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Cinema. Venezia 2007

"REDACTED". Brian de Palma: «Spero che le immagini che mostro nel film facciano arrabbiare il pubblico americano e portino i politici a cambiare idea sulla guerra in Iraq" - a cura di pfls

venerdì 31 agosto 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] «Redacted» ricostruisce un evento cruento della guerra in Iraq: un manipolo di soldati americani in una scorribanda notturna, e sotto l’effetto di alcol e droghe, entra in una casa di civili iracheni, violenta ripetutamente una ragazza di 14 anni, dandole al fine fuoco, e stermina tutta la famiglia. Un fatto realmente accaduto che ha talmente impressionato l’opinione pubblica americana da costringere il Ministero della Difesa a pene esemplari, nonostante un iniziale tentativo di (...)

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> "REDACTED". Brian de Palma: «Spero che le immagini che mostro nel film facciano arrabbiare il pubblico americano e portino i politici a cambiare idea sulla guerra in Iraq" - L’Italia e il nostro cinema di Giovanni De Luna.

lunedì 3 settembre 2007


-  Eppure è l’Italia
-  quel che racconta il nostro cinema

di GIOVANNI DE LUNA (3/9/2007)

Il coraggio di Brian De Palma di raccontare uno stupro-massacro degli americani in Iraq. Il coraggio di Brian De Palma di raccontarlo al cinema con pezzi presi da altri contesti, dal web, dai video amatoriali, dalle foto digitali, dai filmati di propaganda messi in rete dai terroristi-sgozzatori. L’intimismo di Paolo Franchi, la stampella chiesta alla psicoanalisi per introdurre la macchina da presa nella dimensione privata degli individui. A Venezia, lo stesso giorno sono stati presentati l’americano Redacted e l’italiano Nessuna qualità agli eroi; solo da questo confronto sembrerebbe veramente che il nostro cinema abbia perso riferimenti culturali e passione civile, accontentandosi di mettere in scena un’Italia minore, messa al riparo dai drammi e dalle tensioni che attraversano la contemporaneità.

Il dibattito che in questi giorni ha visto coinvolti storici e registi (Galli della Loggia, Lizzani, Bellocchio, Olmi ecc.) ruotava proprio intorno a questo interrogativo: il cinema è ancora in grado di raccontare la nostra storia, di costruire un ordito narrativo in cui tutti gli italiani possano riconoscersi protagonisti di una stessa vicenda collettiva? Io credo di sì; a patto di non ostinarsi a voler ritrovare in quelle narrazioni le forme stilistiche e le ispirazioni culturali del passato. Proprio a Venezia, a cura delle Giornate degli Autori, è stato presentato alla stampa e al ministro Rutelli un progetto che punta a salvare 100 film prodotti in Italia tra il 1940 e il 1980; salvare nel senso di sottrarli all’oblio delle cineteche, renderli visibili nelle scuole, riproporli con iniziative editoriali al grande pubblico, liberandoli dalla gabbia dei diritti commerciali, considerandoli un bene culturale più che una fonte di profitto. L’iniziativa nasce proprio dalla convinzione dell’importanza che per tutti quegli anni il cinema ha avuto non solo per la sua capacità di raccontarne la storia, ma anche di farla, intervenendo direttamente nel processo della costruzione della nostra identità nazionale.

Fino alla cesura della seconda metà degli anni 70. C’è stata allora una netta discontinuità, la prima avvisaglia della grande slavina che agli inizi degli anni 90 avrebbe portato alla nascita della Seconda Repubblica. Fu la politica a renderla pienamente visibile; ma prima erano già cambiati i paradigmi culturali, in una fase tumultuosa e caotica riassumibile nel grido di dolore di Pasolini di fronte allo «spettacolo» di una nuova antropologia degli italiani che ne aveva definitivamente dissolto i caratteri originari.

Da quel punto in poi, non è che il cinema non sia stato più capace di «raccontare». È cambiata l’Italia da raccontare. Così, un film come Il portaborse, che pure non è un capolavoro, si rivela strepitosamente efficace proprio per la tempestività nell’anticipare il terremoto del biennio 1992-1994. E così anche molti dei film che oggi sembrano paccottiglia usa e getta, tra qualche decennio saranno in grado di mostrare tutta intera la loro capacità di rispecchiare i lineamenti della società di oggi, nei suoi aspetti più aggressivamente egoistici. È un fatto, comunque, che i singoli tratti nazionali tendono a scomparire, a dissolversi nella nuova dimensione di un cinema compiutamente globalizzato. We are the world è la colonna sonora di questo nuovo modo che il cinema ha assunto per interpretare il suo ruolo di agente di storia. È difficile, ad esempio, attribuire all’«identità americana» un film come Il gladiatore, affollato di attori, produttori, sceneggiatori tutti stranieri. Lo steso Redacted di De Palma sembra scaturire più da quella che Ulrich Beck chiama «l’empatia cosmopolita» che dallo spirito libero della tradizione del cinema americano degli anni 70.


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