Inviare un messaggio

In risposta a:
La democrazia, l’antinomia istituzionale del mentitore e la catastrofe culturale italiana....

UMBERTO ECO E IL POPULISMO DI "FORZA ITALIA". Un’intervista di Marcelle Padovani (2002) e un’intervista di Deborah Solomon (2007) - a cura di pfls

Un elegante palazzo milanese di fronte al castello sforzesco, costruito nel XIV secolo, del quale scorge la splendida torre medioevale dalla finestra del suo studio.
domenica 25 novembre 2007 di Maria Paola Falchinelli
[...] In questo momento l’Italia sta attraversando un periodo strano...
«Certo. Tutti i giornalisti vengono a intervistarmi su Berlusconi. Rispondo loro che si occupa dei suoi interessi con successo. Il problema è quel 50% di Italiani che gli permette di farlo, e il rischio di contagio che può effettivamente colpire la Francia e la Germania. Questa maniera di considerare la politica come un’impresa pubblicitaria è un problema che riguarda tutto l’Occidente.
Ma lasciamo che (...)

In risposta a:

> UMBERTO ECO E IL POPULISMO DI "FORZA ITALIA". Un’intervista di Marcelle Padovani ---- La mafia, Falcone, Sciascia. L’Italia di Marcelle Padovani: "Siete un grande laboratorio e non lo sapete" (di Concetto Vecchio).

domenica 15 agosto 2021

La mafia, Falcone, Sciascia. L’Italia di Marcelle Padovani: "Siete un grande laboratorio e non lo sapete"

Trastevere e Trentin, il Pci e l’amore per la Sicilia. La giornalista francese racconta il rapporto lungo quasi 50 anni con il nostro Paese: "Draghi deve restare a palazzo Chigi".

      • Marcelle Padovani, 75 anni, ha scritto "Cose di costra nostra" con Giovanni Falcone e "La Sicilia come metafora" con Leonardo Sciascia. (fotogramma)

di Concetto Vecchio (la Repubblica, 14 Agosto 2021).

Marcelle Padovani, cosa ricorda del suo impatto con Roma?

“Erano i primi anni Settanta ma il modo di vivere era, per molti versi, ancora simile a quello di fine Ottocento: nelle sere d’estate gli abitanti di Trastevere piazzavano i tavolini davanti agli usci per cenare al fresco”.

E l’Italia, che impressione le fece?

“Presi il treno per raggiungere la sede del mio primo servizio e mi ritrovai a viaggiare con un gruppo di operai che andavano a Taranto a non so più quale manifestazione. Discutevano della loro condizione con coscienza di classe: sapevano tutto di salari, produzione, sistemi industriali. "Uao, che Paese!", pensai”.

Quale fu il primo servizio?

“Intervistare il leader sindacale Bruno Trentin”.

L’uomo che sarebbe diventato suo marito?

“E’ la vita”

Quanti anni aveva?

“Ventotto”.

E lui?

“Quarantaquattro. Andammo a cena e rimasi ipnotizzata dal suo sguardo”

Era sposato?

“Separato. Lasciò la sua compagna di allora. Ci sposammo nel 1975”.

Perché scelse di fare la corrispondente di Nouvel Observateur proprio in Italia?

“Sono corsa e l’italiano ce lo insegnavano sin dalle elementari. Quando mi sono iscritta alla Sorbona per studiare scienze politiche ho continuato a studiare la vostra lingua. Mi sono laureata con una tesi sulle sinistre francesi e italiane negli anni 1944-47. Poi per il giornale ho cominciato a seguire Mitterrand. Il Pci rappresentava un mondo che interessava i lettori francesi. Fu naturale occuparsene”.

Quando iniziò come corrispondente?

“Nel 1974. Volevo vivere con Bruno e chiesi di essere trasferita a Roma. Il giornale non era interessato. Solo dopo le mie insistenze mi accontentò riducendomi però lo stipendio a 50mila lire al mese: era un ventesimo della mia retribuzione di allora. Accettai. Lavorai instancabilmente e soltanto l’anno dopo tornai al mio stipendio originario”.

