Superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, pigrizia (o accidia). Sono i nemici perenni della virtù, i seduttori della coscienza, le indicazioni per quella via larga che conduce alla perdizione. Un volume del biblista Gianfranco Ravasi ne ricostruisce la storia all’interno della cultura occidentale, fra teologia, arte e letteratura
Vizi capitali le porte del peccato
Il grande moralista francese Montaigne (1533-1592) nei suoi Saggi confessava di «trovare che la miglior virtù ha in sé qualche sospetto di vizio», mentre uno che proprio esemplare non era, come l’abate Giovanni Battista Casti (1724-1803) nelle sue Novelle galanti, in verità licenziose, osservava non a torto che «dentro giusti confin virtù si tiene, / se oltrepassarli vuol, vizio diviene»
dii Gianfranco Ravasi (Avvenire, 02.09.2007)
«Vitiis nemo sine nascitur»: stando alle Satire (1, 3, 68) di Orazio, nessuno nasce senza vizi, tesi accolta con entusiasmo da san Girolamo e dai pensatori medievali, che evidentemente rimandavano alla dottrina del peccato originale. La tesi sarà rielaborata a suo modo da Tacito, il quale nelle Storie (4, 74, 2), ribadiva: «Vitia erunt, donec homines», finché avremo sulla faccia della terra uomini e donne, i vizi non mancheranno mai. Come dice il proverbio, «Ogni farina ha la sua crusca» e nessuno, «dal più vecchio all’ultimo», può afferrare una pietra per colpire l’adultera, raccogliendo l’invito di Gesù: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra» (Gv 8,7.9). Il tema del vizio deve, dunque, interessare tutti, in teoria e nella pratica. Noi, prima di mostrare i vari volti che esso riesce ad assumere, cercheremo di individuarne il fondo comune, il genere permanente, la struttura costante.
Cominciamo da un tentativo di definizione, a partire dal nome che, in greco, di fatto era ed è assente, tant’è vero che si ricorreva a kakía o kakótes (termini che di per sé significano semplicemente cattiveria, malvagità, male) o, nella tradizione cristiana, a loghismói, pensieri, ragionamenti perversi. L’italiano, l’inglese e il francese attingono al latino vitium che genera le voci «vizio» e «vice». Quale sia l’etimologia è difficile dire, come ammoniscono nel loro fondamentale Dictionnaire étymologique de la langue latine (1931 e 19944) due importanti latinisti, Alfred Ernout e Antoine Meillet, che sbrigativamente concludono: «L’origine e la storia della parola sono troppo oscure perché si possa determinare con certezza il senso primitivo».
Nel tedesco Laster si ha un derivato del verbo lasten, gravare, per cui il vizio è un Last, un peso che opprime l’anima come un macigno. È curioso notare, però, che il nostro vocabolo «vizio» riesce a produrre una fioritura di termini non sempre negativi. Certo, ci sarà anche un «vizzo» e «avvizzito» che svelano l’esito finale di aridit à, di inconsistenza, di vuoto, di polvere che l’immoralità provoca; ma di altro tenore sono derivati eleganti e aggraziati come «vezzo», «vezzoso», «vezzeggiare », «vezzeggiativo», o più decisi ed efficaci come «avvezzare », «divezzare» o «svezzare».
Si dice, però, che da «vizio» discenda anche «vituperare», verbo che con larghezza i moralisti coniugheranno proprio per condannare i vizi. Naturalmente attorno al vocabolo centrale che stiamo studiando si dispone a corona una costellazione lessicale di sinonimi come peccato, male, colpa, immoralità, perversione, depravazione, degenerazione, corruzione, perdizione, errore, sbaglio, cattiva abitudine, ma anche, in tonalità minore, difetto, mania, malvezzo, capriccio, imperfezione, pecca, neo, magagna, alterazione, scorrettezza e così via, oltre ad aggettivi più corposi e vigorosi come traviato, dissoluto, scellerato e altri ancora. A questo punto s’impone una definizione. Proviamo a cercarla nel Dizionario etimologico della lingua italiana di Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli (vol. 5, 1988): «Abitudine inveterata e pratica costante di ciò che è, o viene considerato, male».
