Una tragedia che ci riguarda
di Laura Balbo *
Io spero che si sia in molti, in Italia, a interrogarci sui tanti aspetti che ci sono dietro a questo fatto terribilmente doloroso: una donna, sulla via di casa, la sera, aggredita, massacrata, gettata da una scarpata. Le periferie insicure, la violenza sulle donne. Spero anche che molti provino a chiedersi cosa ci possa essere nella testa (o nell’esperienza quotidiana) di un giovane che compie un atto così tremendo: arrivato in Italia da pochi mesi, hanno detto; ci hanno fatto vedere il tugurio in cui vive; certo, senza risorse e senza speranza per il futuro. E ancora: fermarci a pensare a quanti, nelle condizioni dell’immigrazione -pur diverse, cerchiamo di non ragionare con categorie semplificanti- vivono una fase almeno, e in molti casi un periodo lungo, di estremo isolamento (incertezza, solitudine, disperazione).
E chiederci se il modo in cui la cronaca della televisione e dei quotidiani ci presenta fatti di violenza come questo (altri ne possiamo ricordare: certo, ne succedono) sia in qualche modo utile: a capire la complicata situazione del mondo in questa fase, a evitare proposte di soluzione inadeguate di fronte a problemi oggettivamente difficili da gestire. Una occasione per riflettere sul fenomeno dell’immigrazione non genericamente. Da quali diversi paesi e in quali diverse circostanze arrivano, uomini e donne, attraverso «reti» o del tutto soli, senza sostegni; e in quali dei molto disomogenei contesti del nostro paese.
E però anche per riflettere su «noi»: come veniamo informati, se ci poniamo la questione in termini abbastanza attenti, se pensiamo al futuro consapevoli, in qualche misura, delle possibili ricadute del presente.
Continueranno gli arrivi. Proprio due giorni fa, val la pena di ricordarlo, è stato presentato il rapporto annuale sull’immigrazione in Italia della Caritas.
Per molti, condizioni durissime; altri vivono meglio, ma comunque lo sappiamo: difficoltà, sfruttamento, discriminazione. I percorsi dell’ accoglienza (o dell’inserimento, o dell’integrazione, o della cittadinanza; della società multi-etnica, multi-culturale, ecc.) sono lunghi, contrastati, difficili. Cominciamo appena a parlare delle «seconde generazioni».
Di fronte a un tragico fatto come questo dovremmo arrivare a capire che appunto è una fase complicata quella che viviamo.
Vorrei insistere su qualcosa che trovo non sia abbastanza detto: è fondamentale che si abbia una prospettiva che colga come siamo «noi», la società italiana (ed europea). Sondaggi e ricerche ci dicono che crescono l’ insicurezza, il rifiuto, gli stereotipi. Diventiamo sempre più spaventati, ostili. Una società burocratica, chiusa, negativa. Aumentano risposte che sono discriminazioni, controlli (anche angherie). A volte sembrerebbe che fatti di illegalità e di violenza, se non ci fossero gli immigrati, in Italia non ce ne sarebbero.
Ci riguarda: dovremmo pensarci.
«Loro» continueranno ad arrivare. Abbiamo bisogno dei migranti (anche questo lo troviamo nei dati statistici, nelle ricerche, in dichiarazioni di politici). Certo, ci piacerebbe poterli «scegliere» (succede ormai in molti paesi) o almeno, certi, mandarli indietro. È la soluzione di cui si parla in questi giorni.
Di fronte a episodi come questo la reazione di condanna e sgomento è comprensibile (i media naturalmente svolgono il loro ruolo di informazione con modalità che studi approfonditi hanno discusso in termini allarmati).Ma dovrebbero preoccuparci risposte che, con apparente senso di efficienza, non diano la misura delle difficoltà reali.
Sono pochissimi i casi (in altri paesi, e da noi in qualche situazione relativamente ben organizzata) in cui si opera con soluzioni abbastanza soddisfacenti (anche, per esempio, riuscire ad anticipare i rischi in una strada così buia, in periferia, vicino a un campo in condizioni di disagio estremo).
In casi estremi - come è questo - riesco a dire soltanto che viviamo, e certo vive la maggioranza di «loro», una fase storica che molto poco sappiamo come gestire. Riuscire a esserne consapevoli - e anche vigili, certo, nelle diverse posizioni di responsabilità - è un impegno culturale e politico prioritario.
Dovremmo cercare di porci in una prospettiva non «banalmente» rassicurante. Non serve per affrontare i problemi, ai diversi livelli; né per un’opinione pubblica che rifiutando il rischio di essere «mediatizzata» cerchi invece di tenere gli occhi aperti su quello che ci succede intorno.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.11.07, Modificato il: 02.11.07 alle ore 11.54