E Lévinas in prigione divenne filosofo
Escono i «Taccuini della cattività» del pensatore lituano di origine ebraica: mentre per il suo popolo si spalanca il baratro della Shoah, l’intellettuale pur in carcere intuisce gli abissi di luce della Scrittura. Ma legge anche Bloy, Proust, Tolstoj... E soprattutto si convince: non sarà un romanziere, bensì un teorico.
DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ (Avvenire, 29.10.2009)
E’ mai possibile dentro un’umida cella perduta in mezzo alla follia della guerra scoprire la profondità infinita del Volto? Nel caso di Emmanuel Lévinas, il grande filosofo di origine lituana e francese d’adozione, è proprio quello che potrebbe essere accaduto a partire dal giugno 1940. A fornire una prova a tratti eloquente di quest’ipotesi affascinante è la pubblicazione postuma dei taccuini del pensatore ebraico durante la prigionia.
Un autentico evento letterario, curato dal filosofo cattolico Jean-Luc Marion, con cui l’editore Grasset ha voluto inaugurare l’edizione dell’opera omnia del filosofo scomparso 14 anni fa. In quel tragico 1940, Lévinas ha 34 anni e non è più un semplice immigrato lituano, dato che Parigi gli ha appena concesso la naturalizzazione.
Con la sua prima opera pubblicata in Francia un decennio prima, Lévinas si era già fatto conoscere interpretando il pensiero di Husserl e Heidegger. Al punto che il libro venne consigliato da Raymond Aron a un certo giovane Jean-Paul Sartre. Ma, per quanto brillante, si trattava ancora di un’interpretazione della fenomenologia tedesca, più che di una filosofia autenticamente originale.
Poi verranno i 4 anni della prigionia ad Hannover, in Germania, dopo l’arresto a Rennes nel giugno 1940. Lévinas scompare dalla vita dei propri cari, presto inghiottiti in gran numero nel pozzo senza fondo della Shoah.
Ma laddove si sarebbe dovuta accentuare solo la disperazione, la sua vita prende invece una piega imprevedibile. Le condizioni di prigionia sono ben più che spartane. Però gli è consentito di leggere e scrivere. E fra una pagina letta e la seguente, le annotazioni che Lévinas comincia a consegnare in modo sempre più parossistico al proprio taccuino diventano il sismografo impressionante di uno sguardo filosofico che si allunga in fretta. Di un’anima che cresce soprattutto al contatto con il senso magmatico dell’Alleanza.
Finora molti interpreti di Lévinas si erano accorti che mancava almeno un tassello nella ricostruzione della genesi di un pensiero tanto fecondo, riversatosi negli anni della maturità in opere come Totalità e infinito. E adesso, la lettura completa dei Taccuini della cattività (pp. 512, euro 25) offre spesso l’impressione della scoperta di quella tessera mancante.
Nel 1966 Lévinas evocherà pubblicamente il senso acuto e lancinante dell’«ingiustificato privilegio di esser sopravvissuto a 6 milioni di morti». Ma quella riflessione prende proprio oggi un senso incomparabilmente più preciso. Perché gli anni della guerra furono appunto per il pensatore quelli di uno spaventoso iato: mentre «fuori« si spalancava per il popolo ebreo l’abisso inesorabile del genocidio, fra le mura della prigionia l’intellettuale scopriva gli abissi di luce delle proprie origini ebraiche. E risale probabilmente proprio agli anni di questo iato struggente, quella sensibilità per l’«incommensurabile » così acuta poi in tutta la futura produzione levinasiana.
Fra gli aspetti più sorprendenti rivelati dagli inediti vi sono anche le esitazioni interiori dell’intellettuale, a lungo convinto di aver trovato nella letteratura la propria vocazione più autentica, ma poi uscito dal carcere definitivamente filosofo. Come se l’invenzione narrativa non si addicesse più per lui a un mondo il cui volto era stato tanto sfigurato dagli orrori della guerra.
Come se, dietro quel volto sfigurato, occorresse definitivamente impegnarsi a ricercare di nuovo in fretta il Volto; quello più intimo e autentico della creatura come riflesso possibile di quello del Creatore. Negli anni del carcere, la progressiva evaporazione dell’iniziale vocazione letteraria maturò paradossalmente di lettura in lettura. Le Sacre Scritture gli permettono di assaporare fino al midollo «il sapore biblico dell’elezione ».
Ma a spalancargli l’anima è anche la scoperta febbrile del cristiano Léon Bloy, accanto a Proust o a grandi classici ottocenteschi come Anna Karenina, che susciterà in Lévinas riflessioni talora tanto fulminee da essere poi trascritte in frammenti enigmatici come questo: «Percepire l’animalità in ogni cosa. L’inautenticità, la menzogna, il favoreggiamento».
Altre volte, è il contesto del carcere, vissuto per lo più accanto ad altri prigionieri di origine ebraica, a tradursi in impressioni sconcertanti all’insegna del paradosso: «La mano sacrilega del carceriere poteva perquisire fin dentro le vostre lettere e come penetrare nell’intimità dei vostri ricordi. Ma abbiamo scoperto che di ciò non si moriva. Abbiamo appreso la differenza fra avere ed essere. Abbiamo appreso quante poche cose e poco spazio occorra per vivere. Abbiamo appreso la libertà».
Poi, un giorno, ai prigionieri giunge la notizia della Liberazione. E per un Lévinas ormai come «trasfigurato» quelle ore rappresentano un’esperienza mistica, oltre che storica. Scrive il filosofo che è il momento in cui «le preghiere della sera prendevano un altro senso.
