini e molto lontani
-  Il grande sindacalista della Cgil scomparso

La sua fu un’esperienza forte, ostinata, drammatica, contradditoria. Partigiano con Giustizia e Libertà, leader insolito nella Cgil, comunista silenzioso nel Pci. Era un compagno leale con il quale discutevamo accanitamente e con difficoltà. Restammo amici, anche nel disaccordo

di Rossana Rossanda (il manifesto, 25.08.2007)

Il lavoro è un terreno bruciante, che i partiti dell’ex sinistra e le ideologie del postomoderno cercano di eludere, e sul quale si è misurata tutta l’esistenza di Bruno Trentin. Ne ha costituito l’impegno politico e la domanda morale, su di esso si sono costruite le sue grandi scelte, grandi amicizie e grandi rotture. Certo è stato, dopo Di Vittorio, il segretario della Cgil nel quale sono state riposte più speranze, ma anche il più attaccato - fino alle monetine che gli tirarono addosso - quando parve deluderle. Ed ha finito per essere molto grande anche la sua solitudine, non priva di acerbità inflitte e amarezze subite.

Era venuto al Pci dalla Cgil nel 1950, e in esso ha avuto un fascino forte quanto la diffidenza dell’apparato e dei dirigenti, Ingrao escluso. Ricordo la commissione elettorale del IX congresso, nel 1960, che promosse lui e me nel Comitato centrale; era, credo, il più giovane e questo sollevava molti sospetti. Non era troppo poco sperimentato, solo dieci anni, undici in Cgil? Non si era formato in Francia, Tolosa, e nel partito d’azione, che poco aveva amato i comunisti e poco ne era stato riamato, non era figlio di Silvio Trentin, non era stato partigiano in Veneto nelle file di Giustizia e Libertà? Non era il percorso abituale di un dirigente comunista.

Origine e cultura lo rendevano diverso, e il suo riserbo suonava come una bizzarra forma di aristocrazia, attributo insolito in un sindacalista staordinarimente comunicante con i lavoratori e che andava contando sempre di più in quella Cgil che per il Pci era forza conclamata e cruccio nascosto. Non era stato proprio lui, Trentin, al cuore di quel V congresso che la rinnovava a fondo e ne segnava un’autonomia? Non sarebbe stato l’unificatore dei sindacati metalmeccanici nella Flm? Non sostenne fino all’ultimo quel sindacato dei consigli che non andava né su né giù né ad Amendola né a Berlinguer? E perdipiù non pretendeva una politicità assoluta del sindacato, non solo contrattuale, non solo salariale e normativa ma portatrice di un progetto di società? Non cresceva con lui, e poi senza e perfino contro di lui, una sinistra intellettuale e di lotta che avrebbe contaminato Pci e Psi?

Gli anni ’60, crogiolo che avrebbe messo fine al progressismo nel 1968 e nell’autunno caldo del 1969, ebbero in lui un protagonista tanto formalmente disciplinato quanto non riducibile. Non a caso campeggiava sul suo studio in corso d’Italia una istantanea di Di Vittorio che era scrutato e scrutava il volto severo d’un operaio giovane, ambedue interrogativi l’uno dell’altro. La corrente che passava tra un sindacato di classe e i salariati era assieme più immediata e insubordinata di quella che intercorreva fra base e dirigenti di un partito, come il Pci, che si voleva leninista soltanto nel detenere una «coscienza esterna» alla classe. Ne vennero degli scontri. Nel 1962 il primo avvenne sull’analisi del capitalismo italiano, in un convegno indetto dall’Istituto Gramsci: Trentin e qualcun altro meno autorevole di lui avvertiva «badate, il capitalismo italiano sta cambiando, si ammoderna, rinnova i suoi quadri, cresce» e un Giorgio Amendola appassionato e sprezzante li tacciava tutti di farsi delle illusioni e assieme inclinare all’estremismo, mettendo in causa la tesi che, per la sua natura retriva e fascistizzante, il padronato italiano era incapace di essere una classe dirigente dei nostri tempi. In gioco era dunque il ruolo del partito: doveva approfondire la sua natura di classe o mantenere come obiettivo e limite l’ammodernamento del paese, possibilmente assieme a quel Psi con il quale la sinistra interna avrebbe impedito a lui, Amendola, due anni dopo, spento Togliatti, di andare all’unificazione.

