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In principio era il Logos. Memoria della Libertà e Storia della Liberazione ...

PIETRO SCOPPOLA (1926-2007), "UN PADRE DELLA COSTITUZIONE". Dal suo lavoro di storico e di intellettuale, una viva lezione di metodo - a cura di Federico La Sala

sabato 27 ottobre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] "Nessun evento storico rilevante è un fatto in sé - spiegava sempre ai suoi studenti - neanche gli eventi singoli come la scoperta dell’America o, più recentemente, la caduta del Muro di Berlino: la loro rilevanza è frutto di una interpretazione successiva. Qual è il vero significato di un’affermazione del genere? Forse che la conoscenza storica dovrebbe essere condannata all’arbitrarietà e all’infondatezza? Uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, Hans Georg Gadamer, ha, non solo (...)

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> PIETRO SCOPPOLA (1926-2007), "UN PADRE DELLA COSTITUZIONE". ---(L’Italia e) La Chiesa in crisi. Fedeli smarriti in cerca d’autorità intervista a Marco Marzano (di Martino Doni)

domenica 8 luglio 2012

La Chiesa in crisi. Fedeli smarriti in cerca d’autorità

intervista a Marco Marzano,

a cura di Martino Doni (il manifesto, 7 luglio 2012)

Una conversazione con il sociologo Marco Marzano, autore di una indagine pubblicata da Feltrinelli, «Quel che resta dei cattolici». Racconto dall’interno di una struttura divisa tra gerarchie e base, dove la tendenza a far conto sulla tradizionale verticalità si avverte anche presso le comunità più attive

Immaginiamo la scena: è domenica, intorno alle 9 del mattino, un genitore ancora un po’ intontito ma spinto dal senso del dovere entra nella cameretta del figlio di dieci anni, lo scuote per svegliarlo, distogliendolo da un sacrosanto quanto profondo sonno ristoratore. Il figlio mugugna, recalcitra, si toglie l’apparecchio, si stropiccia gli occhi, guarda il padre e gli chiede già un po’ esasperato: «Devo andare a karate o a catechismo?». La domanda gela il sangue al padre. Non tanto perché il figlio non avesse ancora capito che la domenica mattina si va a catechismo, e non a karate, ma perché fosse anche soltanto possibile un’alternativa di questo tipo, che la dice lunga su quale abisso di noia e appiattimento culturale si affacci l’esperienza religiosa cattolica nel nostro tempo.

Il fatto che la scena sia reale e accaduta effettivamente a chi scrive, può dare un’idea di quanto sia utile un libro come l’ultimo di Marco Marzano, Quel che resta dei cattolici. Inchiesta sulla crisi della chiesa in Italia, Feltrinelli (Serie Bianca), pp. 250, €16. Non perché di per sé la scena sia importante o meriti chi sa quale riflessione. Ma perché di scene così ce ne sono a migliaia, e non trovano mai un pubblico che possa assorbirle o criticarle.

Marzano, che insegna sociologia all’Università di Bergamo, non è nuovo a inchieste di questo tipo, che anzi stanno caratterizzando il suo ambito di ricerca in modo peculiare. Di nuovo c’è, tuttavia, che in questo suo ultimo lavoro molti italiani, credenti o meno, potranno riconoscersi, perché la bellezza e la forza di questo libro stanno appunto nel dar voce a numerosi protagonisti di una dimensione sommersa della vita sociale contemporanea, quella del cattolicesimo vissuto, dal basso, senza reti di salvataggio, con tutte le contraddizioni e le storture, i malintesi e le illusioni, le sofferenze e le resistenze. Non si tratta dunque di una ricerca teorica che parte dai massimi sistemi della teologia o della teoria sociale, quanto di un’inchiesta, perfettamente leggibile e nello stesso momento abbastanza tremenda, per quel che c’è di tremendum e di fascinans nella voce diretta di chi si dibatte nell’assurda bonaccia del mondo di oggi.

Abbiamo incontrato Marzano, in un pomeriggio caldissimo; mentre parcheggiava la macchina, una piccola folla di bambini e ragazzini irreggimentati nelle magliette del Centro Ricreativo Estivo della curia locale gli bloccava l’accesso al parcheggio. La Buona Notizia in versione «baby-dance»: non poteva esserci introduzione migliore.

Partiamo dal metodo: in Quel che resta dei cattolici troviamo un racconto accurato, dall’interno, di molte esperienze di fede o di crisi. In base a quale criterio sono stati scelti i vari interlocutori?