Dopo tanti giri, esse raggiungevano il loro senso letterale. Sì, Dio ha amato Israele di un amore eterno ». E per sempre, una volta «fuori» dalle mura paradossalmente protettrici della prigione, Lévinas conserverà il ricordo di «questi istanti di meraviglia incomunicabile davanti alla verità di un testo al quale, in un solo slancio, l’Universo intero ha appena apportato conferma».
intervista
Nancy: non fu un «buonista» E nemmeno un sognatore
Sui «Carnets de captivité» di Emmanuel Lévinas uscirà prossimamente sulla rivista «Humanitas » (Morcelliana) un’intervista a Jean-Luc Nancy. Ne proponiamo uno stralcio.
DI FRANCESCA NODARI (Avvenire, 29.10.2009)
Jean-Luc Nancy è uno dei massimi pensatori viventi. Tra le sue numerose opere tradotte in italiano La comunità impersonale (Cronopio, 1992), Il mito nazi (Il melangolo, 1992), Essere singolare plurale (Einaudi, 2001), Noli me tangere. Saggio sul levarsi del corpo (Bollati Boringhieri, 2005), Indizi sul corpo (Ananke, 2009).
Professor Nancy, come si articola questo libro che esce a 14 anni dalla morte di Lévinas?
«Il libro si compone di ’Quaderni’ scritti da Lévinas durante la guerra, soprattutto durante la prigionia, e di un insieme di note e testi brevi del periodo immediatamente successivo. Contiene insieme tutto ciò che è legato alla guerra e quel che in quel periodo costituisce il cantiere filosofico di Lévinas».
In quale senso già nel diario di guerra si possono individuare «in nuce» i grandi temi della filosofia di pensatore ebreo lituano?
«Nei Quaderni si trova in modo molto evidente la forma aurorale dei più grandi temi: l’insufficienza dell’essere e la necessità dell’altro; l’affermazione che la filosofia resta monologica quando si deve instaurare un dialogo vero; la messa in questione della sufficienza del ’sé’ ; l’affermazione cardinale dell’infinito. Si vede parimenti l’importanza dell’eros - parola che era anche il titolo di un progetto di romanzo che Lévinas tentò di scrivere in quel periodo. Uno degli aspetti più sorprendenti dei Quaderni è, in effetti, un interesse molto grande per la letteratura - con numerosi riferimenti - e il desiderio di scrivere un romanzo con la messa in scena di temi filosofici».
Quale ruolo gioca nel dibattito contemporaneo la responsabilità assunta fino alla sostituzione, allo strapparsi il tozzo di pane dalla propria bocca, al «farsi ostaggio dell’Altro» cui Lévinas continuamente richiama?
«La dimensione molto forte, anche provocatrice - grazie alla parola ’ostaggio’ - introdotta da Lévinas ha aperto una dissimmetria essenziale: non è più possibile pensare né un ’soggetto’ e (dopo il ’riconoscimento’) un altro, né più soggetti, ma si di deve pensare un’incommensurabilità di principio tra l’’io’ e l’’altro’ - gli altri, quindi, come dico io. Ma il rischio che si corre sulla scia di questo pensiero presso i ’lévinasiani’ (come sempre accade quando si dà una specie di dottrina), è un distorcimento che considera anzitutto i valori oblativi, sacrificali, generosi e che conduce inavvertitamente a un moralismo dell’altruismo. Lévinas è molto più profondo, e lo è malgrado se stesso o malgrado la lettera dei suoi testi. Non si tratta di far passare l’altro davanti a me né di offrirmi al suo posto, ma di comprendere che la vera costituzione di un ’io’ passa per questa alterazione: addirittura un’alienazione in, attraverso e per gli altri. Si potrebbe dire - questo lo farebbe protestare! - che è un radicalizzazione di Hegel: un ’per sé’ si costituisce solo fuoriuscendo dal suo ’in sé’ ed essendo ’per/e attraverso l’altro’. Quel che dovrebbe essere preponderante, nel pensiero contemporaneo, non è ripetere una morale altruista, generosa, eccetera. Si tratta di comprendere che l’io - o la persona, perfino l’individuo -, la singolarità di un’esistenza non si genera che attraverso il ’fuori’ interminabile delle alterità. Non si tratta, ad esempio, di raccomandare l’accoglienza degli stranieri: si deve pensare che l’estraneità è dappertutto, che la mondializzazione porta a una potenza molto elevata questo mescolamento permanente e polimorfo dell’estraneo e del proprio - e che noi andiamo verso un tempo in cui queste nozioni stesse verranno ridefinite, trasformate. Non è moralmente che noi abbiamo bisogno degli altri: è ontologicamente».
Quali ricordi conserva di Lévinas, quali incontri o conversazioni le sono più cari?
«Non vi sono stati molti incontri, ma sono stati ogni volta molto vivaci, molto calorosi. Non ricordo tutto, ma non posso dimenticarmi del suo bel umore amichevole, tranquillo, e sorridente nel condividere un pasto quando temevo di non ricordare qualche osservanza della kasherut (cosa che non dovrebbe certo essere rivelata!). Mi ricordo anche di una conversazione durante un viaggio in macchina (con sua moglie) ove parlammo di Derrida e della rimarchevole forza dei suoi primi scritti. Ho ancora il ricordo molto divertente di un colloquio sulla psicoanalisi, quando parlava del sogno per dire che l’approccio freudiano gli restava estraneo ed evocare altri modi di accostarsi al sogno, come nella Bibbia. In seguito, in un corridoio, mi rivelò: ’Veramente il sogno mi tocca molto poco’. E più tardi nello stesso colloquio Philippe Lacoue-Labarthe ed io presentammo un testo che titolammo: ’Il popolo ebreo non sogna’».