IL CASO. Si chiama "Anno Zero" e si basa su un famoso testo teatrale dell’autore francese scritto nel lager: la vita rinasce dalle macerie
Sartre e il Messia: l’altro film sull’Aquila
Alcune scene sono state girate nella Basilica di Collemaggio.
Regista e protagonista è Nilo Vallone: la tragedia del terremoto è rivissuta ridando spazio alla speranza
DALL’AQUILA ANDREINA SIRENA (Avvenire, 11.05.2010)
Il terremoto aquilano sembra ispirare recentemente più di una cinepresa. Mentre sta per affollare le sale Draquila con l’obiettivo puntato sulla classe politica e sul suo presunto ’vampiraggio’ verso i terremotati,
Anno Zero di Milo Vallone affronta la tragedia dell’Aquila da un punto di vista originale e spiritualmente intenso. Il film prende le mosse dal testo teatrale di Sartre, Bariona o figlio del tuono, elaborato durante il periodo di detenzione del filosofo nel campo di concentramento di Treviri nel ’40, durante l’occupazione tedesca della Francia. Scritto sulla spinta di alcuni cattolici prigionieri con lui nel campo, è ritenuto uno dei testi letterari più alti sulla Natività. Attraverso la storia di Bariona, il regista abruzzese ha voluto analizzare la fenomenologia della catastrofe nell’animo umano.
Bethaur è un misero villaggio della Giudea, vicino Betlemme. Il governo romano ha appena deciso di aumentare le imposte a sedici dracme segnandone la definitiva rovina. Bariona, capo di questa esigua comunità, esasperato dalle richieste del governo oppressore, invita il popolo all’autoestinzione attraverso la sterilità, imponendo l’aborto persino a sua moglie. Mettere al mondo bambini vorrebbe dire infatti perpetuare schiavitù per il nemico politico.
Nella pellicola Bariona (interpretato magistralmente dallo stesso Milo Vallone) inasprisce il proprio dolore tramutandolo in odio e rimorso. Ieratico e inflessibile nel suo scetticismo, tradisce uno sguardo pieno di un mistero che non vede risposta, come chi custodisce una verità che fatica a tornare a galla.
Siamo nell’anno zero, il giorno prima della nascita di Cristo. Accanto al villaggio sta per accadere qualcosa che cambierà il corso della storia. Una scena raccoglie alcuni pastori attorno al fuoco che raccontano di strani odori nell’aria. Odori di germogli come un’imminente celebrazione di primavera. E’ il sentore di una rinascita in pieno inverno. Mentre si attende la fine giurando di non procreare, un avvenimento è nell’aria ma, ostinatamente, Bariona sceglie di non riconoscerne i segni. Non chiederà grazia, non si piegherà, la sua dignità andrà a convergere nell’odio perché «contro un uomo libero Dio non può nulla» e «il Messia non verrà mai poichè la vita è una caduta interminabile dove precipitiamo in un’infame vecchiezza».
Ma il film, pertinente al testo, non suggella il trionfo di questo stato d’animo e dice a tutti che una rinascita è possibile. L’incontro col re magio Baldassarre e lo sguardo di Giuseppe verso suo figlio apriranno il cuore di Bariona ad un’insolita opzione fino a portarlo al sacrificio di se stesso in nome di una promessa più grande della rivolta. Un tortuoso cammino interiore conduce dunque il protagonista da un’ostinata negazione di un senso alla domanda sulla speranza, fino all’inaspettato miracolo della fede, lasciato coincidere col giorno della nascita di Cristo. La minaccia della distruzione fisica e morale non diventa vittimismo, non sfocia nella rivolta o nella rassegnazione.
Il prologo e l’epilogo della pellicola, affidati ad Edoardo Siravo, sono stati girati nella Basilica di Collemaggio, nel capoluogo abruzzese. La fede non a caso risorge tra le rovine e le macerie di un popolo, a ricordare che l’uomo non è la sua sofferenza e la sua dignità non consiste nella disperazione. Milo Vallone, ispirato dal testo di Sartre, decide di non attardarsi sul terrore e sull’odio che una catastrofe porta con sé. Lascia alle spalle le rivendicazioni politiche per assegnare un senso più alto alle vicende umane. La vicinanza ossessiva della macchina da presa sui piedi scalzi e sugli sguardi rivela la volontà di un procedere nel cammino, di un monito a non fermarsi. Il gran teatro del mondo ferito da una catastrofe così immane diviene così luogo in cui riflettere sull’uomo e concedere l’infrazione alla speranza.
Il film del regista abruzzese, in bianco e nero, ricorda il cinema nordico di Dreyer (la disperazione della morte e l’inaspettato miracolo di Ordet ). C’è dentro l’angoscia kafkiana e l’alienazione dell’individuo tanto cara a Bergman, con una certa fissità ed espressività di sguardo che evocano invece il Vangelo pasoliniano. I volti (sia quelli delle comparse popolari che degli attori professionisti abruzzesi) sono convincenti. La bellezza è quella degli occhi e dei segni e non delle chirurgie estetiche. Il budget scarno e l’apparente semplicità di ripresa vanno a favore della forza evocativa del testo e della grandezza del contenuto. Il film, che uscirà a breve in dvd, sta girando in Italia con una distribuzione non convenzionale, in una sorta di tournée presentata del regista stesso.