Dove andaste a vivere?

"A Trastevere. E qui accadde un episodio incredibile. Un giorno, dopo pranzo, Bruno uscì per andare in ufficio e subito rientrò: "Mi hanno rubato il borsello dalla macchina!". Mentre stavamo cercando di capire cosa esattamente gli avevano portato via squillò il telefono: era il segretario della sezione del Pci di vicolo del Cinque. "Compagno Trentin, i ladri si scusano per averti sottratto il portafogli. Le pipe però le hanno già vendute".

Cosa rivela questo episodio?

"Che il Pci era un partito votato da più di un terzo degli italiani, vicino al popolo, finanche al popolino dei furtarelli".

Cosa l’affascinava dell’Italia degli anni Settanta?

“Il fatto che fosse un laboratorio. Nel senso che qui le cose avvenivano prima che nel resto d’Europa, dal terrorismo alla mafia. Lo Stato era alle prese con fenomeni senza eguali e doveva capire come venirne a capo. Tutto questo era terribile, ma anche affascinante per un giornalista. Gli italiani dimenticano troppo in fretta questa loro natura di laboratorio: un luogo cioè dove si mescolano elementi raffinati e complessi che esigono risposte altrettanto raffinate e complesse. Nella lotta contro la mafia e il terrorismo lo Stato alla fine ha vinto nella sorpresa generale. Lo stesso sta avvenendo col populismo”.

Il populismo è sconfitto?

“Lo sarà. Per populismo mi riferisco a quello dei Cinquestelle, perché Matteo Salvini è un soltanto demagogo opportunista che ricorre al populismo quando gli serve".

Che populismo è quello del M5S?

"Originale e creativo, che una volta al governo è stato capace di evolversi, di affrancarsi dalla demagogia, perché al potere la demagogia rende impotenti. In Francia è accaduto esattamente il contrario: il populismo ha finito per pervadere i partiti al governo, con istinti diversissimi tra loro, che arrivano fino ai no vax e all’antisemitismo".

I no vax sono rumorosi pure in Italia.

"Sì, ma nel complesso gli italiani si sono vaccinati con più disciplina. In Francia ai vaccinati hanno dato un braccialetto rosso per renderli subito riconoscibili nei locali pubblici. Può essere una buona idea, ma è anche la riprova che lo Stato deve controllare di più".

Come nacque "La Sicilia come metafora", il libro intervista di Leonardo Sciascia?

"In Francia i suoi libri suscitavano sempre un grande interesse e lo intervistai lungamente per il giornale. Un editore mi propose di farne un libro. Fino a quel momento Sciascia aveva detto di no a tutti".

Che tipo era Sciascia?

"Piccolo di statura, aveva un’espressione scettica e ironica che affascinava. Andai a trovarlo Racalmuto e sua moglie Maria ci preparò la pasta con le sarde. Sciascia parlava della Sicilia, di Parigi, della mafia e di Racalmuto. Non parlava mai dell’Italia. Una cosa che mi colpì moltissimo".

Come lo spiega?

"Non gli interessava. Lo avvertiva come un mondo ostile. Alla fine di ogni estate andava a Parigi in treno, alloggiando sempre nello stesso albergo, l’Hotel du Pont Royal in rue de Montalembert: faceva tappa a Roma, scendeva dal treno, dormiva una notte in albergo e ripartiva subito".

Cosa l’affascina della Sicilia?

"L’essere un’isola. Ha una sua aspirazione all’illuminismo, come metodo e meta per rispondere al disordine. E’ un mondo complesso. Sciascia mi spiegò subito che il vero siciliano non ama il mare, perché dal mare, da sempre, sono giunti gli invasori. E infatti, in molti paesi siciliani, le case danno le spalle al mare. In Corsica è lo stesso".

Quando ha conosciuto Giovanni Falcone?

