Uno dei monaci che capeggiarono la rivolta, U Gambira, sconta in prigione
una condanna a 69 anni perché invitò il popolo a pregare per la San Suu Kyi
La pace ribelle dei monaci buddisti
"Aung sa come resistere all’ingiustizia"
di RAIMONDO BULTRINI *
DI RITORNO DA MANDALAY (BIRMANIA) - Il monastero sorge attorno all’ex capitale Mandalay, in un’oasi di verde chiamata "il luogo privo di preoccupazioni". Il nome sembra confermare, come scrisse Max Weber, che i buddisti birmani "dormono in un giardino incantato", secondo lo stereotipo diffuso di una religione basata - non solo in Birmania - sul distacco dal mondo.
Ma due anni fa, quando i monaci scesero in piazza contro i governanti responsabili dell’aumento dei prezzi di riso e benzina, il mondo si accorse che nel Paese dei generali la comunità religiosa - il sangha - è tutt’altro che estraniata dal Paese reale. Questo "esercito in zafferano", com’è stato chiamato, pagò allora un prezzo altissimo: templi svuotati, religiosi arrestati, rispediti nei villaggi o costretti ad abbandonare la tonaca.
Eppure oggi, nonostante tutto, ci sono ancora poco meno di 500mila tra novizi e monaci ordinati, distribuiti specialmente tra Mandalay e il nord, un numero pari se non superiore a quello dei soldati del famigerato esercito dei tadmadaw.
"Nei giorni delle rivolte del 2007 - spiega un monaco che insegna i testi pali ai novizi e meditazione agli stranieri qui ospitati per qualche giorno - molti nostri fratelli hanno esplicitamente chiesto ai soldati, giovani che vengono dai nostri stessi villaggi, di mettere da parte le loro armi e di battersi a mani nude. Ma quelli non hanno accettato".
Un atteggiamento forse un po’ troppo combattivo per una dottrina pacifica come quella del Buddha. "Niente affatto", risponde il monaco, "un conto è sviluppare un’intenzione amorevole verso tutti gli esseri viventi e un conto tollerare le ingiustizie dei più forti verso i più deboli. Noi siamo cresciuti alla vita dura delle campagne, arriviamo nei monasteri per avere un minimo di educazione e di cibo, perché nei nostri villaggi non ci sono né l’uno né l’altro.
Quando i prezzi aumentarono fino al 500% - spiega - ci vergognavamo di andare a chiedere l’elemosina, perché molte famiglie non avevano abbastanza riso per sé. E nonostante ciò molti di noi rifiutarono le offerte delle persone coinvolte con il regime, un gesto considerato di scomunica. Capirete che non si è trattato di una decisione facile, era in ballo la nostra sopravvivenza, ma anche la possibilità di cambiare in meglio la vita della nostra gente".
Dai dormitori si vedono alzarsi all’alba, nelle stanze ancora avvolte dal buio, centinaia e centinaia di novizi, molti bambini sotto i sei anni, con l’aria assonnata e le ciotole di legno avvolte nel saio. Escono anche sotto la pioggia scrosciante dei monsoni e raggiungono a piedi nudi i quartieri e i villaggi dove riceveranno l’unico cibo della giornata.
Ancora oggi in città è difficile racimolare anche solo un po’ di pesce, carne o verdure oltre al riso, e per questo a frotte salgono sugli autobus, gratuiti per i monaci, fino alle fattorie sperdute nelle campagne, dove le famiglie di contadini offrono loro la parte migliore delle provviste del giorno. A nessuno da queste parti passa per la testa di definire i monaci "un esercito di fannulloni sovversivi", come disse un generale per umiliare i ribelli.
Qui ogni famiglia manda i bambini almeno una volta l’anno in monastero per imparare le scritture pali "che liberano da ogni schiavitù mentale". I novizi apprendono i rudimenti di tecniche si dice sperimentate dallo stesso Budda per ottenere l’Illuminazione. Più prosaicamente, devono fare attenzione al respiro che entra ed esce sulla punta del naso, notando quante volte la mente s’è distratta dietro ai pensieri perdendo la concentrazione.
"Meditare su un punto solo" - spiega l’insegnante - "è il segreto per domare le percezioni che generano la rabbia, la delusione e il desiderio". In realtà questi esercizi spirituali, dicono i monaci, hanno a che fare più di quanto si immagini con la realtà non solo sociale ma anche politica della Birmania. "U Ba Khin, il maestro del celebre Narayan Goenka che ha istruito generazioni di birmani e stranieri alla meditazione vipassana - racconta uno di loro - era un impiegato civile e ha contribuito notevolmente alla riorganizzazione delle istituzioni all’indomani dell’indipendenza.
Ma per venire all’oggi: come credete che la stessa Daw Aung San Suu Kyi abbia potuto resistere tutti questi anni in isolamento senza perdere mai il controllo delle sue azioni? E come fa il popolo a sopportare i soprusi di cui è testimone ogni giorno? Dai nostri conventi sono usciti monaci che hanno avuto un ruolo decisivo nella lotta per l’indipendenza, come U Ottama e U Seinda, o come U Wisara, morto in prigione dopo un lungo sciopero della fame".
Ancora oggi, a rivolte domate, piccoli e più o meno isolati episodi di eroismo vedono ancora protagonisti gli uomini in tonaca e spesso le loro famiglie. La madre di U Gambira, fondatore dell’Alleanza dei monaci birmani e tra i protagonisti delle rivolte del 2007, è costretta a raggiungere da Mandalay una prigione isolatissima a tre giorni di barca attraverso un grande fiume, per recarsi a trovare suo figlio che sta scontando una condanna a 69 anni. La sua colpa? Aver invitato a pregare per la liberazione di Aung San Suu Kyi.
* la Repubblica, 15 agosto 2009