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Ricordando Sigmund Freud, un omaggio a Ludwig Wittgenstein: "(L’etica e l’estetica sono una cosa sola)". La svolta ...

La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. Una nota di Gianni Vattimo sull’omelia (allegata) pronunciata dal Papa, nel Duomo di Santo Stefano, a Vienna - a cura di pfls

Se la Chiesa saprà predicarci la Grazia ("charitas", non "caritas"!!!), potremmo persino riconoscerle senza proteste le sue esenzioni dall’Ici.
martedì 11 settembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Essere figlio significa - lo sapeva molto bene la Chiesa primitiva - essere una persona libera, non un servo, ma uno appartenente personalmente alla famiglia. E significa essere erede. Se noi apparteniamo a quel Dio che è il potere sopra ogni potere, allora siamo senza paura e liberi, e allora siamo eredi. L’eredità che Egli ci ha lasciato è Lui stesso, il suo Amore. Sì, Signore, fa’ che questa consapevolezza ci penetri profondamente nell’anima e che impariamo così la gioia dei (...)

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> La domenica di Ratzinger e la "domenica della vita" di Hegel. --- Una lettura mistica della Pasqua cristiana. Beati coloro che risorgono senza morire (di Marco Vannini)

venerdì 18 aprile 2014


-  Una lettura mistica della Pasqua cristiana.
-  Tra Hegel e antichi riti

Beati coloro che risorgono senza morire

di Marco Vannini (la Repubblica, 18.04.2014)


Al primo plenilunio dopo l’equinozio di marzo le antiche comunità pastorali e agricole festeggiavano il passaggio dalla morte dell’inverno alla vita della primavera: perciò a quella data fu posto anche il mitico passaggio - la Pasqua, appunto - degli ebrei dall’Egitto. Pasqua è in effetti la festa del commovente, davvero “miracoloso” rifiorire della vegetazione e, insieme, del risorgere delle forze vitali, generative, in tutti i viventi. Lo indicano chiaramente i suoi simboli: dalle uova ai coniglietti, simpatici animaletti ben noti soprattutto per la loro solerzia sessuale. Del resto nel Nord Europa la festa ancora mantiene il nome Easter, Oster, che viene da Ostara, dea pagana della fecondità.

Non deve perciò stupire che anche nella storia del cristianesimo questo sfondo vitale e sessuale sia stato a lungo presente. Pensiamo al cosiddetto risus paschalis, ovvero la celebrazione liturgica con rapporti carnali, imitati o reali, tra turpiloquio e lazzi osceni che sollazzavano i fedeli nelle chiese proprio nel giorno di Pasqua. Documentato fin dall’alto medioevo, il risus paschalis è proseguito, soprattutto in Germania, fino al Ventesimo secolo, e anche ai nostri giorni c’è chi lo giustifica quale sana espressione popolare di quel piacere sessuale che proprio nella “gioia” pasquale avrebbe un fondamento teologico.

In effetti la resurrezione dei/dai morti, antichissima fantasia apocalittica giudaica, non aveva altro senso che quello di riproporre la vita fisica, e non c’è dubbio che della vita fisica l’esercizio della sessualità sia manifestazione essenziale. Non a caso nell’islamismo la felicità dei risorti ha il culmine nell’infinito reiterarsi del piacere sessuale, le cui modalità il Corano descrive in dettaglio, e in Israele i sadducei, che non credevano alla resurrezione, domandano a Gesù di chi sarà moglie, dopo la resurrezione, appunto, una donna che ha avuto più mariti: la vita beata dei risorti era pensata soprattutto come vita matrimoniale, sessuale.

La risposta evangelica a questa domanda è però sconcertante: a prendere moglie o marito sono i figli di questo mondo, ma quelli che saranno degni del mondo futuro non prendono moglie o marito e neppure possono morire, perché sono come angeli, già risorti. Dio è infatti Dio non dei morti, ma dei vivi ( Lc20, 24 s.).

L’idea giudaica della resurrezione dei morti nel tempo finale è spostata dal mito alla realtà, ovvero sul piano di una resurrezione che avviene in questa vita, per la quale non si può più morire, perché la morte è già avvenuta. Questa morte è la morte dell’egoità, come quella del chicco di grano, che deve morire per portare frutto: è «odiare la propria anima», «rinunciare a se stessi», e la resurrezione è il «nascere di nuovo», dall’alto, non dal ventre materno ma dallo spirito, sperimentando la nuova vita, la vita dello spirito, appunto, come si legge nel vangelo di Giovanni.

