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Al di là del relativismo, dell’assolutismo, e dello scetticismo...

L’AMORE PER LA VERITA’, IL FASCINO DELLA LEGGE, E LA DEMOCRAZIA. "Perry Mason" di Erle Stanley Gardner e "Rashomon" di Kurosawa: che belle lezioni di filosofia!!! Un breve "saggio" di Gianrico Carofiglio - a cura di Federico La Sala

domenica 16 settembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] Il processo dunque, attraverso la narrazione di storie, mira alla ricerca e alla ricostruzione della verità. Ma "la verità" è un concetto difficile da immobilizzare, che custodisce nelle pieghe delle lettere che la compongono, contraddizioni e significati nascosti. La locuzione "la verità" può essere anagrammata in "relativa"; ma anche in "rivelata" e anche, ancora, in "evitarla". Ognuno può scegliere l’anagramma e il significato che preferisce.
Per chi crede nel primato della (...)

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> L’AMORE PER LA VERITA’, IL FASCINO DELLA LEGGE, E LA DEMOCRAZIA. --- PERCHE’ CREDIAMO ALLE STORIE. Darwin e l’evoluzione della fantasia (di Paolo Legrenzi).

giovedì 2 settembre 2010

PERCHE’ CREDIAMO ALLE STORIE

Darwin e l’evoluzione della fantasia

di Paolo Legrenzi (la Repubblica, 02.09.2010)

-  Spesso quando le stesse cose ci vengono dette in modo pedagogico non ci interessano
-  Come individui abbiamo bisogno di avere fiducia in chi ne sa più di noi dell’esistenza
-  Siamo l’unica specie che ama narrare e ascoltare i racconti Anche quando non sono veri: soprattutto se non lo sono

Una cosa rende diversa la specie umana da tutti gli altri esseri viventi. Solo noi inventiamo storie e le prendiamo per buone. Provate a domandare alle persone quando, nel corso di una giornata, stanno bene. Le risposte prevalenti riguardano, in primis, lo stare con le persone amate e, poi, il lavoro e i successi professionali. Questa è la risposta ufficiale, quella che sentiamo di dover dare. In realtà quel che piace ai più è seguire storie alla TV. Per appurarlo basta interrogare le persone quando meno se lo aspettano.

Gli spettacoli televisivi riescono a trasformare tutto in storie, proprio tutto, persino le cose più noiose, come la politica o le crisi economiche. Le persone passano varie ore al giorno di fronte alla Tv (dalle quattro ore e 46 minuti dei calabresi fino alle tre ore e 18 minuti degli altoatesini, dati medi del 2007). Per lo più seguono storie, spesso condite di soldi o sesso, possibilmente in forme trasgressive. E tuttavia gli stessi argomenti, presentati sotto forma di educazione finanziaria o sessuale, cioè in chiave pedagogica, diventano subito noiosi. Le storie piacciono, il resto no.

Questi dati pongono un paradosso curioso. Se prendessimo sul serio la vulgata darwinista, basata sui vantaggi per chi si adatta meglio all’ambiente, dovremmo domandarci a che cosa serve tutto questo tempo e risorse mentali dedicati a prendere per buone storie inventate. Solo conoscenze vere ci mettono in grado di muoverci meglio nel mondo. Questo vale per l’adattamento agli ambienti naturali, se andiamo in montagna o trivelliamo pozzi di petrolio, ma anche a quelli sociali. Tant’è vero che in tutti i conflitti si ottiene un bel vantaggio quando si riesce a far credere all’avversario qualcosa che è falso. E tuttavia le storie "credibili" e appassionanti sono proprio quelle false, o meglio inventate con una miscela di realismo e fantasia. In breve, il di-vertimento è di-versione dalla realtà.

E allora, come la mettiamo con Darwin e il vantaggio evolutivo? La risposta ortodossa, e più nota, è quella dell’etologo inglese Richard Dawkins. Per Dawkins la sopravvivenza in gioco non è quella della specie, ma quella dell’individuo, o meglio del suo patrimonio genetico. A questo scopo è vantaggioso credere, nel senso di avere fiducia nei confronti di chi sa più di noi.

Quando un genitore ci dice di non andare a giocare sul fiume se il sole è alto nel cielo, noi gli crediamo. La fiducia acritica evita di correre il rischio di essere mangiati o mutilati dai coccodrilli in cerca di animali assetati. In questi casi, il dubbio nei confronti di chi sa di più non conduce a un personale apprendimento per prove ed errori, ma a perdere definitivamente un braccio o una gamba. Se poi quello stesso genitore mi insegna il rito della pioggia, tendo a credergli con quella stessa fiducia che mi ha salvato dai coccodrilli. E così la cultura finisce per trasmettere una miscela di vero, e adattivo, come nel caso dei coccodrilli, e di falso, e inutile, come i riti della pioggia e altre superstizioni. Talvolta ci trasmette anche qualcosa di falso e fuorviante, se non dannoso. Sui tempi lunghi, quest’ultimo tipo di credenze s’indebolisce. Basta esaminare, in epoca moderna, gli sviluppi di tutte le vicende in cui le varie chiese, religiose e pagane, hanno contrastato la scienza.

Insomma l’ortodossia vuole che il progresso delle scienze riduca lo spazio del falso, che sopravvive a stento presso ingenui o fanatici.

Una risposta diversa è fondata sul valore adattivo delle storie. Che cosa sono le storie, in fin dei conti? Sono dei mondi simulati, scenari inventati ad arte per "funzionare", cioè appassionare gli spettatori. Immedesimarsi in questa sorta di simulazioni fantastiche allena a quello che potrebbe succedere nella vita vera e allevia le sofferenze quotidiane. La nostra come una tra le tante vite possibili. Che cosa farei se fossi nei panni del protagonista di quella soap opera o di quel reality? Come risolverei i problemi del mio beniamino, personaggio dello spettacolo o dello sport? Questa è una spiegazione del fascino delle storie, in chiave preventiva e pedagogica, quindi adattiva.

Personalmente propenderei per un terzo tipo di risposta, che è una variante della seconda. E’ quella che ha dato su questo giornale (30.07.10) lo scrittore Nathan Englander, parlando della prima volta che lesse il Lamento di Portnoy di Philip Roth. Englander, non più religioso ma cultore della religione dei libri, dichiara che, leggendo da adolescente il romanzo, aveva avuto l’impressione che quella storia fosse stata scritta unicamente per lui. Ecco, noi crediamo alle storie in quanto universali, nel senso che sfruttano l’immutabile struttura umana delle emozioni, ma ci crediamo di più quando abbiamo l’impressione che parlino proprio a noi, non più spettatori, ma attori di quella storia


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