Quella volta Trentin non vinse e Amendola non perdette. Il volgere delle cose avrebbe portato il Pci, invece che a una radicalizzazione della lotta, a sperare di reggere dall’esterno i fili del centrosinistra che si stava tessendo: ora passano i socialisti, poi passeremo noi (e per noi non si intendeva la rivoluzione). Trentin si tenne distante dal dibattito, almeno quello più esplicito, seguiva dalla Cgil il formarsi delle lotte di quel decennio, cogliendone le novità e, come sarebbe stato sempre, nulla concedendo ad alcune forme estreme e contro il sindacato, alle quali non rimproverava la violenza ma quella che considerava una miopia, una elementarietà. Ed esterno rimase allo scontro nel XI congresso, o così parve a noi ingraiani che ne finimmo duramente sconfitti.

Ma con lui restò abituale lo scambiarsi le idee, vedersi, spesso assieme a Segio Garavini o con Vittorio Foa, mantenendo diversi i campi di intervento, lui molto corso d’Italia, noi molto Botteghe Oscure. E’ stato fra i sindacalisti uno degli osservatori più attenti del 1968 e dell’autunno caldo 1969, sostenne a lungo il sindacato dei consigli, anch’esso oggetto di diffidenza della segreteria del partito. Era come se tenesse sempre più lo sguardo sul mutare del capitale e dell’organizzazione del lavoro e delle figure sociali, e questo ci legava. Ma non avrebbe mai appoggiato il manifesto - come Ingrao, nel Pci non avrebbe mai scelto una posizione formale di minoranza. Il giorno della nostra radiazione, nel novembre del 1969, due amici erano assenti dal Comitato centrale per impegni sindacali, Trentin e Garavini. Garavini telegrafò che votava contro, Bruno non si fece vivo.

Ma non finì un’amicizia fra alcuni di noi che era stata grande. Eravamo su postazioni diverse, noi molto attenti alle nuove forme di lotta e alle loro elaborazioni più avanzate, lui molto interessato alle prime e del tutto indifferente alle seconde. Anche la sua consuetudine con Garavini si sarebbe allentata perché Sergio era molto amico di Raniero Panzieri, mentre Trentin con i Quaderni rossi non si coinvolse, che io sappia, mai. Quanto a Classe Operaia e Contropiano fu sempre acerbamente critico - non lo persuase il discorso sull’operaio massa, non pensò mai al proletariato come una figura rozza e indistinta, e perciò tanto più combattiva, non credette a un’autonomia del politico che gli sarebbe sovrapposta, forma indiretta di «stato».

Ma ricordo la sua collera quando Lama all’Eur definì cenere le lotte degli anni ’60 e ’70, consiliarismo incluso, nel ringhiare dei delegati che però, come sempre, incassarono. Non so se Lama avesse trovato un accordo con Berlinguer. A Lama seguì la breve stagione di Antonio Pizzinato, quadro sindacale proveniente dalla Borletti di Milano, poi fu Bruno a diventare segretario generale. La sua fu un’esperienza forte, ostinata, drammatica, contraddittoria. Eravamo in pieno passaggio d’epoca nel corso degli ’80, in piena, avremmo detto allora, controrivoluzione mondiale, in pieno rivolgimento capitalistico dell’organizzazione del lavoro, in piena crisi dell’Est (Tentin fu il solo del Pci a darvi ascolto), in piena «rivoluzione» tecnologica. In Italia in pieno craxismo. L’attacco alla scala mobile investì più Botteghe Oscure che la Cgil, per strano che possa parere - la Cgil stentò ad appoggiare il referendum, che infatti fu perduto. Da parte sua, Trentin lo riteneva già un obiettivo arretrato rispetto alla contrattazione aziendale, che considerava decisiva assieme al contratto nazionale, mentre la Confindustria escludeva o l’una o l’altro. Nel 1992 al governo era Giuliano Amato, in ballo l’unificazione monetaria e il trattato di Maastricht, violenta la pressione per una rottura sindacale. Trentin fece allora la sua, credo, sola mossa interamente politica, l’occhio sul governo, sull’Europa e sul pericolo di isolamento della Cgil prima che su quelli che considerava i suoi mandanti, i lavoratori. Siglò il famoso accordo del 31 luglio e si dimise dalla segreteria della Cgil. Le dimissioni sarebbero rientrate. Ma quella data segnava in verità la sua fine. Un anno dopo sarebbe stato sostituito da Cofferati.

