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Memoria della Resistenza e della Liberazione ....

8 SETTEMBRE 1943. IL GIORNO DELLA RINASCITA E L’AVVIO DEL RISCATTO DELL’ITALIA. Una nota di Alfio Caruso - a cura di Federico La Sala

sabato 8 settembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
L’8 settembre, la patria non muore
di ALFIO CARUSO (La Stampa, 08.09.2007)
La sera dell’8 settembre ’43, poco dopo la diffusione del comunicato radiofonico con cui Badoglio ha annunciato l’armistizio, gli alpini della Pusteria attaccano truppe tedesche in transito nei pressi di Grenoble. A Gap l’11° reggimento delle penne nere è accerchiato da reparti corazzati: combatterà aspramente fino al mattino seguente.
Nelle stesse ore a Buccoli di Conforti, vicino Salerno, il generale Ferrante (...)

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> 8 SETTEMBRE 1943. IL GIORNO DELLA RINASCITA E L’AVVIO DEL RISCATTO DELL’ITALIA. --- Così tra il 1943 e il ’45 nacque la prima forma di silenziosa resistenza dei traditori traditi (di Franco Marcoaldi - Prigionieri dell8 settembre. L’odissea dei fedeli senza Stato).

domenica 6 settembre 2009

Prigionieri dell’8 settembre

L’odissea dei fedeli senza Stato

La tragica storia dei seicentocinquantamila internati militari italiani che negarono la loro adesione alla Repubblica sociale viene ora ripercorsa in un libro che raccoglie diari, lettere e testimonianze dai lager nazisti. Così tra il 1943 e il ’45 nacque la prima forma di silenziosa resistenza dei traditori traditi

di Franco Marcoaldi (la Repubblica, o6.o9.2009)

«Il cervello è un vulcano di pensieri: la vita, la casa, i tedeschi. La testa mi scoppia. Che fare? Alle 24, invece del cambio, arrivano altri uomini armati. Uno dice: "Altro che pace!" É la guerra di nuovo. Contro i tedeschi, stavolta». Così l’allievo ufficiale Lino Monchieri annota nel proprio diario la sensazione di assoluto smarrimento di fronte al collasso dell’8 settembre, collasso di un esercito e di una intera nazione, a cui farà seguito la cattura e la deportazione nel Terzo Reich di centinaia di migliaia di soldati e ufficiali italiani, la maggior parte dei quali, negando la loro adesione alla Repubblica Sociale, daranno vita alla prima forma di resistenza contro il nazifascismo.

La storia, a lungo rimossa, dei seicentocinquantamila internati militari italiani viene ora ripercorsa in un importante libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri, che raccoglie diari e lettere dai lager nazisti nel periodo 1943-1945. E niente come questa grande massa di documenti personali (compreso un capitolo dedicato a chi decide di stare dalla parte dei tedeschi e dei repubblichini), riesce a dar conto di una vicenda storica complessa e tragica, in cui l’umiliazione di un intero popolo si intreccia a una progressiva presa di coscienza individuale e collettiva, a una fedeltà nelle proprie convinzioni pagata molto duramente. E per nulla ricompensata dalla nazione italiana.

Dopo lo sbandamento seguito all’8 settembre, i tedeschi disarmano circa un milione di uomini, «di cui 196.000 fuggono o vengono liberati, 94.000 aderiscono subito, oltre 13.000 muoiono prima di arrivare nei lager e ben 710.000 vengono deportati con lo status di Imi». Dall’Italia, dalla Francia, dai Balcani, cominciano a partire alla volta del Terzo Reich lunghe tradotte dove i militari italiani vengono stipati come bestie, dentro vagoni sigillati: «Cerchiamo di sdraiarci alla meglio», scrive l’allievo ufficiale Giovanni Notte, «ma è impossibile. Sembra che nani maligni si siano divertiti ad allungare i piedi e le gambe. Se allunghi un piede, trovi subito dieci, venti piedi e un buon numero di persone che urlano».

