La coerenza di uno storico cattolico
La morte di Pietro Scoppola. Dal contraddittorio rapporto della Chiesa con il fascismo al valore fondante della Resistenza, una lettura inquieta della società italiana
* di Gianpasquale Santomassimo (il manifesto, 27.10.2007).
Nell’Italia nuova uscita dal fascismo tutti i movimenti politici e culturali andavano alla ricerca delle proprie radici, e scoprivano i lineamenti di un paese diverso, dissimile e dissonante rispetto a quello incarnato dal circolo ristretto delle élites liberali. In maniera discosta e silenziosa rispetto al clamore e al contorno di polemiche che spesso accompagnavano le acquisizioni della storiografia sul movimento operaio, anche il movimento cattolico ricostruiva la sua storia, trovandosi di fronte a nodi corposi e dalle implicazioni controverse, che difficilmente potevano venire risolti con l’empito apologetico e provvidenzialistico delle storie ufficiali.
Non è un caso che la crisi modernista abbia rappresentato il primo e fondamentale banco di prova per una nuova generazione di cattolici democratici, tra i quali Pietro Scoppola è stato - accanto a don Lorenzo Bedeschi - l’interprete più autorevole di una nuova sensibilità problematica. In quella vicenda, che fu di arresto e di arretramento per la cultura ufficiale dei cattolici, ma anche di maturazione tormentata di coscienze e di pratiche autonome, era come riassunto il prezzo e la portata di un lungo contenzioso con la modernità che solo cinquant’anni dopo avrebbe trovato la sua soluzione, che oggi appare assai più precaria e insidiata da nuove ombre di quanto non apparisse al tempo dei primi studi di Scoppola. Si trattava, come lo stesso Scoppola scriveva riproponendo nel 1975 la nuova edizione di Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, per gli storici del movimento cattolico di muovere dal «massiccio recupero della tradizione cattolico intransigente» all’«opposto recupero della tradizione cattolico liberale», che proprio nel dramma della condanna del modernismo aveva preso coscienza e aveva mosso un cammino destinato ad essere lungo e impervio.
Era, in sostanza, il nodo di quel rapporto tra cattolici e democrazia che sarebbe stato il fulcro di tutta l’opera di Scoppola: non solo come storico, ma anche come politico e ispiratore della politica.
Per chi studiava dall’interno quella storia era necessario tener conto della pluralità di tensioni, sensibilità, corpose tradizioni che a volte si inabissavano per poi riemergere a distanza: un mondo impossibile da riassumere nelle definizioni inevitabilmente semplificate che il linguaggio corrente imponeva e impone: la Chiesa, il mondo cattolico... Un mondo che dall’esterno appariva unito, ma in realtà era diviso al suo interno da opzioni non solo diverse ma talora contrapposte. La vicenda del rapporto tra Chiesa e fascismo, che fu il secondo grande tema di studio di Scoppola, esemplificava bene questo viluppo, tra il vistoso clericofascismo di molti, il sincero antifascismo democratico di pochi, il diffuso afascismo concorrenziale più che oppositivo al regime che fu la cifra maggioritaria dell’atteggiamento cattolico durante il ventennio.
L’interprete fondamentale di questo percorso fu da Scoppola identificato in Alcide De Gasperi, a cui dedicò gran parte dell’opera della sua piena maturità. Dire che si trattò di una rivalutazione del personaggio sarebbe improprio, in quanto non era mai mancata stima e ossequio dell’Italia ufficiale nei confronti della sua figura; ma si trattò di una valutazione profondamente diversa, che in qualche modo rovesciava i canoni tradizionali dell’interpretazione corrente.
Nelle pagine di Scoppola, De Gasperi non era più solo l’uomo della rottura dell’unità antifascista, ma anche il politico che aveva guidato l’esperienza unitaria di un biennio fondamentale per la democrazia italiana; e, soprattutto, uomo che aveva combattuto una battaglia silenziosa e sofferta contro le spinte autorevolissime che dal Vaticano e dagli Stati Uniti venivano verso una sostanziale fascistizzazione della politica italiana e dello stesso partito cattolico. Avere mantenuto al contrario aperti i termini di una dialettica costituzionale tra partiti ferocemente contrapposti era uno dei meriti maggiori ascrivibili al personaggio.
Le tesi di Scoppola cadevano in un periodo, quello della seconda metà degli anni Settanta, in cui pareva a molti che quella lacerazione fosse prossima a ricomporsi, ma avevano soprattutto un impianto realistico, di consapevolezza dello spessore reazionario della società italiana uscita dal fascismo, che metteva in crisi luoghi comuni e semplificazioni sulla «rivoluzione mancata», all’epoca quasi assiomatiche. In Scoppola c’era la consapevolezza di come la forma particolare dell’unità dei cattolici fosse un dato storico, non immutabile né eterno, e considerava già a breve distanza la tragedia di Aldo Moro come grande occasione mancata dalla democrazia italiana: per la sconfitta in sé di una prospettiva legata alla strategia dell’uomo e per la «dissipazione» di una «riserva di valori, di solidarietà, un senso di condivisione e responsabilità comuni». «Poteva essere l’occasione - diceva in una delle sue ultime interviste - per una maturazione morale, per la crescita di uno spirito democratico, di un ethos civile condiviso, e invece è andata perduta».
Proprio in direzione di un rilancio degli unici valori condivisi che storicamente la nostra democrazia avesse espresso era significativo il suo impegno in difesa della Costituzione e della Resistenza intesa non tanto come guerra guerreggiata, ma come impegno civile, moto di solidarietà, esperienza condivisa di sofferenza collettiva: Liberazione in senso più alto e complesso rispetto all’evento in sé. E’ questo il senso di un lucido libretto del 1995 che appunto 25 aprile Liberazione si intitola.
Più controverso appare agli occhi di chi scrive il suo impegno nelle campagne referendarie e per l’introduzione del maggioritario, non visto come panacea miracolistica come in tanti politologi, ma come forma di un nuovo rapporto tra politica e cittadini e come soluzione del problema storico dell’unità dei cattolici dissolvendo la forma partito in direzione di un impegno che liberamente muovesse in più direzioni. Obiettivo che era probabilmente raggiungibile anche senza sovvertire la civiltà del proporzionale che è stata storicamente la forma della nostra democrazia.
Rispetto ai problemi della Chiesa di oggi e del mondo cattolico vanno ricordate due preoccupazioni fondamentali dei suoi ultimi anni: in primo luogo la riconferma della laicità dell’agire politico e culturale, nella consapevolezza che esistono principi non negoziabili, come si torna a dire negli ultimi tempi, ma che essi operano nelle coscienze e nella storia, e dalla storia vengono incessabilmente rimodellati. Infine, la denuncia amara della «Chiesa silente», che parla con una voce sola sia pure autorevolissima e popolare. Era un commento in morte di Papa Wojtyla, la cui voce aveva come sovrastato quella della chiesa. Bisognava invece che la chiesa, intesa come comunità di fedeli, ricominciasse a parlare: «che parlino i laici, che parlino i preti, che parlino i vescovi, che ci sia dibattito. Anche che ci siano manifestazioni dialettiche all’interno della Chiesa: l’importante è che in qualche modo ci sia vita».