"Nell’autunno del 1983 si cominciò a parlare di un capomafia, che detenuto in Brasile aveva deciso di collaborare con Falcone. Il suo numero me lo diede Luciano Violante. Era novembre e volai a Palermo. Le sette di sera. Buio pesto, poca gente per le strade. La Procura deserta. Salii al secondo piano, e superai due porte blindate, davanti alla seconda Falcone aveva fatto piazzare una telecamera. Entrai e mi gelò: "Il nostro incontro salta, devo correre con urgenza all’Ucciardone". "Possiamo cenare insieme?", obiettai. "Non mi sembra molto igienico", rispose".

E lei?

"Bel cafone", pensai. Disse: "Domani mattina alle sette vado a Roma, si faccia trovare a Punta Raisi, così viaggiamo insieme e facciamo l’intervista in volo". Trovai in fretta e furia un biglietto e mi presentai in aeroporto. Sull’aereo ci misero accanto, ma sfortuna volle che vicino a noi era seduto anche Marco Pannella, che, mi disse Falcone, era venuto a consegnare la tessera radicale al boss Michele Greco. "Non mi sembra il caso di farla qui", taglio cortò Falcone".

Rido.

"Arrivati a Roma Falcone mi disse: "Vada a casa, che all’ora di pranzo la mando a prendere". Ero definitivamente furibonda. Intorno alle tredici arrivò davvero un ufficiale della Guardia di Finanza, che mi condusse in una caserma di periferia. Entrai e trovai la tavola imbandita e il fuoco del camino acceso. Parlammo per due ore. L’intervista uscì il 30 dicembre col titolo: "Il piccolo giudice e la mafia".

Che uomo era Falcone?

"Parlava solo di mafia. Non mostrò mai il minimo interesse per la mia vita. Non mi chiese mai da dove venissi, che studi avessi fatto, niente di niente. Era monotematico, da cui è derivata la sua proverbiale efficienza, il suo professionismo. Come tutti i siciliani colti aveva il gusto per il racconto, era pieno di dettagli, ma inseriti dentro concetti più vasti. Per scrivere Cose di cosa nostra ci vedevamo in un ristorante a Roma, lui mangiava con gusto e io prendevo appunti, perché mi chiese di non registrare. Alla fine ero distrutta, e Falcone ordinava, anche col caldo, una vodka".

Che anno era?

"La primavera del 1991. Quando terminai di scriverlo, a luglio, gli telefonai da San Candido dove mi trovavo in ferie con Bruno, per chiedergli come procedere. "Vengo io", disse. Arrivò all’indomani a Sesto di Pusteria, ritirò il dattiloscritto in francese, lingua che Falcone padroneggiava perfettamente, e me lo restituì con pochissime correzioni".

E ripartì subito?

"Bruno mi disse: "Invitiamo Giovanni a cena, dobbiamo festeggiare". Accettò. Parlammo dell’attualità politica, dell’irredentismo altoatesino, di Mahler che aveva avuto lì una casa, e la figura di Giovanni si rimpiccioliva nella sedia: si annoiava. A un certo punto feci riferimento a una notizia di cronaca che riguardava il figlio di Stefano Bontate e in quel momento si ridestò di colpo, raddrizzandosi sulla sedia".

Era già al ministero, e la sinistra lo criticava per la sua collaborazione con il ministro Martelli. E’ stato un grave errore contestarlo?

"L’errore è doppio. Nel non avere capito l’importanza decisiva del suo codice antimafia e nel non avere mai fatto autocritica. Falcone viene incensato, senza essere studiato. Chiunque parli di mafia lo cita, spesso a sproposito. Da vivo fu molto solo, si contavano sulle dite di una mano i magistrati che lo sostenevano, i più lo criticavano per il suo presunto protagonismo mediatico".

Non era vero?

"Per niente. Falcone non amava i giornalisti. In vita sua rilasciò pochissime interviste".

