l’Unità 31.12.12
Rita Levi Montalcini
La Signora della scienza
Se n’è andata una donna che rimarrà nella storia
Senatrice e neuroscienziata ha avuto una vita lunga e densa
Nel 1986 fu premiata con Stanley Cohen per aver scoperto la proteina che regola lo sviluppo del sistema nervoso
di Pietro Greco (l’Unità, 31.12.2012)
«LA MIA GEMELLA PAOLA E IO SIAMO NATE A TORINO IL 22 APRILE 1909, LE PIÙ GIOVANI DI QUATTRO FIGLI. I NOSTRI GENITORI ERANO ADAMO LEVI, INGEGNERE ELETTRICO E ABILE MATEMATICO, E ADELE MONTALCINI, PITTRICE TALENTUOSA ED ESSERE UMANO SQUISITO». Con queste parole Rita Levi Montalcini, unica donna italiana che ha vinto un Premio Nobel in una disciplina scientifica, inizia l’autobiografia consegnata nel 1986 alla Fondazione che a Stoccolma le ha appena assegnato il prestigioso riconoscimento.
Rita - senatrice della Repubblica, grande neuroscienziata ed «essere umano squisito» - è deceduta ieri, all’età di 103 anni. Difficile riassumere in poche righe una vita così lunga e così densa, vissuta quasi sempre un passo più avanti degli altri. Iniziò da giovane a manifestare questa sua propensione, convincendo il padre, Adamo, a farla studiare e laureandosi nel 1936 in medicina presso l’Università di Torino, mentre la gemella Paola seguiva le orme della madre.
Fin dal primo anno di università lavora, come internista, nell’Istituto diretto da Giuseppe Levi, biologo di grande valore e unico maestro, in Italia, a poter vantare tra i suoi allievi ben tre premi Nobel. Oltre a Rita, gli altri due sono Salvatore Luria e Renato Dulbecco. Il bello è che i tre si conoscono e si frequentano, diventando amici strettissimi, fin dal primo anno di università. Ciascuno di loro vincerà il Nobel per lavori realizzati negli Stati Uniti d’America e per motivi indipendenti.
Dopo la laurea, Rita inizia il corso di specializzazione in Psichiatria e Neurologia. Ma ecco che, nel 1938, Mussolini vara le leggi razziali. Lei, di origine ebrea, è costretta a emigrare in Belgio, insieme al suo maestro. A Liegi continua a lavorare con Giuseppe Levi. Ma poi inizia la guerra e la Germania nazista invade il Belgio. Lei e il suo maestro riparano prima a Bruxelles poi tornano a Torino. Dove continuano a fare ricerca insieme, allestendo un piccolo laboratorio casalingo. E proprio in casa Rita inizia a studiare il sistema nervoso degli embrioni di pollo. Scopo della ricerca è cercare di individuare delle non meglio definite «forze induttive» che spinge i neuroni a formare, nel cervello, la loro estesa e complessa rete di relazioni, attraverso la formazione di quei lunghi filamenti chiamati assoni.
Lo studio è interessante, ma nella sua città Rita non è al sicuro. Durante il conflitto lei e Levi cercano di pubblicare: all’estero, perché in Italia agli ebrei è impedito l’accesso anche alle riviste scientifiche. Nel mentre Rita deve trova rifugio, prima nella campagne vicine alla sua Torino, poi è costretta a spostarsi a Firenze, dove prende contatto con le forze partigiane e, infine, opera come medico in un campo profughi al servizio delle Forze Alleate.
A guerra finita torna a Torino e riprende la sua attività di ricerca, finché nel 1947 accetta l’invito di Viktor Hamburger e si reca negli Stati Uniti, presso la Washington University di Saint Louis. L’uomo è un noto neuroembriologo, che ha letto gli articoli di Rita e di Giuseppe Levi. Ed è proprio a Saint Louis che la ricercatrice italiana, nel 1954, insieme al suo collaboratore Stanley Cohen, scopre una di quelle «forze induttive» a lungo cercate: il Nerve Growth Factor (Ngf), la proteina che regola lo sviluppo del sistema nervoso. È per questa scoperta nel 1986 Rita Levi Montalcini e Stanley Cohen otterranno il Premio Nobel.