Una conferma la troviamo nel Grande Dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia (vol. 21, 2002), che alla voce «vizio» recita: «Abituale disposizione al male, al peccato o, genericamente in modo abietto, ad assumere abitudini e comportamenti moralmente riprovati». Cogliamo in entrambe le definizioni il germe generatore del vizio, ossia l’abitudine maligna. Il vizio, anche se parte da un atto e si esprime in atti, è una tendenza perversa di base che si impasta con la persona stessa. Per questo la letteratura morale cristiana greca amava parlare di loghismói, cioè di stato mentale operativo, oppure di pnéumata, di principi perversi in azione. Il vizio è la ripetizione non occasionale del singolo peccato, è la tendenza a compierlo in modo sistematico. Questa particolare qualità se, da un lato, non esclude la colpevolezza e la responsabilità e tica, trattandosi di uno stato creato e alimentato da scelte libere, d’altro lato può introdurre in casi specifici e da vagliare di volta in volta una certa deresponsabilizzazione e, quindi, una diminuzione o anche un’assenza di colpa.
Proprio per tale dimensione di abitudinarietà, non è corretto identificare il vizio con il peccato in senso stretto: quest’ultimo è un atto cattivo singolo con le sue connotazioni proprie; l’altro è un costume acquisito, una disposizione abituale che è generata dal peccato iniziale e a sua volta genera peccati in modo costante e continuo. È più corretto, allora, conservare la dizione italiana comune dei «sette vizi capitali», rispetto alle altre lingue che adottano il termine «peccato»: les sept péchés capitaux, the seven deadly sins, die sieben Todsünden, los siete pecados capitales... Certo, il vocabolo «vizio» può assumere altre accezioni metaforiche. Così si parla di «vizio di mente» per designare uno stato di infermità mentale; in sede giuridica il termine può denotare una non conformità ai dispositivi di una legge o norma (per esempio, un «vizio di legittimità»); in ambito fisico può segnalare un’alterazione funzionale o ambientale («aria viziata»); in filosofia si parla di «circolo vizioso » quando si procede da premesse non dimostrate per approdare a una conclusione usata come argomento per dimostrare le premesse di partenza. È interessante notare - e lo ribadiremo quando entreremo nel territorio a luci rosse della lussuria - che nel linguaggio comune la parola «vizio» si è ristretta attorno alla depravazione sessuale: «vizio carnale», «vizio contro natura», «vizio solitario», «vizietto», «persona viziosa», «atti viziosi» evocano una sola dimensione, quella della colpa in ambito sessuale.
Il vizio è, in sintesi, una categoria morale che denota una condotta negativa rispetto a un determinato sistema di valori, codificato a livello naturale (e quindi sulla base di un’antropologia filosofica) o a livello trascendente (qui entr a in causa la morale religiosa) o in ambito sociale e comportamentale.
La virtù è il suo antipodo, dato che essa è armonia con quelle norme o dominio della coscienza personale e della ragione su impulsi intimi o esterni. In entrambi i casi alla base c’è l’esercizio della libertà personale. Bisogna, però, riconoscere che esiste una lunga tradizione che ha cercato, e non a torto, un nesso o una certa continuità/discontinuità fra virtù e vizio. Avremo occasione di mostrare come una virtù impazzita, esasperata o ipocrita possa scivolare nelle paludi del vizio. È san Girolamo - il quale l’aveva desunto forse dal retore latino Quintiliano, e ripetuto più volte - che proclama: «Vicina sunt vitia virtutibus», ci sono vizi vicini alle virtù.
Infatti, le frontiere morali non sono cortine di ferro e, come diceva Seneca nelle sue Epistulae (120, 8), «ci sono vizi che confinano con le virtù». Talvolta, anzi, cercano di scimmiottarle, oppure le deformano nell’eccesso o nell’insufficienza. Il grande moralista francese Montaigne (1533-1592) nei suoi Saggi confessava di «trovare che la miglior virtù ha in sé qualche sospetto di vizio», mentre uno che proprio esemplare non era, come l’abate Giovanni Battista Casti (1724-1803) nelle sue Novelle galanti, in verità licenziose, osservava non a torto che «dentro giusti confin virtù si tiene, / se oltrepassarli vuol, vizio diviene». Non si deve, poi, dimenticare che talora accade quello che La Rochefoucauld nelle Massime esprimeva con realismo, ossia la consapevolezza che la fragilità della natura umana combina in sé pregi e limiti, senza possibilità di rigide e nette distinzioni: «I vizi entrano nella composizione della virtù, come i veleni nella composizione dei rimedi. La saggezza li mescola e li tempera e se ne serve utilmente contro i mali della vita».
