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Paleolitico. Prima dell’Homo Sapiens ...

ISOLA DI FLORES (INDONESIA). L’Homo floresiensis, soprannominato Hobbit. Una nuova specie, svelato il "mistero" - a c. di Federico La Sala

domenica 23 settembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] L’Homo floresiensis, così lo hanno chiamato i ricercatori dal nome dell’isola, risale all’ultimo Pleistocene. Niente anomalie fisiche o difetti di crescita, quindi, ma una specie a sè. Si chiude così - almeno per il momento - il dibattito: l’Homo floresiensis discenderebbe, quindi, da un ominide diffusosi prima dell’Homo Sapiens, di quello di Neanderthal e dei loro più comuni progenitori [...]

Science: diverso sia dall’uomo di Neanderthal che (...)

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> PALEO-ANTROPOLOGIA. -- La scoperta. Homo Naledi. Gli «anelli mancanti» non mancano affatto (di Edoardo Boncinelli)

domenica 8 novembre 2015

Homo Naledi

Gli «anelli mancanti» non mancano affatto

La scoperta. Circa 1.500 reperti di una specie umana ignota ritrovata di recente in Sudafrica, aprono nuovi scenari di ricerca

di Edoardo Boncinelli (La Lettura - Corriere della Sera, 8.11.2015)

Divenire uomini. Come questo sia potuto accadere rappresenta un interrogativo fondamentale, riferito a un processo temporale che più di tutti ci interessa comprendere, accanto a quelli di come sia nato il mondo e di come si sia originata la vita, questa sorta di improbabile «folle volo» di dantesca memoria, che alcuni aggregati di molecole hanno affrontato e continuano ogni giorno ad affrontare.

Da quando Darwin nel 1859 ci ha istillato il concetto di evoluzione, anzi di «trasmutazione delle specie» come diceva lui, e ha indicato come un lungo e lento processo temporale può aver condotto all’esistenza delle innumerevoli specie esistenti, «tutte straordinariamente belle e degne della più grande ammirazione», abbiamo riflettuto sull’origine di questa o quella specie, ma anche di questa o quella caratteristica biologica.

Dodici anni dopo Darwin si è anche interrogato sulla discendenza dell’uomo, incontrando grandissima opposizione e sovrano scetticismo da parte dei credenti e dei finti laici, che puntano il dito verso la mancanza di un «anello mancante» che possa ragionevolmente spiegare il passaggio da un essere più simile alle scimmie antropomorfe a uno più simile a noi.

Per parte loro, gli scienziati si sono interrogati sugli eventi biologici che possono aver portato ai primi uomini partendo dai loro antenati scimmioidi. Si può pensare a una coppia di scimmioidi che si trovano al cospetto di un figlio molto diverso da quelli delle altre coppie, o di un figlio solo un poco diverso dalla norma, e che questo, incrociandosi a sua volta con uno normale o con uno uguale a lui, abbia dato vita a un individuo molto diverso, pieno di problemi, ma anche di nuovi talenti. In un caso come nell’altro, si devono essere verificate una o più mutazioni nella linea germinale che ha portato ai gameti del babbo o della mamma, o magari di entrambi, e che danno luogo a un figlio assai diverso dai coetanei. Oppure infine, da due individui scimmioidi è nato un figlio che non mostrava niente di particolare, ma crescendo si è rivelato piuttosto diverso.

Insomma, è nato prima il gamete «umano» che ha dato luogo a un uomo o un uomo che ha dato vita a un gamete umano? Un ragionamento del genere contiene, però, almeno due vizi logici, cioè due assunzioni di partenza parimenti indebite. La prima riguarda il fatto che si debba trattare di un processo lineare e sequenziale. Questo non è accaduto per nessun essere vivente, e sappiamo oggi con certezza che non è stato così neppure per l’uomo. Ci si trova davanti a una serie di tentativi di cambiamento evolutivo più o meno indipendenti - un cespuglio piuttosto che un albero - che possano avere esiti molto diversi e poi, diciamo così, vinca il migliore, o meglio il più adatto, o il meno disadatto, dal momento che la vita non è un processo troppo naturale, sostenuto, ma anche pesantemente zavorrato dalle leggi della fisica e della chimica. Nel caso della specie umana sappiamo che ci sono stati almeno quattro diversi tentativi, alcuni abortiti molto presto, altri più tardi, fino alla sopravvivenza di una sola linea evolutiva, quella che porta all’uomo d’oggi. I membri di ciascuna di queste linee evolutive avevano pregi e difetti che stiamo cominciando a comprendere.

La seconda assunzione erronea si riferisce al fatto che un uomo, come qualsiasi altro animale, nasca da un uomo o, meglio da due, il padre e la madre. La verità è che un uomo deriva da un bambino, che deriva a sua volta da un embrione. Questo sì deriva da un uomo o, meglio da due, il padre e la madre.

L’evoluzione non è una successione di adulti, ma una discendenza di processi di sviluppo, embrionale e postembrionale. Ciò viene spesso trascurato, un po’ perché l’uomo non ama il tempo «che tutto consuma con i suoi denti aguzzi», come dice il greco Simonide, e un po’ per scarsa capacità di riflessione, anche se le evidenze sperimentali sull’importanza primaria dei processi di sviluppo non sono state mai tanto chiare come oggi, che è l’era del cosiddetto «evo-devo», che sta per evolutionary developmental biology (biologia evolutiva dello sviluppo) . Sono i processi di sviluppo che evolvono, e non il loro risultato, che pure è soggetto all’azione della selezione naturale.

In ogni caso si tratta di individuare un passaggio biologico, accompagnato da uno culturale. Quest’ultimo appare un compito più abbordabile. Sappiamo infatti che un nostro antenato ha cominciato a usare ciottoli scheggiati già tre milioni e 300 mila anni fa. Accanto a questi rudimentali strumenti non sono stati trovati però resti fossili, per cui non sappiamo con certezza di che specie si poteva trattare. Più di recente, sono stati trovati molti resti fossili di una nuova specie, Homo naledi , che ha attratto immediatamente l’attenzione degli studiosi.

Ora la rivista «Nature Communications» pubblica un paio di articoli che hanno a che fare, direttamente o indirettamente, con alcune sue caratteristiche biologiche. Nel primo si analizzano le ossa della sua mano. Questa presenta un pollice abbastanza lungo e robusto. Tale caratteristica della mano, unita alla morfologia del polso, molto simile a quella dei Neanderthal e degli uomini d’oggi, suggerisce che fosse adatta a una efficiente manipolazione, di strumenti o di altro. Le ossa delle altre dita, tuttavia, sono lunghe e ricurve, adatte cioè ad afferrare rami di albero per sospendersi e muoversi in un ambiente arboricolo. Si doveva trattare quindi di un nostro antenato, se diretto non sappiamo, adatto sia alla vita arboricola che alla manipolazione e al maneggiamento di strumenti. Per quanto riguarda il piede, il secondo articolo rivela caratteristiche di un camminatore, ma che doveva avere un’andatura abbastanza diversa dalla nostra e da quella di altri primati superiori, un’andatura comunque sufficientemente adatta a non sprecare troppa energia durante la locomozione.

Altro che anello mancante, insomma! Ci troviamo oggi al cospetto di un vero manipolo di «anelli mancanti» diversi, uno per ogni linea evolutiva, e Homo naledi è il più serio candidato che conosciamo ad essere uno di questi. Con buona pace degli scettici e dei pigri. Intellettualmente, voglio dire. Pur dichiarandosi orgogliosamente umani.


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