Avevo già lavorato su questo terreno nella mia inchiesta sul carismatismo e la religiosità popolare, pubblicata qualche anno fa (Cattolicesimo magico, Bompiani 2009), quindi diciamo che avevo già una piccola rete di contatti, che ho poi molto ampliato, andando su e giù per l’Italia, incontrando e intervistando centinaia di persone, osservando tante cose direttamente, con i miei occhi. Ho fatto ricerca insomma nel modo in cui mi piace: stando con le persone, in mezzo a loro, non partendo da chissà quale teoria o preconcetto, ma piuttosto facendo risuonare la verità di quello che hanno da dire e che purtroppo non dicono quasi mai, perché non osano o perché non sanno che possono farlo. Questo mi appassiona tantissimo: la possibilità di raccogliere verità inedite. Questo credo che sia il senso del nostro mestiere. Insomma non mi bastavano i questionari e le inchieste telefoniche con le quali vengono in genere studiati i fenomeni religiosi: volevo guardarli in faccia, i cattolici italiani.

E che cosa dicono, i diversi interlocutori, di così terribile, che non oserebbero ripeterlo al di fuori di nomi di fantasia e vetri oscurati?

Raccontano lo sfarinamento dei significati, lo sgretolarsi di una struttura, la chiesa, che oggi non so se regga o meno, ma so che è spaccata in due: da un lato c’è la chiesa pubblica, quella che occupa la scena mediatica, quella dei vescovi e del Vaticano; dall’altra ci sono le parrocchie, che soffrono terribilmente, che si svuotano, che anche quando sono piene sono spesso vuote di senso e di partecipazione reale. Me lo raccontavano molti parroci: quando devono celebrare un funerale o soprattutto un matrimonio loro stanno male, perché sanno che si tratta, in un certo senso, di una finzione, mentre loro celebrano l’eucaristia, cioè il sacramento principale, quello che per loro dà ragione al loro essere e a quello della comunità... se ci fermiamo a pensare è un’esperienza lacerante: stai facendo quello in cui credi di più, e i fedeli chiacchierano, fanno fotografie, sbadigliano, e soprattutto non credono a una parola di quello che stai dicendo. Per alcuni versi, questo è sempre avvenuto però nell’epoca dell’autenticità questo è il segnale di una crisi molto profonda.

Forse il dato più allarmante che emerge dall’inchiesta è proprio questo distacco tra la gerarchia dei vescovi e la base dei preti e dei laici delle parrocchie.

Mi pare proprio di sì. Al di là delle chiese più o meno vuote, quello che ho visto è una chiesa afona, quella della gente comune; la chiesa dei vescovi è fin troppo illuminata da ogni tipo di faro. Oggi per parlare di chiesa, in Italia, devi essere un vaticanista! I giornalisti e i politici si illudono che la gente stia lì a domandarsi, come Stalin, quante armate abbia il papa. Ma io penso che ai fedeli importi poco delle manovre occulte, degli intrighi... I fedeli non leggono nemmeno le encicliche! La fede oggi, qui e ovunque nel mondo occidentale, si sta sempre più privatizzando. Avviene così in tutte le grandi istituzioni: si chiama crisi dello spazio pubblico. Vale anche per la politica, l’educazione, quello che un tempo si chiamava l’universo dei valori...

E non si parlano mai, tra di loro, le due chiese?

Non credo: la gerarchia non ha voglia di ascoltare e il popolo dei fedeli non sa a chi rivolgersi. Il dramma del cattolicesimo mi sembra il fatto che la prima chiesa, quella delle gerarchie, non ha più nemmeno bisogno del popolo, cioè della seconda chiesa. Le bastano i media. Le basta che il telegiornale trasmetta il comunicato del rappresentante dei vescovi o che dia notizia dell’ultimo discorso del papa. Ma questo, ripeto, si verifica ovunque, non solo nella chiesa: i vertici possono allegramente ignorare la base. La cosa straziante della chiesa è che la base, quasi sempre, non desidera altro che un cenno di assenso da parte di un vescovo. Non sanno farne a meno.

Come si può spiegare questo fenomeno?