Si tratta di una scoperta davvero importante. Non solo perché - come recita la motivazione del Premio - rende improvvisamente chiaro un quadro fino ad allora caotico. Ma anche perché, grazie alla scoperta del Ngf quell’insieme di discipline che oggi chiamiamo neuroscienze e che hanno per oggetto di studio il cervello assumono una grande importanza centrale nel panorama delle scienze naturali.
Sebbene la parte prevalente della sua vita scientifica sia ormai negli Stati Uniti, Rita Levi Montalcini non dimentica l’Italia. Tra il 1961 e il 1962 crea a Roma un centro di ricerca sull’Ngf e nel 1969 fonda e dirig Pietro Greco e (fino al 1978) l’Istituto di biologia cellulare preso il Cnr. Dal 1979 si trasferisce definitivamente in Italia. Nel 2002, a 93 anni, fantastico esempio di longevità scientifica, fonda, sempre a Roma, l’Ebri, l’European Brain Research Institute.
Come molti dei grandi scienziati, Rita Levi Montalcini svolge un’intensa attività sociale e politica. Tra i tanti impegni, ne ricordiamo tre. Nel 1989 accetta l’invito del fisico Vittorio Silvestrini ed è tra i soci che danno vita alla Fondazione Idis che a Napoli realizzerà la Città della Scienza, il più grande museo scientifico di nuova generazione del nostro paese. Nel 1998 fonda la sezione italiana della Green Cross International, la Croce verde internazionale che si occupa di ambiente è riconosciuta dalle Nazioni Unite ed è presieduta da Michail Gorbaciov. Nel 2001 è nominata senatore a vita: non è un incarico prestigioso, ma nominale. Rita Levi Montalcini frequenta Palazzo Madama e mostra una fierezza e anche un coraggio fisico niente affatto comuni quando gruppetti di estrema destra, dentro e fuori il Parlamento, la fanno, inopinatamente, oggetto di dileggio. Evidentemente non riescono a capire chi hanno di fronte.
Ma le sue attività principali, fuori dal laboratorio, sono quella pubblicistica - scrive una quantità imponente di libri di divulgazione, anche per ragazzi - e quella per i diritti delle donne. In uno degli ultimi volumi afferma: «Ho appena scritto un libro dedicato ai ragazzi, l’ho pubblicato con una casa editrice per giovani. Ne sono fiera. L’abbiamo intitolato Letueantenate. Parla di donne pioniere. Quelle che hanno dovuto lottare contro pregiudizio e maschilismo per entrare nei laboratori, che hanno rischiato di vedersi strappare le loro fondamentali scoperte attribuite agli uomini, che si sono fatte carico della famiglia e della ricerca».
Ecco, Rita Levi Montalcini è stata una donna, scienziata e pioniere. Che ha indicato un percorso di riscatto al suo genere e a tutto il suo paese.
«Non temo l’ingegneria genetica ma la manipolazione culturale»
di Piero Bianucci (La Stampa, 31.12.2012)
Sono pochi gli scienziati che nella propria vita hanno sempre riservato uno spazio all’impegno politico e alla riflessione etica. Rita Levi Montalcini apparteneva a questa minoranza. L’intervista inedita che segue risale a due anni dopo il premio Nobel per la Medicina, assegnatole nel 1986: parla non la ricercatrice, ma la donna che difende i valori civili e morali.
Professoressa, che cosa significa oggi essere antifascisti?
«Significa mantenere vivi quei valori che si stanno perdendo da parte dei revisionisti. Oggi non c’è da opporsi a una persecuzione, a una privazione della libertà come avveniva sotto il fascismo. Antifascisti dovremmo esserlo tutti. Purtroppo non è così. Il fascismo è stato la distruzione di tutti i valori morali. Un revisionista per esempio è lo storico Renzo De Felice. Per lui siamo stati tutti uguali, tutta brava gente, tanto vale passare una spugna su tutto. Un momento: io dico no, ci sono i bravi e i cattivi. Primo Levi è stato formidabile nel denunciare il revisionismo. Le cose vanno ancora peggio in Francia. De Felice afferma che l’Italia è fuori dall’ombra dell’olocausto. Non è affatto vero. Sono amareggiata da queste affermazioni. Oggi, nel 1988, antifascismo è avere dei principi etici».
Teme ancora il razzismo?
«Il razzismo è sempre in agguato. In molte parti del mondo si assiste a persecuzioni non diverse da quelle che abbiamo avuto in Europa mezzo secolo fa. Ci sono ritorni di antisemitismo, persino in Italia. Tutto ciò denota un basso livello di valori etici. I razzisti sono persone frustrate, che pensano di rivalersi perseguitando persone che ritengono inferiori. Questi rigurgiti del passato non mi toccano, ma mi addolorano».
Da giovane per dedicarsi alla ricerca scientifica ha dovuto lottare. Come giudica i movimenti femministi fioriti dagli Anni 70 in qua?
«Non ho simpatia per quel tipo di propaganda che si esprime negli slogan femministi tipo “Il corpo è mio e lo gestisco io”. Neppure mi piacciono le chiacchiere sull’emarginazione e sulle sofferenze delle donne. Ho invece enorme simpatia per le donne impegnate. Penso che nel futuro il ruolo della donna sarà decisivo. Più volte mi è capitato di dire che il livello a cui è tenuta la donna è il barometro della civiltà: più alte sono le potenzialità aperte alle donne, più alto sarà il grado della civiltà. La donna è stata repressa in tutte le epoche passate, e lei stessa ha accettato questa situazione, come sempre fanno le vittime: pensi agli ebrei. Da bambina cercavo modelli di donna con grandi capacità intellettuali, da Gaspara Stampa a Vittoria Colonna a Saffo: erano le mie tre eroine. L’8 marzo, Festa della Donna, quando Nilde Jotti mi ha invitata, sono andata alla Camera a tenere un discorso. Ma non ho mai amato gli schiamazzi femministi. I diritti ci sono, vanno difesi, le donne devono impegnarsi nel difenderli. Tuttavia occorre riconoscere le differenze: il cervello femminile dal lato ormonale differisce da quello maschile. Tra uomini e donne c’è parità di capacità: ciò non significa che non esistano differenze biologiche».
Quale ruolo possono avere gli scienziati nel difendere la pace?
«Sono diventata contraria alle piccole manifestazioni alle quali prendevo parte in passato, alle firme sui manifesti. Piccoli rimedi non servono per grandi mali come la guerra. Il ruolo degli scienziati per la pace consiste innanzi tutto nel non collaborare a progetti bellici, come invece succede, per esempio, al Livermore Laboratory, negli Stati Uniti. Ma a parte i fisici, che possono essere implicati direttamente in armi totali, il ruolo degli altri scienziati non differisce da quello di tutti i cittadini. Bisogna individuare i punti deboli del potere e riuscire ad avere una voce. Per questo, ad esempio, sono andata all’incontro tra Mitterrand e 70 premi Nobel. C’erano anche Willy Brandt, Henry Kissinger. Disgraziatamente gli scienziati e i cittadini hanno contro le industrie che fanno miliardi fabbricando armi».
Che cosa pensa da un lato dell’eutanasia e dall’altro lato dell’accanimento terapeutico con cui spesso si difende a oltranza la vita del malato anche al di là di ogni speranza?
«Sono stata molto attaccata per essermi espressa a favore dell’eutanasia. Personalmente penso che ognuno di noi ha il diritto di decidere della propria vita. C’è chi distingue tra eutanasia attiva ed eutanasia passiva. La passiva si limita a non eccedere nei rimedi terapeutici. Io sono per l’eutanasia attiva».
Vede dei rischi nell’ingegneria genetica?
«No. A tutt’oggi ha portato soltanto dei vantaggi all’umanità. Invece è immenso il pericolo della manipolazione culturale. Basta pensare ai mass media, all’influsso della televisione sui bambini. Mentre va aumentando in maniera smisurata il pericolo della manipolazione culturale, mi sembra assurdo preoccuparsi della manipolazione genetica».
La ricerca della verità scientifica è un grande valore. Ma è un valore assoluto o deve sottostare a valori gerarchicamente superiori?
