Quel che devo a Trentin
di Furio Colombo *
Questo non è un ricordo e non è un addio.
Questa è la testimonianza di una presenza che resta nella vita e nella cultura italiana persino in un tempo barbaro che vede futuro e modernità nello smantellamento, nel vandalismo, nel rimuovere e negare come segno di presenza e di afona egemonia.
Bruno Trentin era di quegli italiani che pensavano di essere in debito con il proprio Paese, un Paese che era stato fascista, razzista, e distruttivo. Intendevano restituire a quel Paese dignità e rispetto. Pensava di essere in debito verso chi, isolato e privo di risorse e di diritti, poteva diventare la parte spezzata, il peso morto e vendicativo di un Paese che non sarebbe mai diventato moderno.
Bruno Trentin aveva, come immagine della modernità, una eguaglianza solida di diritti garantiti e di accessi possibili. Credeva in un mondo in cui ha senso parlare di mercato solo se rendi forte, orgogliosa e rispettata la parte debole e la metti al sicuro dall’essere folla e dall’essere massa.
Spesso, parlando di lui, e persino apprezzandone le straordinarie doti di leader, si è trascurato un dato formativo essenziale.
Ossia quegli studi americani che lo hanno guidato a farsi protagonista di un impegno sindacale in cui vedeva diritti individuali, vite, destini, persone anche quando aveva di fronte piazze e cortei.
In giorni di lutto e rimpianto, in cui si è pensato a questo evento più come a una morte d’estate che a una dolorosa amputazione di un mondo già tanto precario e in pericolo, ci sono ragioni che mi importa molto di ricordare.
Per esempio, una serie di conversazioni che abbiamo avuto, accanto alla sua scrivania, messa per traverso nella sua stanza di Segretario generale della Cgil. Avevi l’impressione di essere nel cuore di un mondo di conoscenza, non nel punto di comando di una organizzazione sindacale. Era come la conversazione con un docente di uno strano campus universitario, qualcuno che ha da passare e condividere cultura nuova. Stavo lavorando per la Rai Tre di Angelo Guglielmi a un documentario che non era sull’Italia ma sull’America, non sul presente ma sul futuro, non sul lavoro ma sulla vita.
L’intervista, durata quasi un’ora nella sua versione televisiva, ma molto più lunga nella realtà, nella mia memoria, nel materiale di lavoro, ha contato immensamente per due libri che negli anni Ottanta mi sono importati molto e che qualcuno fra coloro che erano giovani allora qualche volta mi ricorda ancora: Cosa farò da grande e Carriera vale una vita.
Si tenga presente che li ho scritti nel cuore della mia esperienza americana e mentre ero presidente della Fiat Usa. La voce, lo sguardo, l’intelligente frugare nel futuro di Bruno Trentin e «il lato americano» della sua vita, che ci è servito da punto di incontro, hanno profondamente contato in questi due libri, e questo è un grazie. Un grazie in più oltre a quello che gli deve ogni italiano che ha condiviso in quegli anni, e fino a poco fa, un sogno civile fatto di offerta, di un dare di più al proprio Paese, alla propria cultura, al periodo storico che ci accade di attraversare, invece di scardinare passaggi, rimuovere pezzi, appropriarsi di beni comuni e sbandierare egoismi e reclami privati.
Per fortuna - e questo è il senso della storia - la vita e il lavoro di una persona come Bruno Trentin non vanno via con la morte. Restano le orme di un percorso nobile che a mano a mano altri scopriranno e seguiranno. È un percorso che si chiama civiltà e che, anche a distanza di anni, aiuta a distinguere, a capire, a rifiutare il peggio, a fare un po’ meglio.
colombo_f@posta.senato.it
* l’Unità, Pubblicato il: 27.08.07, Modificato il: 27.08.07 alle ore 10.14