È evidente che ci vorrebbe una riflessione teorica più approfondita, ma ho la sensazione che sia in gioco una grande sfida educativa. La chiesa in Italia esprime un’enorme fatica a ospitare gli adulti. Le chiese si aprono ai bambini, o ai vecchi, ma gli adulti non ci sono, e quando ci sono ci stanno male. Il laico cattolico adulto ha ancora bisogno del placet del sacerdote, cioè si posiziona in modo infantile di fronte a un’autorità, quella del prete e della verticalità della chiesa in generale, che di per sé non ha giustificazioni, se non quelle datele dalla tradizione. Ho intervistato a lungo dei laici di un gruppo che un tempo si sarebbe chiamato «cattocomunista»: agguerriti, capaci, pieni di vitalità e di idee, la parte migliore di una comunità. Bene, questi mi confessano di sperare che il vescovo prima o poi accolga le loro richieste. Ma dico: non potete fare da soli? Perché avete sempre bisogno del vescovo?

Non si riesce a crescere, insomma. In fondo diventare adulti significa assumere su di sé l’onere di gestire i passaggi cruciali della vita: la nascita, le relazioni, la morte. In effetti i sacramenti tradizionali segnano i riti di passaggio comuni a tutte le società che conosciamo. Questo infantilismo forse non è da collegare non solo alla religione, ma a tutti questi momenti soglia, che fatichiamo sempre di più a riconoscere e a comprendere.

Sono d’accordo. Nella mia indagine sul morire di tumore in Italia (Scene finali, il Mulino 2004) avevo già avuto modo di mettere in evidenza come il paziente si consegnasse nelle mani del medico come un bambino. Allora davo grande peso al ruolo del medico, in questo processo. Oggi, avendoci riflettuto, devo ammettere che il malato mette molto di suo nell’abdicare alla propria adultità. Lo stesso si potrebbe dire del matrimonio e del funerale: momenti entrambi in cui l’istituzione è chiamata in causa come amministrazione, non già come ospite del passaggio. Ossia l’istituzione non è più lo spazio pubblico che accoglie e sostiene i nuovi arrivati; è invece il decisore ultimo dei destini e delle volontà dei suoi adepti. Tuttavia mi sembra che la chiesa sia più esposta di altre istituzioni a questo tipo di infantilizzazione del fedele. Un po’ perché il cattolicesimo sta ripiegando sempre più in forme pubbliche modernissime nella forma e preconciliari nella sostanza, quelle che inseguono il trionfalismo degli eventi mediatici, e richiede da parte dei fedeli una partecipazione passiva, cioè la semplice obbedienza (e in ciò sta la matrice tridentina, reazionaria di questo stile); un po’ perché i cattolici, anche i più vivaci, soffrono di una strana sindrome, che chiamerei l’ossessione dell’unità.

In che cosa consiste?

L’ossessione dell’unità è quella strana malattia che spinge i cattolici a inseguire a tutti i costi il consenso dei vertici, il desiderio di ottenere l’approvazione dei piani alti, che leggerei anche come l’inconfessata ambizione che la propria linea divenga quella universale, l’unica. Anche questo, se ci pensiamo, è un comportamento abbastanza infantile.

Il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer si richiamava alla necessità di diventare adulti nella fede, e cioè liberi e responsabili di fronte, per esempio, alla morte. Forse quello che manca al cattolicesimo italiano è proprio l’esperienza della Riforma, che per certi versi ha costretto i fedeli a vedersela da soli, senza le garanzie del clero.

Certamente il processo di privatizzazione che abbiamo descritto all’inizio dice anche di un tentativo, goffo e problematico quanto vogliamo, ma comunque in atto, di americanizzazione del legame sociale. Cioè, anche, di una tensione «protestante» interna allo stesso cattolicesimo, che testimonia a sua volta della voglia che molti hanno di dire la propria su molte questioni, di non cedere alla morsa di un potere sempre più distante e astratto, di essere soggetti e protagonisti delle proprie scelte e delle proprie decisioni. Anche questo è un segno dei tempi, come ha mostrato il filosofo americano Charles Taylor, nella sua monumentale ricerca sull’età secolare. Ai tempi della Riforma nessuno poteva nemmeno sognare di «scegliere» alcunché in campo religioso (cuius regio eius religio, si diceva, no?).

Oggi invece la scelta è un momento cruciale, di cui - e non è un caso - le gerarchie hanno un certo timore. Più libertà ha il singolo, più evidente si fa lo sgretolarsi dell’istituzione che lo vorrebbe amministrare. Mi sentirei però di chiudere con una nota di ottimismo: ho visto questa tensione, per quanto un po’ in controluce, ho visto questo crescente desiderio di autonomia. Prima o poi la sfida sarà lanciata, sarà qualcosa di enorme, i cui risultati decideranno le sorti di una delle religioni più tenaci della storia. Il meglio delle religioni, direbbe Ernst Bloch, è che producono eretici.


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