«Sono per la libertà della ricerca. Non si può mettere un lucchetto al cervello umano. Naturalmente deve essere una ricerca fatta bene, onestamente. Ma in libertà. I valori etici, ma anche i valori politici e sociali, devono invece ispirare le applicazioni dei risultati della ricerca. Non tutto ciò che tecnicamente può essere fatto deve necessariamente essere fatto».
L’eredità della Montalcini
di Umberto Veronesi (la Repubblica, 31.12.2001)
A noi ora il compito di capire a fondo questa eredità, per renderla eterna, superando il senso di perdita che prova oggi il paese, e prova ancor di più chi, come me, ha avuto il privilegio di averla come amica e alleata in tutte le grandi battaglie della vita. Il primo caposaldo del suo messaggio è l’amore per la scienza e la fiducia incondizionata nella capacità del pensiero razionale di costruire il progresso della civiltà.
«La totale dedizione e il chiudere gli occhi davanti alle difficoltà: in tal modo possiamo affrontare problemi che altri, più critici e acuti, non affronterebbero». Così Rita stessa ha descritto la passione scientifica che, dal dubbio come metodo, porta al nuovo sapere e alla soluzione dei dilemmi. Questa passione, che abbiamo sempre condiviso, ci ha condotto a lottare per l’idea di una scienza al servizio della società: per la libertà di ricerca scientifica, per il sostegno finanziario e culturale alla ricerca, per il diritto di autodeterminazione della persona e le libertà di scelta che ne derivano. Il suo contributo personale all’amata scienza è noto: ha ampliato la nostra conoscenza del cervello e del sistema nervoso, tanto da farle meritare il Premio Nobel per la Medicina nel 1986 per la scoperta del NGF (fattore di crescita nervoso). Ha dimostrato che il cervello è plastico e si può modificare, offrendo nuove prospettive per la cura delle malattie neurologiche.
Il secondo caposaldo del suo messaggio la vede ancora protagonista in prima persona: la valorizzazione delle donne, patrimoni intellettuali e capitali umani inespressi o dimenticati. Cito ancora le sue parole: «Il futuro del pianeta dipende dalla possibilità di dare a tutte le donne l’accesso all’istruzione e alla leadership ». Rita si è iscritta a Medicina a Torino in un periodo, che io ho vissuto di persona e ricordo molto bene, in cui una donna medico era una rarità, per non dire uno scandalo. Ha lottato contro i pregiudizi maschilisti, contro la persecuzione nazista, contro l’antiscientificità del nostro Paese, che ha dovuto lasciare per fare ricerca negli Stati Uniti. Ha dimostrato con i fatti che una donna, se ha accesso al sapere, può ottenere risultati pari e migliori di un uomo. È una delle sole dieci donne che hanno avuto il Nobel per la medicina (gli uomini sono quasi 200) e la sola donna ad essere ammessa alla Pontificia Accademia delle scienze. Non ha mai voluto, però, essere una eccezione; al contrario si è impegnata perché il maggior numero di donne, ovunque nel mondo, possano avere accesso ad un percorso potenzialmente come il suo. In Africa, ad esempio, la sua Fondazione, in collaborazione con la mia, è impegnata per la salute e la lotta all’emarginazione delle donne.
Il terzo caposaldo è la forza dei valori del pensiero laico: la libertà, a cui ho già accennato, la tolleranza, la solidarietà, la pace. Rita ha vissuto sulla pelle gli orrori della guerra, della shoah, del nazismo, e, come me, si è dedicata ad estirpare le cause di queste follie con la forza del pensiero scientifico. Un pensiero che ci insegna che le razze non esistono, ma tutti gli uomini appartengono alla stessa specie, che geneticamente uomo e donna sono identici, che la parte cognitiva (e non arcaica) del nostro cervello si evolve e può progredire continuamente.
Il suo messaggio è quindi di fortissima fiducia nel futuro. «L’Italia è un paese ricco di giovani capaci, nessun paese ha la ricchezza in termini di capitale umano del nostro. Dico ai giovani: non pensate a voi stessi, pensate agli altri. Pensate al futuro che vi aspetta, pensate a quello che potete fare, e non temete niente». Rita Levi-Montalcini ha fatto così, entrando per sempre nella storia.