di Filippo Di Giacomo (l’Unità, 25 novembre 2011)
In uno dei suoi sermoni Lutero, con un inciso assai efficace, osservava: «Per giungere sulla retta via, l’uomo di tanto in tanto deve anche spaventarsi di se stesso». Secondo la tesi ideologica introdotta nella cultura occidentale dalla rivoluzione francese, il cristianesimo (che crede nella fine del mondo, nel giudizio, nel premio o nella punizione) è per sua natura pessimista mentre la modernità (che crede nel progresso come legge della storia) sarebbe per sua natura ottimista.
Oggi, invece, abbiamo tutti i mezzi per osservare in diretta l’inesorabile sgretolarsi della presunzione che la modernità continua a diffondere di se stessa. Le “crisi” che si sono succedute nei sistemi socio-politici dell’Occidente, da quella “energetica” di inizio anni Settanta all’ultima finanziaria ancora in corso, ci hanno tolto ogni possibile alibi, obbligandoci a prendere atto di quanto il progresso sia anche un progresso dalle possibilità distruttive. Perché, come persone e come società, dal punto di vista morale, non sempre siamo all’altezza della nostra ragione. Tanto per fare un esempio, se volessimo ridurre il problema economico-finanziario in corso anche in Italia al suo nucleo essenziale, dovremmo per forza riportarci a quella idiosincrasia tra moralità e razionalità che spinge il nostro modello di sviluppo ad abusare delle risorse della terra e delle società politiche senza porci mai, e comunque non in modo oggettivo, il problema dei limiti, cioè di una condivisione equa e sostenibile di quanto pianeta e nazioni offrono.
L’idea che le cose umane, mercato compreso, lasciate a se stesse, diventino necessariamente migliori non trova alcun sostegno nel cristianesimo. Il cristiano infatti, come ogni altra persona dotata di ragione, sa che la storia è disseminata di gravi crisi. E che una di esse, è oggi davanti all’umanità intera. Tuttavia, secondo l’ottimismo cristiano, anche orrori spaventosamente inumani come Auschwitz, i quali devono assolutamente sconvolgerci (cosa che invece nonostante gli anni trascorsi non ancora avviene), possono essere ricollocati e ricompresi a partire dal fatto che, comunque e sempre, Dio è più forte del male. Se la Shoah fosse stata solo minimamente compresa dai nostri politici, i bambini nati e cresciuti in Italia, già da tempo sarebbero stati accolti e riconosciuti e considerati ricchezza per tutta la nazione. Eppure l’inverno demografico nel quale siamo precipitati, destinato a prolungare le sue fredde ombre nei prossimi decenni, non ci ha ancora ispirato alcuna paura di noi stessi. E così preferiamo illuderci che, coltivando presunte paure per “l’altro”, possiamo legittimamente privare una parte importante del nostro esiguo ricambio generazionale dei propri diritti civili, mantenendola sotto il giogo di una possibile espulsione dal nostro territorio nazionale, obbligandola a costruirsi ghetti di una imposta marginalizzazione e di una costante precarietà.
Proprio parlando dell’accoglienza di chi viene considerato “altro” dalla mentalità corrente, a Cotonou, Benedetto XVI ha suggerito, paragonando una società ad una mano: «La compongono cinque dita, diverse tra loro. Ognuna di esse però è essenziale e la loro unità forma la mano. La buona intesa tra le culture, la considerazione non accondiscendente delle une per le altre e il rispetto dei diritti di ciascuno sono un dovere vitale (...). L’odio è una sconfitta, l’indifferenza un vicolo cieco (...). Tendere la mano significa sperare per arrivare, in un secondo tempo, ad amare. Cosa c’è di più bello di una mano tesa?».
Tra qualche mese, l’anno prossimo ricorrerà il cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio ecumenico vaticano II, la prima (forse, inconsapevole) assise del mondo globalizzato, la cattedra che ci ha consegnato le lezioni di quei due giganteschi maestri di umanità che sono stati Giovanni XXIII e Paolo VI. Nel 1959, proprio indicendo il Concilio, il beato Giovanni XXIII aveva spiegato come la Chiesa non fosse un museo da custodire ma un giardino da coltivare. Anzi, la sua metafora era «nella piazza che è il mondo, la Chiesa deve essere come la fontana che sta al centro». E ancora non si parlava di villaggio globale...
A ben ricordare, tra i Papi che hanno accompagnato i cinque decenni trascorsi dal Concilio, nessunoha mai insegnato il pessimismo. Ne consegue che, se proprio si vuole misurare “il tasso di cattolicità apparente” inserito dall’attuale governo nella sua compagine, devono arrivare in Parlamento (accantonando le pretese di chi, già in questi primi giorni, tenta di ottenere migliorie esistenziali per i suoi protetti nello Stato e nel parastato) anche le leggi sulla cittadinanza, l’asilo, i centri di permanenza temporanei, le carceri... Insomma, anche in politica, per una volta, giustizia sì, elemosina no.