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Pianeta Terra. "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (Michel Serres: Distacco, 1986)

ITALIA: GIORNO DELLA MEMORIA (LEGGE 211, 20 LUGLIO 2000). LAGER DI WIETZENDORF, 1944. Basilica di S. Ambrogio, Natale 2000: il Presepio degli Internati Militari Italiani. In memoria di Enzo Paci e a onore del Cardinale Martini. Una nota del prof. Federico La Sala

lunedì 8 settembre 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Uscire dai cerchi di filo spinato che delimitano dappertutto il nostro presente storico è la scommessa. Come fecero i militari italiani internati nel lager tedesco di Wietzendorf (cfr. il Presepio del lager - Natale 1944, ricostruito nella Basilica di sant’Ambrogio, a Milano, nel Natale 2000) e fece Enzo Paci, anch’egli in un[nello stesso, fls] lager tedesco nel 1944 (cfr. Nicodemo o della nascita, in Della Terra..., cit., pp. 120-125), oggi non possiamo che riaprire la mente e il (...)

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> LAGER DI WIETZENDORF, 1944. ---- {{E Lévinas in prigione divenne filosofo -- i «Taccuini della cattività» }}.

giovedì 29 ottobre 2009

E Lévinas in prigione divenne filosofo

Escono i «Taccuini della cattività» del pensatore lituano di origine ebraica: mentre per il suo popolo si spalanca il baratro della Shoah, l’intellettuale pur in carcere intuisce gli abissi di luce della Scrittura. Ma legge anche Bloy, Proust, Tolstoj... E soprattutto si convince: non sarà un romanziere, bensì un teorico.

DA PARIGI DANIELE ZAPPALÀ (Avvenire, 29.10.2009)

E’ mai possibile dentro un’u­mida cella perduta in mezzo alla follia della guerra sco­prire la profondità infinita del Volto? Nel caso di Emmanuel Lé­vinas, il grande filosofo di origine lituana e francese d’adozione, è proprio quello che potrebbe esse­re accaduto a partire dal giugno 1940. A fornire una prova a tratti eloquente di quest’ipotesi affasci­nante è la pubblicazione postu­ma dei taccuini del pensatore e­braico durante la prigionia.

Un autentico evento letterario, cura­to dal filosofo cattolico Jean-Luc Marion, con cui l’editore Grasset ha voluto inaugurare l’edizione dell’opera omnia del filosofo scomparso 14 anni fa. In quel tra­gico 1940, Lévinas ha 34 anni e non è più un semplice immigrato lituano, dato che Parigi gli ha ap­pena concesso la naturalizzazio­ne.

Con la sua prima opera pub­blicata in Francia un decennio prima, Lévinas si era già fatto co­noscere interpretando il pensiero di Husserl e Heidegger. Al punto che il libro venne consigliato da Raymond Aron a un certo giovane Jean-Paul Sartre. Ma, per quanto brillante, si trattava anco­ra di un’interpretazione della fenomenologia tedesca, più che di una filosofia autenticamente ori­ginale.

Poi verranno i 4 anni della prigionia ad Hannover, in Germa­nia, dopo l’arresto a Rennes nel giugno 1940. Lévinas scompare dalla vita dei propri cari, presto inghiottiti in gran numero nel pozzo senza fondo della Shoah.

Ma laddove si sarebbe dovuta ac­centuare solo la disperazione, la sua vita prende invece una piega imprevedibile. Le condizioni di prigionia sono ben più che spar­tane. Però gli è consentito di leg­gere e scrivere. E fra una pagina letta e la seguente, le annotazioni che Lévinas comincia a conse­gnare in modo sempre più paros­sistico al proprio taccuino diven­tano il sismografo impressionan­te di uno sguardo filosofico che si allunga in fretta. Di un’anima che cresce soprattutto al contatto con il senso magmatico dell’Alleanza.

Finora molti interpreti di Lévinas si erano accorti che mancava al­meno un tassello nella ricostru­zione della genesi di un pensiero tanto fecondo, riversatosi negli anni della maturità in opere co­me Totalità e infinito. E adesso, la lettura completa dei Taccuini del­la cattività (pp. 512, euro 25) offre spesso l’impressione della sco­perta di quella tessera mancante.