Nel giudizio sull’immoralità di una persona non si deve, perciò, procedere in modo categorico e farisaico. Il detto popolare secondo il quale «ogni ladrone ha la sua devozione» ha un’indubbia anima di verità. Quando Torquato Tasso fu invitato a tenere la prolusione in occasione dell’«aprirsi dell’Accademia ferrarese», nella sua città di adozione, affermò fra l’altro: «Chiaramente si raccoglie che ’l vizio, ancorché sia reo per se stesso, e d’odiosa e malvagia natura, può aver però qualche compagnia e qualche congiunzione colle cose buone e lodevoli». Non è, poi, mai mancato anche nella morale tradizionale, oltre che nella prassi giudiziaria, il ricorso alle attenuanti: esse non giustificano radicalmente il comportamento corrotto, ma ne possono ridimensionare la gravità a causa del contesto, dei condizionamenti e delle scusanti. Certo, quando nelle sue Epistulae (116, 2) dichiarava che «non c’è vizio che non abbia scusa», Seneca voleva bollare l’ipocrisia del peccatore che accampa alibi e allega giustificazioni e motivazioni a sua discolpa. Questo, però, non esclude che la gravità di una colpa possa talvolta essere ridotta e fin annullata da una serie di ragioni addotte a spiegazione di uno stato particolare, nel quale la persona era priva delle condizioni perché ci fosse piena coscienza e responsabilità. Sta di fatto, comunque, che questa rimane un’eccezione - importante, certo, per un corretto e giusto giudizio morale - ferma restando la norma permanente.
Dopotutto, c’è un altro proverbio che non fa sconti: «Il lupo perde il pelo, ma non il vizio». Abbiamo, dunque, definito il vizio, ne abbiamo abbozzato la fluidità dei confini pur nella sua sostanziale identità negativa, ora dovremmo determinarne la classificazione: detto in termini più tradizionali e un po’ schematici, il numero. Il desiderio di elencazione fa parte di una primordiale aspirazione all’ordine e alla completezza. Si pensi, per esempio, che i primi papiri «scientifici» egizi, come quello denominato Anastasi, erano basati su lunghi elenchi, in cui ogni nome era una sorta di stampo definitorio che isolava e conteneva il singolo animale, vegetale o minerale a cui era assegna to. Questo procedimento valeva anche per le realtà morali. È il caso dei vizi, la cui codificazione fu appunto fissata attraverso il ricorso a un numero, il tipico settenario che, come è noto, nell’immaginario biblico e in un’antica simbologia numerologica era indizio di completezza e pienezza. A dire il vero, però, le cose in principio non andarono proprio così.
Era nato a Vienna nel 1903, ricevette il Nobel per la medicina nel 1973 e morì in Austria nel 1989: Konrad Lorenz, psicologo e zoologo, è, come molti sanno, il fondatore dell’etologia, cioè lo studio del comportamento degli animali in libertà e del loro «imprinting» o apprendimento istintivo e primordiale. Accanto a opere di grande successo come L’anello di re Salomone (1949) e uno studio sull’aggressività, Il cosiddetto male (1963), Lorenz ha composto un interessante studio di indole socio-antropologica intitolato Gli otto peccati capitali della nostra civiltà (1973), mentre il filosofo Constantin Noica, appartato ma originale pensatore rumeno, aveva diagnosticato le Sei malattie dello spirito contemporaneo (1978).
Ora, il ricorso al numero otto per elencare i vizi capitali fa parte di un’antica tradizione cristiana orientale che forse attingeva all’etica stoica, la quale enumerava quattro passioni fondamentali (tristezza, paura, invidia, piacere) e quattro vizi opposti alle virtù (irrazionalità, pigrizia, ingiustizia e intemperanza).