Cosa pensa del sottosegretario Durigon che ha chiesto di intitolare al fratello di Mussolini invece che a Falcone e Borsellino il parco di Latina?

"E’ la conferma che i cattivi a volte riposano, gli imbecilli no".

Perché sostiene che la mafia è stata sconfitta?

"L’Europa dovrebbe prendere esempio dall’Italia per come ha saputo reprimere Cosa nostra, che ormai da vent’anni non riesce a eleggere un nuovo capo, e che si è tramutata in una mafia economica che ha deciso di partecipare al capitalismo. E’ la conferma che la criminalità organizzata non è retrograda, ma un’avanguardia, purtroppo".

E non è una minaccia altrettanto grave per una società?

“Oggi l’impresa mafiosa, come la non mafiosa, finiscono col praticare gli stessi metodi di sviluppo, che vanno dall’evasione fiscale all’offerta di servizi illegali, dalla proposta di costi di produzione astutamente ridotti alle scorciatoie amministrative a colpi di tangenti. Bisognerebbe rivedere tutti i meccanismi di finanziamento dell’impresa così come gli articoli del codice penale destinati a combattere i metodi illegali”.

La destra vincerà le prossime elezioni?

"La trovo grottesca e pericolosa allo stesso tempo. Cosa vogliono veramente? Quali sono i programmi? Il populismo l’ha svuotata e intrisa di demagogia. Infatti la più popolare è Giorgia Meloni, anche perché serba un minimo ricordo di ideologia".

Il suo libro, La lunga marcia del Pci, uscito nel 1979, si apre con un capitolo sulla scuola delle Frattocchie, frequentata da giovani operai. Oggi cos’è diventata la sinistra italiana?

"La sinistra come bisogno, e come scelta di campo, esiste ancora. Ma i partiti esistenti non sono all’altezza né delle tradizioni né del bisogno di eguaglianza e giustizia sociale. Però sono ottimista, a lungo andare, il laboratorio italiano riuscirà ad esprimere una forza che sappia parlare di nuovo alle masse".

Draghi l’ha convinta?

"In Italia lo considerate un grande tecnico. Invece è un grande politico. E’ riuscito a tenere tutti buoni facendo passare provvedimenti anche drastici. E’ il prossimo leader dell’Europa, e come tale è visto dalle cancellerie".

Deve restare a palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale?

“Non ho dubbi: rimanere a Palazzo Chigi. Perché essendo il più competente in materia economico-finanziaria deve gestire lui i soldi del Recovery Fund. Ne va della credibilità dell’Italia a livello europeo. Sarebbe auspicabile che Mattarella accettasse un secondo mandato.”

Cosa ha capito di noi italiani?

"Siete un popolo che si sottovaluta, al contrario di noi francesi che ci sopravvalutiamo. L’Italia è un Paese di enorme interesse e vitalità. Anche se a volte sorrido della vostra capacità di autoesaltazione. Alle Olimpiadi avete conquistato dieci medaglie d’oro, come Germania, Francia, Olanda, arrivando decimi nel medagliere, ma avete esultato come se foste arrivati primi".

Lavora ancora?

“Continuo a scrivere per Nouvel Observateur, purtroppo più per il web che per il magazine. E cerco anche di mettere in piedi un libro: il mio decimo dedicato all’Italia”.

Si sente ormai italiana?

"Né italiana, né francese. Sono una corso-trasteverina".


Questo forum è moderato a priori: il tuo contributo apparirà solo dopo essere stato approvato da un amministratore del sito.

Titolo:

Testo del messaggio:
(Per creare dei paragrafi separati, lascia semplicemente delle linee vuote)

Link ipertestuale (opzionale)
(Se il tuo messaggio si riferisce ad un articolo pubblicato sul Web o ad una pagina contenente maggiori informazioni, indica di seguito il titolo della pagina ed il suo indirizzo URL.)
Titolo:

URL:

Chi sei? (opzionale)
Nome (o pseudonimo):

Indirizzo email: