Il dialogo tra religioni e culture perde Raimon Panikkar
di Paulo Barone (il manifesto, 28 agosto 2010)
Raimon Panikkar si è spento all’età di novantadue anni nella sua casa di Tavertet, in Catalogna, non lontano da Gerona e dal mare (e non lontano neppure da Port Bou, al confine con la Francia, dove, braccato dai nazisti, si tolse la vita Walter Benjamin), dopo una vita complessa, densa e in continuo movimento.
Figlio di madre spagnola e cattolica e di padre indiano e hindu, si può ben dire che
Panikkar sia stato un ’uomo di mondo’, come certi suoi dati biografici dimostrano in modo
innegabile. Negli anni della formazione - tra la guerra civile spagnola e la seconda guerra mondiale
studiò chimica, teologia e filosofia, nelle università di Spagna, Germania e Italia. Ordinato
giovanissimo sacerdote, fu trasferito nella diocesi di Varanasi (Benares), dove iniziò lo studio e la
traduzione dei Veda e delle Upanishad, nonché una fitta e lunga esplorazione della variegata realtà
dell’India.
L’apprezzamento oltreoceano di alcuni suoi articoli gli valse l’invito all’Università di Harvard - dove rimase cinque anni - e successivamente all’Università della California, dove insegnò per diciotto anni, in una spola costante, però, con l’Europa e l’Oriente. Alla fine non si contano le lingue praticate, i libri e gli articoli pubblicati - presso la Jaka Book , sotto la direzione di Milena Carrara, è in corso di pubblicazione l’opera omnia, allestita dallo stesso Panikkar e in uscita anche in catalano, spagnolo, francese e inglese -, le personalità conosciute - da Heidegger a Eliade, dal Dalai Lama a AnandamayMa, le influenze culturali ricevute e assimilate. La versatilità, l’erudizione, la curiosità e la mobilità, che senz’altro lo hanno caratterizzato, non sono tuttavia sufficienti a definirne il tratto più saliente. La formula, volentieri citata, «sono partito cristiano, mi sono scoperto hindu e sono tornato buddhista, senza cessare di essere cristiano», con cui Panikkar sintetizzava scherzosamente parte del suo itinerario, non va scambiata affatto con un inno al sincretismo religioso, alla raccolta antologica dei fiori più profumati e inoffensivi delle altre culture.
Al contrario, Panikkar percepì con nettezza, e ben prima di molti, la crisi irreversibile e il fallimento radicale, nei confronti della scena contemporanea, di tutte le visioni culturali e religiose tradizionali, a est come a ovest unilaterali e autosufficienti. E invece di auspicarne il semplice collage con dei ritagli in stile New Age, si spese instancabilmente a favore di una loro conversione interna. A favore di un dialogo, certo, che prima tuttavia di essere inter-religioso o inter-culturale, doveva essere intra-religioso, intra-culturale.
Se anche solo si sfogliano certi suoi testi come La pienezza dell’uomo, La realtà cosmoteandrica, o Pace e interculturalità, ci si accorgerà di come il ’dialogo’ panikkariano, per nulla convenzionale o ingenuamente confidante nella sua riuscita - sia stato sensibile agli interrogativi della filosofia novecentesca, alle questioni dei non credenti, degli anti-teisti (come lui definiva gli atei), ai problemi sollevati dal mondo secolare.
E in questo senso il suo dialogo ha certamente qualcosa di un esperimento senza rete: nessun problema a dichiarare insostenibile l’idea monoteistica del dio assoluto e onnisciente, nessuno nel dichiarare inammissibile l’idea di un modo unico di pensare, nessunissimo nel dichiarare fatiscenti certi miti sostitutivi come Storia, Progresso, Democrazia liberale, Mercato. Il suo dialogo lo rendeva felice perché non sapeva, letteralmente, dove lo avrebbe condotto, perché pensava che in realtà nessuno lo aveva mai saputo.