Lo comprese bene Hegel: non quella che inorridisce davanti alla morte, ma quella che sopporta la morte e in essa si mantiene è la vita dello spirito; è proprio nell’assoluta lacerazione che lo spirito trova se stesso, «magica forza che sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui, capace di volgere il negativo nell’essere ». Occorre infatti non pensare il male, comprendere tutto quanto, anche quel che c’è di più lacerante, il tradimento da parte di chi ami: allora v’è spirito, si è spirito, ovvero il finito diviene infinito, il divino non più altro, ma tu stesso. «Nella notte in cui fu tradita, la sostanza divenne soggetto», scrive il filosofo tedesco, trasferendo nell’universale, col linguaggio speculativo della sua Fenomenologia dello spirito , la vicenda particolare della Passione di Cristo.

Passione, morte e resurrezione hanno evangelicamente un significato non mitico ma reale, non fisico ma spirituale, per cui la resurrezione è quella rinascita come spirito che pone nella dimensione dell’eterno. «Prima che Abramo fosse, io sono», dice Gesù ai giudei ( Gv 8, 58), esprimendo l’esperienza fondamentale di ogni tradizione spirituale: quella di essere già qui e ora nell’essere, nell’eterno.

Appena ci si distacca da ciò che è transitorio, il nostro amore si estende a tutto il mondo, si scopre davvero come idem amor et spiritus sanctus e la gioia di tutte le creature diventa la nostra stessa infinita, estatica letizia. «Di questo Tutto, nel distacco, gioisci», esortano anche le Upanishad.

È un fatto, peraltro, che la primitiva comunità cristiana si costituì sul fondamento delle attese apocalittiche, per cui le apparizioni di Cristo dopo la morte furono interpretate proprio nel senso di una resurrezione, prova e pegno della resurrezione finale. Questa però fu più una costruzione teologica che un fatto reale. La resurrezione di Cristo non ha avuto testimoni, ha un carattere segreto: da solo, prima che facesse giorno. Egli compare alle donne e agli apostoli già “risorto”.

È un evento spirituale, non uno spettacolo dimostrativo: Noli me tangere , dice alla Maddalena, quasi a prendere le distanze da ogni fisicità e a mostrare che non è in atto alcun ripristino della corporeità. Cristo è apparso dopo la morte solo ai suoi amici e solo da essi viene riconosciuto. Il brano con cui Giovanni chiude il suo vangelo è determinante: a Tommaso, che crede solo dopo che e perché ha veduto il risorto, Gesù dice che beati sono quelli che credono senza aver veduto. Essi infatti hanno sperimentato interiormente la resurrezione, in loro soltanto v’è conoscenza dello spirito e della sua beatitudine.

Si comprende allora quanto fuorviante sia l’idea della resurrezione di Cristo come segno definitivo della sua divinità, della verità esclusiva della fede cristiana, e, insieme, come garanzia della finale resurrezione dei morti.

Questo è il prodotto di Paolo, quel “funesto cervellaccio”, come lo chiamò Nietzsche, che non comprese il messaggio evangelico della morte dell’anima e della rinascita nello spirito e costruì un dysanghelion, una cattiva novella, appoggiandosi a quella apocalittica giudaica. Se non c’è la resurrezione dai morti, neanche Cristo è resuscitato, scrive infatti (1 Cor 15, 17) mostrando come l’idea della resurrezione di Cristo dipenda da quella della resurrezione dai morti, propria della mitologia apocalittica.

In parallelo, l’affermazione paolina per cui vana è la nostra fede se Cristo non è risorto, mostra un concetto di fede non come esperienza spirituale interiore, la cui verità è testimoniata dalla coscienza, ma come credenza estrinseca, la cui verità dipende dal miracolo.

E ciò è quanto di più antievangelico ci sia: nel vangelo infatti la ricerca del miracolo è sempre condannata come mancanza di fede, adorazione della forza, dunque non di Dio ma del demonio. La cosa è chiara proprio dalla resurrezione: proporla come una sorta di super-miracolo per convincere gli increduli è tipico dei falsi profeti, degli impostori. Secondo un’antica e ben documentata tradizione, era infatti Simon Mago ad organizzare resurrezioni di morti “dimostrative” della propria messianicità ed uno dei segni della fine dei tempi sarà proprio la messa in scena della propria, peraltro falsa, resurrezione da parte dell’ingannatore supremo, l’Anticristo.


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