Nel 1966 Lévinas evocherà pub­blicamente il senso acuto e lanci­nante dell’«ingiustificato privile­gio di esser sopravvissuto a 6 mi­lioni di morti». Ma quella rifles­sione prende proprio oggi un senso incomparabilmente più preciso. Perché gli anni della guerra furono appunto per il pensatore quelli di uno spaven­to­so iato: mentre «fuori« si spalan­cava per il popolo ebreo l’abisso inesorabile del genocidio, fra le mura della prigionia l’intellettua­le scopriva gli abissi di luce delle proprie origini ebraiche. E risale probabilmente proprio agli anni di questo iato struggente, quella sensibilità per l’«incommensura­bile » così acuta poi in tutta la fu­tura produzione levinasiana.

Fra gli aspetti più sorpren­denti rivelati dagli inediti vi sono anche le esitazioni in­teriori dell’intellettuale, a lungo convinto di aver trovato nella let­teratura la propria vocazione più autentica, ma poi uscito dal car­cere definitivamente filosofo. Co­me se l’invenzione narrativa non si addicesse più per lui a un mon­do il cui volto era stato tanto sfi­gurato dagli orrori della guerra.

Come se, dietro quel volto sfigu­rato, occorresse definitivamente impegnarsi a ricercare di nuovo in fretta il Volto; quello più intimo e autentico della creatura come riflesso possibile di quello del Creatore. Negli anni del carcere, la progressiva evaporazione dell’iniziale vocazione letteraria ma­turò paradossalmente di lettura in lettura. Le Sacre Scritture gli permettono di assaporare fino al midollo «il sapore biblico dell’ele­zione ».

Ma a spalancargli l’anima è anche la scoperta febbrile del cristiano Léon Bloy, accanto a Proust o a grandi classici ottocen­teschi come Anna Karenina, che susciterà in Lévinas riflessioni ta­lora tanto fulminee da essere poi trascritte in frammenti enigmati­ci come questo: «Percepire l’ani­malità in ogni cosa. L’inautenticità, la menzogna, il favoreggia­mento».

Altre volte, è il contesto del carcere, vissuto per lo più ac­canto ad altri prigionieri di origi­ne ebraica, a tradursi in impres­sioni sconcertanti all’insegna del paradosso: «La mano sacrilega del carceriere poteva perquisire fin dentro le vostre lettere e come penetrare nell’intimità dei vostri ricordi. Ma abbiamo scoperto che di ciò non si moriva. Abbia­mo appreso la differenza fra ave­re ed essere. Abbiamo appreso quante poche cose e poco spazio occorra per vivere. Abbiamo ap­preso la libertà».

Poi, un giorno, ai prigionieri giunge la notizia della Liberazione. E per un Lévi­nas ormai come «trasfigurato» quelle ore rappresentano un’esperienza mistica, oltre che stori­ca. Scrive il filosofo che è il mo­mento in cui «le preghiere della sera prendevano un altro senso.

Dopo tanti giri, esse raggiungeva­no il loro senso letterale. Sì, Dio ha amato Israele di un amore e­terno ». E per sempre, una volta «fuori» dalle mura paradossal­mente protettrici della prigione, Lévinas conserverà il ricordo di «questi istanti di meraviglia inco­municabile davanti alla verità di un testo al quale, in un solo slan­cio, l’Universo intero ha appena apportato conferma».


intervista

Nancy: non fu un «buonista» E nemmeno un sognatore

Sui «Carnets de captivité» di Em­manuel Lévinas uscirà prossi­mamente sulla rivista «Huma­nitas » (Morcelliana) un’intervi­sta a Jean-Luc Nancy. Ne propo­niamo uno stralcio.

DI FRANCESCA NODARI (Avvenire, 29.10.2009)

Jean-Luc Nancy è uno dei massimi pensatori viventi. Tra le sue numerose opere tradotte in italiano La comu­nità impersonale (Cronopio, 1992), Il mito nazi (Il melango­lo, 1992), Essere singolare plura­le (Einaudi, 2001), Noli me tan­gere. Saggio sul levarsi del corpo (Bollati Boringhieri, 2005), Indi­zi sul corpo (Ananke, 2009).

Professor Nancy, come si arti­cola questo libro che esce a 14 anni dalla morte di Lévinas?

«Il libro si compone di ’Quader­ni’ scritti da Lévinas durante la guerra, soprattutto durante la prigionia, e di un insieme di no­te e testi brevi del periodo im­mediatamente successivo. Con­tiene insieme tutto ciò che è le­gato alla guerra e quel che in quel periodo costituisce il cantiere fi­losofico di Lévi­nas».