Sta di fatto che uno degli autori spirituali più acuti e originali del IV secolo, il monaco Evagrio Pontico, nella sua opera Praktikós, composta di cento capitoli, propose una serrata analisi degli «otto pensieri generici», in greco loghismói, termine che, come già detto, era destinato a indicare i vizi capitali, concepiti come scelte coscienti della persona. La sua lista ha impostazione «ascendente», procede cioè dal minore per ascendere al male maggiore, forse anche sulla base di una tripartizione che l’autore aveva concepito nella sua analisi della vita spirituale: i l primo livello, la práxis, ossia il comportamento concreto e immediato, assorbiva i primi tre vizi; la deutéra theoría, la «riflessione secondaria» umana, contrastava i successivi tre e, infine, la theoría protéra, la «riflessione primaria », puntava contro i vizi peggiori, gli ultimi due. Ecco, comunque, l’elenco di Evagrio, che egli confermerà in un’altra sua opera, l’Antirrhetikos, di solito reso con il titolo Contro i pensieri maligni, giunto a noi nelle versioni siriaca e armena (dal greco) e costituito da un florilegio di citazioni bibliche da usare come base scritturistica per contrastare gli otto «pensieri» perversi, e che probabilmente lo stesso l’autore, ma la paternità dell’opera è discussa, confermerà nello scritto Gli otto spiriti di malvagità: Gola (gastrimarghía) Lussuria (pornéia) Avarizia (filargyría) Tristezza (lýpe) Ira (orghé) Accidia (akedía) Vanagloria (kenodoxía) Superbia (hyperefanía) Non è chi non veda che in questa lista si hanno scelte diverse rispetto all’elenco che passerà in Occidente e che verrà mediato attraverso un altro monaco, lo scita Giovanni Cassiano, vissuto a cavallo fra il IV e il V secolo a Betlemme e in Egitto, ordinato prete a Roma e fondatore di un monastero a Marsiglia.
La popolarità delle sue Istituzioni cenobitiche e delle Conferenze ai monaci - che contenevano appunto l’ottonario dei vizi (rispettivamente in 5, 1 e 5, 2) - fecero sì che via via si elaborasse un’altra classificazione, divenuta canonica con san Gregorio Magno, papa dal 590 al 604, il quale isolò la superbia come sorgente di tutti i mali, unificò tristezza e accidia, e introdusse l’invidia. In pratica Gregorio aveva catalogato uno schema ottonario a 7 + 1, laddove la superbia rimaneva a sé stante come radice degli altri vizi. Fu solo nel Medioevo, con Ugo di San Vittore, un teologo morto nel 1141, che si superò ogni ambiguità e si optò per il settenario, sulla scia delle sette virtù (oltre che dei sette doni dello Spirito Santo, delle sette domande del Padre nostro e di altri settenari presenti nella Bibbia che, come si è detto, considera questo numero segno di pienezza). L’ordine dei vizi continuò a oscillare secondo i vari autori; alla fine prevalse quello che abbiamo anche noi seguito, che è di tipo «discendente »: si procede dal vizio maggiore, la superbia, seguendo una trama degradante che rimane, però, sempre moralmente grave e «mortale»: superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia, pigrizia.
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l’autore e il libro
Il biblista in questi giorni protagonista a Sarzana e Mantova
Gianfranco Ravasi (1942), sacerdote della diocesi di Milano dal 1966, è Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana, docente di esegesi biblica alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale e membro della Pontificia Commissione per i Beni culturali della Chiesa. Esperto biblista ed ebraista, già impegnato in campagne di scavo nel Vicino Oriente, è autore di numerosi libri tra cui ricordiamo: Giobbe (1979), Il Libro dei Salmi (1981-84), Qohelet (1988), Il Libro della Genesi (1991), Il Cantico dei Cantici (1992), Apocalisse (1999), I Comandamenti (2002), Breve storia dell’anima (2003), Ritorno alle virtù (2005), Via Crucis al Colosseo con Benedetto XVI (2007). Collabora ad Avvenire, Il Sole-24 Ore, Famiglia Cristiana e Canale 5.
Il brano che qui pubblichiamo è tratto dal primo capitolo del nuovo volume di Ravasi Le porte del peccato. I sette vizi capitali (Mondadori, pagine 244., euro 17,50), che esce a giorni in libreria. Un viaggio acuto ed erudito nella comprensione delle realtà perenni che tentano l’uomo al male e alla rottura dell’amicizia con Dio.
Ravasi interviene oggi, alle ore 21, al Festival della Mente di Sarzana (Sp) sul tema «La Parola creatrice» e mercoledì 5 settembre al Festival della letteratura di Mantova (ore 18,15) su «Parola e ascolto».