L’impatto con i lager, se possibile, è ancor più terrificante di questa peregrinazione alla cieca nel cuore dell’Europa: l’offesa patita dai carcerieri, ex alleati, risulta da subito insopportabile. Chi è stato tradito dal proprio Stato ora deve, in sovraprezzo, sentirsi definire traditore. Trattato come un "sottouomo" dai suoi aguzzini.

Le condizioni igieniche sono pietose: «Il campo era privo di fogne», ricorda il sottotenente Gastone Petraglia. «L’acqua sporca stagnava lungo rigagnoli scavati nella sabbia e molto vicini alle baracche. Si beveva acqua inquinata e non potabile. Oltre a ciò lo spurgo delle latrine andava a finire nelle vicinanze di quelle pompe infiltrandosi in tal modo nell’acqua». Se a tutto ciò si assommano gli effetti dell’intollerabile freddo di un primo, rigidissimo inverno, ecco spiegato l’immediato dilagare di tubercolosi, dissenteria, malaria, tifo petecchiale.

Ma il nemico numero uno è e sarà per tutto il periodo della prigionia, la fame. Una fame lancinante, onnipresente: un buco nero che niente riesce a placare. La brodaglia quotidiana di rape e pane di segala, chiamata in gergo sbobba, è assolutamente insufficiente. Così c’è chi finisce per contendere il fieno ai cavalli, per mangiare la legna bruciata. Il rischio della pazzia è sempre dietro l’angolo e difatti non mancano casi in cui sotto il materasso di prigionieri morti di inedia, si trovano pagnotte nascoste e accumulate nel corso dei mesi. Il cibo diventa una vera e propria ossessione che popola le fantasie notturne degli internati. Giuseppe Volpi racconta di un ricorrente "sogno aritmetico": «Turbato che il mio accantonare un settimo di razione mi desse in due giorni solo un quinto in più, stanotte ho fatto di nuovo le operazioni con le frazioni ed ho trovato la soluzione. Mettendo via un settimo più un quinto al giorno, e cioè dodici trentacinquesimi, pari per difetto a un terzo, avrò alla domenica due razioni».

Al risveglio, però, queste elucubrazioni lasciano il tempo che trovano. E nella crescente disperazione si tenta la strada del mercato nero: un orologio, un paio di guanti e di stivali contro lardo, pane, tabacco. Nel lager polacco di Benjaminowo la "borsa" ha luogo nei cessi, e i detentori del "listino" sono i polacchi destinati alla pulizia dello sterco, altrimenti detti "merdaioli". «Il mercato», annota il sottotenente Antonio Rossi, «deve svolgersi di nascosto e perciò avviene nell’interno del gabinetto ed il "merdaiolo" per far entrare la merce nel campo la mette in una cassetta che poi sprofonda nel carro sporco. E non è raro che qualche pagnotta non sia proprio pulita».

Sì, la fame è la parola chiave attorno a cui ruota tutta la vita del prigioniero. E ben lo sanno i tedeschi, che battono e ribattono su questo tasto nella loro reiterata proposta di adesione alla Repubblica Sociale rivolta agli ufficiali italiani (diverso il caso di sottufficiali e truppa, che dopo l’iniziale rifiuto vengono spediti al lavoro coatto per rimpiazzare la manodopera tedesca impegnata sui fronti di guerra).

Dunque il "no" ai nazisti da parte di ciascun ufficiale è reiterato, continuo, ciò che rende ancor più commovente e ammirevole questa lotta senza armi contro il nazifascismo. E ripropone la domanda su quali siano state le ragioni che hanno spinto un numero così alto di militari a perseverare nella propria scelta. Lo spettro delle motivazioni è quanto mai ampio e gli autori del libro (oltre a Giorgio Rochat, nella sua prefazione) ne danno puntualmente conto: soprattutto all’inizio gioca un ruolo fondamentale la stanchezza nei confronti della guerra; imprescindibile è l’attaccamento alla divisa e alle stellette, il giuramento dato al re e non a Mussolini; mentre assume un peso crescente l’odio maturato giorno dopo giorno nei confronti dei carcerieri tedeschi. Il fatto è che ciascuno di questi uomini, per la prima volta in vita sua e dopo essere stato imbevuto per anni e anni di ideologia fascista, ora deve fare i conti con la propria coscienza. E maturare individualmente le proprie decisioni, nelle peggiori condizioni possibili. «Siamo soli», scrive il capitano medico Guglielmo Dothel, «non combattiamo più per nessuno ma solo per noi stessi in nome della nostra coscienza, del nostro onore, della nostra dignità di uomini».

