Una scuola a pezzi. Quei ragazzi che non hanno futuro
Un mondo in cui ciascuno ha rinunciato a offrire e a prendere alcunché. Studenti somari e razzisti. Professori presi da incombenze burocratiche
di Michele Serra (la Repubblica 25.09.2008)
Se il discorso sulla scuola ha assunto, in Italia, toni aspri e quasi vocianti, è perché parlando di scuola si parla dei giovani e dunque si evoca il futuro, che è il più disturbante dei concetti in tempi di declino sociale come questo. E poi perché la parola scuola chiama in causa un "pacchetto di crisi" fin troppo denso: la crisi dell’autorità, quella della cultura come cardine della persona, quella degli adulti incerti depositari di ancora più incerte "regole".
In Francia ha avuto grande successo il romanzo di un giovane insegnante, François Bégaudeau, che ha ispirato il film vincitore della Palma d’oro a Cannes. Il titolo originale del libro era Entre les murs, dentro i muri, perfettamente indicativo dell’atmosfera claustrofobica che lo pervade. Il titolo italiano, meno severo, è La classe (Einaudi Stile libero, pagg. 228, euro 16), e sembra quasi voler riportare questo desolato best-seller in una letteratura "di genere", sulla scia fortunata del primo Starnone e dell’ultimo Pennac. Con eventuale ammicco a un sottogenere pop, quello del computo allegro degli svarioni studenteschi, tipo Io speriamo che me la cavo o il vecchio classico per ragazzi francese La fiera delle castronerie. Ma attenzione: i circa vent’anni che separano la generazione di Starnone e Pennac (diciamo, per comodità, quella "sessantottina") da quella di Bégaudau sono un vero e proprio baratro.
La scuola raccontata da Starnone e Pennac è ancora un lascito, seppure residuo, dell’umanesimo. L’ironia amara, lo sguardo smagato su ragazzi e adulti lascia ancora intatta l’illusione di un passaggio di consegne, di un apprendistato, più ancora che alla cultura, alla civiltà e forse alla vita. Leggendo Bégaudeau, la sua stagnante, ossessionata trascrizione di un dialogo impossibile, ci si ritrova piuttosto immersi in una post-scuola, una scuola svuotata di sé nella quale ciascuno ha rinunciato a offrire o prendere alcunché, e insegnanti frustrati oppure inaciditi, e alunni maneschi e rincoglioniti dal consumismo, trascorrono un intero anno rimanendo fermi al punto di partenza, senza procedere di un passo verso quel percorso scolastico che, burocrazia a parte, è pur sempre la ragione di un anno di lavoro e di vita. Un anno: per un adolescente un’enormità, un tempo immenso di crescita e di occasioni, che nella scuola di Bégaudeau diventa però un tempo puntiforme, una spirale viziosa che lascia ciascuna delle due parti, ragazzi e professori, nella propria inerte impotenza.
La staticità del libro è prima di tutto stilistica. La povertà verbale è il frutto evidente di un accurato lavoro letterario, imitativo della supposta povertà della realtà scolastica e soprattutto del linguaggio dei liceali. Il battito delle frasi è quello di un rap, concetti mozzi e ripetuti, sguardi veloci sui marchi delle felpe come principale identità degli studenti, niente che sembri portare a qualcosa o allontanarsi da qualcos’altro. Il tutto contrappuntato dalle conversazioni vaghe e strascicate della sala professori, perse tra qualche incombenza burocratica e rivendicazioni "sindacali" striminzite sull’efficienza della macchinetta del caffè. Oppure ? in un rigurgito di "autorità" che è anche il massimo exploit dell’impotenza ? dalle delibere di espulsione che, a raffica, colpiscono gli studenti più insopportabili. Il genere della Classe, dunque, non è tanto il "romanzo scolastico", quanto il no-future. La mancanza di movimento. La perdita di direzione. La sensazione di ultima spiaggia.
Appesantita, per giunta, dall’onnipresenza (anche lei ossessiva) di una multiculturalità descritta come un ingovernabile equivoco, un ginepraio di pregiudizi e diffidenze che l’io narrante, il giovane prof Bégaudeau, affronta con una stizza inconsolabile (forse la stizza dei "politicamente corretti" sconfitti dall’evidenza), masticando come un fiele il nodo di una diversità babelica, inconciliabile, sorda ai richiami della tolleranza e della comprensione. Tanto che la pagina più potente e liberatoria del romanzo è un secco sfogo nel quale il professore dà del pezzo di merda, in massa, all’intero corpo studentesco, affogando dentro la sua rabbia anche le deboli tracce di umanità che è riuscito a scorgere nei singoli studenti, infine rinnegati anche dal docente, perfino dal docente, che li caccia volentieri nel girone infernale della Massa Amorfa, più interessata alle felpe e ai telefonini che alla propria decenza mentale.
Insomma: un libro terribilmente doloroso, di accurato pessimismo, con la patina di "divertente", evocata in copertina nell’edizione italiana, che si lacera dopo poche pagine. Resta da riflettere sul grande successo, in Francia, di un romanzo così implacabile, che non lascia spiragli, non concede alibi né agli adulti né ai ragazzi, i primi visti come neghittosi sorveglianti del nulla, i secondi come insorvegliabili somari, razzisti, ottusi, consumisti bulimici, potenziali violenti che stazionano "dentro i muri" come cavie in una gabbia, e senza neanche la discutibile soddisfazione di essere cavie di un esperimento. Perché un esperimento non c’è.
Se questa è davvero la scuola, in Francia e qui da noi, ovunque nell’Occidente spento di energie e debole di identità, viene da dire che hanno ragione i restauratori politici che, a furor di popolo, vogliono tornare ai vecchi metodi: al posto del ministro Gelmini, sorvolerei sulla natura letteraria del lavoro di Bégaudeau e inserirei il suo romanzo in ogni dossier ministeriale che voglia liquidare tutte le esperienze pedagogiche dell’ultimo mezzo secolo e riportare Legge e Ordine tra i banchi.
A me, piuttosto, è venuta voglia, come antidoto, di rileggere Starnone e Pennac, oppure gli interventi di Marco Lodoli su questo giornale, nei quali la percezione del disastro sociale e scolastico non è certo attenuata, ma lo sguardo di chi lo osserva è ? non so come dirlo altrimenti ? umanamente partecipe. Dev’essere una questione di generazione, Régaudeau e il suo rap disperato sono probabilmente più sintonici con i tempi, e magari i ragazzi di oggi possono davvero leggere "divertendosi" un libro che li raffigura come ectoplasmi nevrastenici, come nullità ringhiose, e però lo fa con il ritmo giusto, riconoscibile, se posso dire: alla moda.
Ma se non si riesce più a trovare, o almeno a cercare il bandolo di un significato, di un destino, di un rapporto di emulazione e sfida tra adulti e ragazzi, allora hanno ragione i vecchi reazionari quando dicono "ci vorrebbe una bella guerra ogni tanto", a raddrizzare la gioventù, a selezionarla meglio di un sette in condotta o di una bocciatura. Ecco, "La classe" è un libro post-scolastico e pre-bellico: arrivato in fondo al viaggio, anzi al non-viaggio, un lettore disposto al paradosso pensa che l’anno prossimo quelle truppe di giovani felpate e smidollate, per ritrovare nerbo e disciplina, e magari dotarsi di un concetto di Patria che rimedi alle vaghezze del multiculturalismo, non dovrebbero più rientrare a scuola, ma in caserma. Dev’essere per questo che giovani ministri (poco più anziani di Bégaudeau) tendono a confondere scuola e caserma.