In quale senso già nel diario di guerra si posso­no individuare «in nuce» i gran­di temi della fi­losofia di pensatore ebreo litua­no?

«Nei Quaderni si trova in modo molto evidente la forma aurora­le dei più grandi temi: l’insuffi­cienza dell’essere e la necessità dell’altro; l’affermazione che la filosofia resta monologica quan­do si deve instaurare un dialogo vero; la messa in questione del­la sufficienza del ’sé’ ; l’affer­mazione cardinale dell’infinito. Si vede parimenti l’importanza dell’eros - parola che era anche il titolo di un progetto di romanzo che Lévinas tentò di scri­vere in quel periodo. Uno degli aspetti più sorprendenti dei Quaderni è, in effetti, un inte­resse molto grande per la lette­ratura - con numerosi riferi­menti - e il desiderio di scrivere un romanzo con la messa in sce­na di temi filosofici».

Quale ruolo gioca nel dibattito contemporaneo la responsabi­lità assunta fino alla sostituzio­ne, allo strapparsi il tozzo di pa­ne dalla propria bocca, al «farsi ostaggio dell’Altro» cui Lévinas continuamente richiama?

«La dimensione molto forte, an­che provocatrice - grazie alla pa­rola ’ostaggio’ - introdotta da Lévinas ha aperto una dissim­metria essenziale: non è più pos­sibile pensare né un ’soggetto’ e (dopo il ’riconoscimento’) un altro, né più soggetti, ma si di de­ve pensare un’incommensurabilità di principio tra l’’io’ e l’’altro’ - gli altri, quindi, come dico io. Ma il rischio che si corre sul­la scia di questo pensiero pres­so i ’lévinasiani’ (come sempre accade quando si dà una specie di dottrina), è un distorcimento che considera anzitutto i valori oblativi, sacrificali, generosi e che conduce inavvertitamente a un moralismo dell’altruismo. Lévinas è molto più profondo, e lo è malgrado se stesso o mal­grado la lettera dei suoi testi. Non si tratta di far passare l’altro da­vanti a me né di offrirmi al suo posto, ma di comprendere che la vera costituzione di un ’io’ passa per questa alterazione: ad­dirittura un’alienazione in, at­traverso e per gli altri. Si potrebbe dire - questo lo farebbe pro­testare! - che è un radicalizza­zione di Hegel: un ’per sé’ si co­stituisce solo fuoriuscendo dal suo ’in sé’ ed essendo ’per/e attraverso l’altro’. Quel che do­vrebbe essere preponderante, nel pensiero contemporaneo, non è ripetere una morale al­truista, generosa, eccetera. Si tratta di comprendere che l’io - o la persona, perfino l’individuo -, la singolarità di un’esistenza non si genera che attraverso il ’fuori’ intermi­nabile delle alte­rità. Non si trat­ta, ad esempio, di raccomanda­re l’accoglienza degli stranieri: si deve pensare che l’estraneità è dappertutto, che la mondializzazione porta a u­na potenza molto elevata que­sto mescolamento permanente e polimorfo dell’estraneo e del proprio - e che noi andiamo ver­so un tempo in cui queste no­zioni stesse verranno ridefinite, trasformate. Non è moralmente che noi abbiamo bisogno degli altri: è ontologicamente».

Quali ricordi conserva di Lévi­nas, quali incontri o conversa­zioni le sono più cari?

«Non vi sono stati molti incon­tri, ma sono stati ogni volta mol­to vivaci, molto calorosi. Non ri­cordo tutto, ma non posso di­menticarmi del suo bel umore amichevole, tranquillo, e sorri­dente nel condividere un pasto quando temevo di non ricorda­re qualche osservanza della kasherut (cosa che non dovrebbe certo essere rivelata!). Mi ricor­do anche di una conversazione durante un viaggio in macchina (con sua moglie) ove parlammo di Derrida e della rimarchevole forza dei suoi primi scritti. Ho ancora il ricordo molto diver­tente di un colloquio sulla psi­coanalisi, quando parlava del so­gno per dire che l’approccio freudiano gli restava estraneo ed evocare altri modi di accostarsi al sogno, come nella Bibbia. In seguito, in un corridoio, mi ri­velò: ’Veramente il sogno mi toc­ca molto poco’. E più tardi nel­lo stesso colloquio Philippe La­coue-Labarthe ed io presen­tammo un testo che titolammo: ’Il popolo ebreo non sogna’».


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