La scelta, oltretutto, si rivela tanto più difficile perché la condizione assolutamente anomala di "internato militare" (pervicacemente voluta da Hitler), impedisce qualunque controllo e conforto da parte degli organismi internazionali preposti, in primis della Croce Rossa. Senza contare la percezione di un totale abbandono da parte di ciò che resta dello Stato italiano, mentre per contro montano le pressioni di quei familiari che invitano i loro congiunti a lasciar perdere e a ritornare a casa.

Paradossalmente, è proprio all’interno del lager che i nostri militari troveranno le energie necessarie a portare fino in fondo la propria decisione, rinsaldata da una crescente consapevolezza antifascista. Sì, è nel lager, perché lì nasce quella singolarissima comunità che Giovanni Guareschi definirà «Città Democratica»; il primo germe di democrazia con cui vengono a contatto giovani cresciuti tra fasci littori, adunate di Balilla e Avanguardisti, e che ora - nel luogo più impensato, tremendo - si trovano a discutere della libera scelta individuale. E ad apprendere, in lunghe serate trascorse in baracca, i primi rudimenti di filosofia, politica, storia italiana, poesia, musica, teatro. Pensate solo quale concentrato di intelligenze e talenti era presente nel già citato campo di Benjaminowo: Guareschi, il caricaturista Novello, il poeta Rebora, il filosofo Enzo Paci, l’attore Gianrico Tedeschi. Che incredibile scuola di vita, deve essere stata.

In una lettera inviata dal capitano Giuseppe De Toni al fratello Nando e letta da Radio Londra, è scritto: «Ho letto di Madri, Mogli, Figli che chiedono, implorando in buona fede una firma disonorevole; io stesso ho ricevuto, e non una sola volta, una invocazione rivolta al mio cuore di marito e padre, un appello diretto alla ragione. É la prova suprema per un uomo. Ma c’è qualcosa in me, in noi, che supera ogni lato affettivo, ogni tentazione, ogni lusinga, qualcosa che ci permette di vincere anche il nostro egoismo che si fa spesso tanto prepotente».

De Toni intuisce che in Italia si comincia a insinuare che gli Imi siano in realtà degli attendisti, addirittura degli imboscati. «Siete in buona fede e solo per questo possiamo perdonare la vostra debolezza. Ma da voi, da tutti voi, non attendiamo solo un aiuto materiale, pur tanto prezioso, quell’aiuto che salva la nostra esistenza fisica. Noi attendiamo, come ancor più prezioso, più necessario, il vostro aiuto morale, il conforto della vostra comprensione, il vostro incitamento a resistere».

Purtroppo le cose non andranno nel senso auspicato dal capitano. Quando, finita la guerra, gli internati militari italiani sopravvissuti all’orrore del lager torneranno in Italia, troveranno una patria a dir poco distratta. L’unica Resistenza ufficialmente riconosciuta è quella dei partigiani. L’onore militare e la fedeltà al re sono monete vecchie, ormai fuori corso. La ferita aperta dalla catastrofe istituzionale dell’8 settembre va dimenticata a tutti i costi. Così la ribellione silenziosa e disarmata di centinaia di migliaia di italiani si trasforma in una esperienza di cui è meglio tacere, che induce addirittura a un sentimento di vergogna.

E quella drammatica storia finisce per essere allontanata dalla memoria collettiva di un paese che ancor oggi, a sessantacinque anni da quegli avvenimenti, paga un altissimo prezzo per la mancanza di un passato condiviso. Aveva ragione Guareschi: «I più pericolosi nemici dell’Italia, mi vado convincendo che sono proprio gli italiani».


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