Non considerò mai quella sigla un errore, la difendeva ancora anni dopo, sostenendo che era stato l’unico modo di salvare sia il suo sindacato sia alcuni principi che sarebbero stati confermati negli accordi del 1993. Non credo che avesse ragione. Non ci perdonò l’attacco che gli muovemmo - che gli mossi. Si incrinò anche l’amicizia personale che aveva retto a molte vicissitudini e alla separazione degli itinerari; ci aveva legato, più che una consuetudine quotidiana, la formazione più europea che nazionale, più legata al nord che al sud, più interessata all’analisi che allo slogan. Tanto più forte fu la lacerazione. Ne ebbi ripetute requisitorie nelle più rare occasioni di incontro. La pace sarebbe stata dichiarata con qualche riga molti anni dopo.

Ma se fra noi lo scontro era iscritto nelle cose, fra lui e il Pci poi Pds, non lo era. Se non su un punto decisivo quanto poco esplicitato. Non facilitò né contrastò la svolta di Occhetto. Seguendo quel suo filo costante, coerente, testardo. Sapeva da un pezzo che il Pci non aveva un «progetto di società», come amava dire, e tantomeno basato su una trasformazione del lavoro. Sul quale si divise sempre da una sinistra che si dibatteva fra massificazione, esaltata come terreno di una nuova coscienza antagonista e nativamente ugualitaria, e radicalismo che egli non ammetteva, accusandolo di massimalismo o corporativismo. Tutto gli pareva subalterno, incapace di afferrare la crescita del capitale, incapace di opporvisi, al massimo condannato a una difesa perdente quando non preludeva a un salto dall’altra parte. Fu uno dei primi a capire la Trilaterale, non cedette a conclusioni sommarie, non credette in una vittoria assoluta del toyotismo, non sottovalutò un taylorismo duro a morire nelle grandi aziende, credette alla necessità dell’Europa e della moneta unica come passo in avanti rispetto all’angustia dello stato nazionale. Il suo Marx era quello della liberazione delle forse produttive, ma con un accento messo sull’irriducibilità della persona, sulla sua priorità rispetto alla massa, perfino alla classe, che aveva le sue radici in una sua lettura del personalismo di Mounier, in Maritain, in una Simone Weil amata e criticata per misticismo.

Negli anni ’90 avrebbe lavorato a lungo su Americanismo e fordismo di Gramsci. La sua impronta più profonda sta nella persuasione che nel lavoro c’è insieme un’alienazione e un principio di identità, che resta il luogo elettivo delle relazioni e della creatività - che si tratta di liberarlo, liberare l’uomo nel lavoro, non dal lavoro, non fuori di esso. Questa l’utopia nel suo libro meno noto, i due saggi de La città del Lavoro, il primo dei quali è uno dei più severi attacchi alla subalternità culturale della sinistra, che era stata anche sua.

Anche fra lui e la Cgil, senza strappi apparenti, dovette essere una dura separazione. Come il Pci, anch’essa è spietata con i dirigenti che lasciano sulla loro strada. In Cgil prese la direzione di un ufficio studi che non produsse o non fu lasciato produrre nulla di staordinario, come una Commissione sul programma del Pds in mutazione. Divenne deputato europeo. Bertinotti, che finché erano assieme in segreteria era stato oggetto di suoi attacchi asperrimi per estremismo, novimentismo, massimalismo (peraltro ricambiati in direzione opposta), lo incontrava a Bruxelles o Strasburgo, solo, e finivano per fare colazione insieme. Solo arrivava dovunque, nelle occasioni pubbliche. Al congresso di Rimini, che avrebbe visto la grande stagione di Cofferati, Trentin non stava alla presidenza, ma seduto a mezza sala, senza amici accanto, e col giornale aperto davanti agli oratori, segretario incluso.

Non so come la mettesse con gli esiti attuali della mondializzazione. Ci vedemmo sempre meno nella sua ospitale casa. Ai congressi ci abbracciavamo, ma con qualche imbarazzo, come due che si erano voluti bene molto tempo fa. L’ultima volta lo incontrai, inatteso, nel corteo che il manifesto fece per Giuliana Sgrena sequestrata in Iraq. Non lo percorremmo assieme, ci perdemmo nella folla.

Poi, negli ultimi due anni, le brutalità del corpo assalirono diversamente tutti e due. La sua banale caduta in montagna, che amava più di qualsiasi altro luogo, fu un’ironia crudele del caso. Non se ne rimise più e non so se abbia potuto riflettere sulla sua vita, sul suo tormentato e pur felice itinerario. Lo avrebbe sicuramente difeso tutto.


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