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"L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!! LEA MELANDRI E GLI ANELLI MANCANTI NELLA DISCUSSIONE SULL’ABORTO - a cura di Federico La Sala

LA "SACRA FAMIGLIA" DELLA GERARCHIA CATTOLICO-ROMANA E’ ZOPPA E CIECA: IL FIGLIO HA PRESO IL POSTO DEL PADRE GIUSEPPE E DELLO STESSO "PADRE NOSTRO" ... E CONTINUA A "GIRARE" IL SUO FILM PREFERITO, "IL PADRINO"!!!
sabato 16 febbraio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] L’immaginario che cancella il rapporto uomo-donna, sovrapponendogli la coppia madre-figlio, deve essere una delle invarianti piu’ coriacee della cultura maschile, se puo’ accostare senza turbamento l’iconografia cattolica delle Vergini Madri con Bambino allo scenario "irriverente" delle biotecnologie, che trasferisce lo status di essere umano su un "fatto scientifico", isolato in laboratorio - lo zigote -, mentre, come va ripetendo Barbara Duden, trasforma la donna nell’"ambiente (...)

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> "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": L’ALLEANZA CATTOLICO-"EDIPICA" DEL FIGLIO CON LA MADRE!!! --- Perché il femminismo non «sfonda» adesso che potrebbe? (di Lea Melandri).

lunedì 10 novembre 2008

Perché il femminismo non «sfonda» adesso che potrebbe?

di LEA MELANDRI *

Perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata? Che difficoltà abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così ‘povere’ pur possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile per capire i rivolgimenti in atto nel presente?

Qualche giorno fa, per il decennale dell’Università Bicocca di Milano, sono stata invitata a parlare di «Democrazia di genere e processi formativi». Il tema in discussione richiama quello di una serie di seminari, che si sono tenuti tra Milano e Roma, a partire dall’inizio del 2000, dal titolo: «L’eredità del femminismo di fronte agli interrogativi del presente».

Evidentemente è un dubbio che periodicamente ci attraversa e a cui stentiamo a dare una risposta: come mai la cultura politica prodotta dalle donne, in un percorso di riflessione ormai più che trentennale, non ha la visibilità e l’incisività che ci aspetteremmo, soprattutto se si tiene conto che alcune delle tematiche su cui si è mossa sono oggi al centro della vita pubblica.

Penso alla crisi della politica, che oggi tocca il suo stesso atto fondativo -la divisione sessuale del lavoro, la scissione tra corpo e linguaggio, individuo e società -, la preminenza che hanno assunto il corpo, la sessualità, la salute, il nascere e il morire, la violenza maschile contro le donne, il rapporto col diverso, vicende essenziali dell’umano su cui oggi intervengono pesantemente i massimi poteri della vita pubblica: Stato, Chiesa, scienza, mercato, media.

Se è vero che la pacifica ‘rivoluzione femminista’ è l’unica sopravissuta alla fine degli anni ’70, l’unica che abbia avuto continuità in una vasta proliferazione di gruppi, associazioni, centri culturali e politici, è anche vero che è la più silenziosa, oscillante tra brevi comparse e altrettanto rapide sparizioni. Il pensiero e l’azione politica del movimento delle donne sembra aver perso estensione e radicalità proprio quando è il contesto storico in cui viviamo a richiederla. Un antidoto al populismo, al trionfo dell’antipolitica, al risveglio del fondamentalismo religioso, potrebbero essere proprio quella ‘politica della vita’ che discende dalle pratiche e dai saperi degli anni ’70.

La domanda che viene da porsi allora è questa: perché il femminismo non è riuscito a generalizzare la sua cultura, che riguarda uomini e donne, sfera pubblica e sfera privata? Che difficoltà abbiamo incontrato e incontriamo per sentirci oggi così ‘povere’ pur possedendo un sapere prezioso, uno sguardo sul mondo indispensabile per capire i rivolgimenti in atto nel presente?

Faccio un passo indietro e parto da una osservazione elementare: la donna, esclusa dalle responsabilità della vita pubblica, dallo statuto stesso di “umano”, identificata col corpo, la natura, la funzione sessuale e riproduttiva, è stata da sempre ‘oggetto’ del sapere. Sono stati i saperi, oltre che i poteri, della comunità storica degli uomini a definire che cosa è “femminile”, a esercitare, più o meno direttamente, sui corpi, sulla vita psichica e intellettuale delle donne, controllo, imperio, sfruttamento, violenza o, al contrario, esaltazione immaginaria.

Attraverso i saperi passa la violenza manifesta di un dominio, ma anche e soprattutto quella violenza più insidiosa, perché ‘invisibile’, che è l’interiorizzazione di un’immagine di sé dettata da altri: un modo di pensarsi, di sentire, di essere, che fa propria la lingua e la visione del mondo dell’altro. Quando esclude le donne dal ‘contratto sociale’, quando descrive l’educazione della femmina, destinata a vivere “in funzione degli uomini”, “piacere e rendersi utile a loro”, Rousseau, il padre della democrazia moderna, sa di poter contare sul sentire comune delle donne, un sentire fatto di adattamenti, resistenze, ma anche strategie di sopravvivenza - come il potere che viene dal rendersi indispensabili all’altro, l’uso sapiente di potenti attrattive, come la maternità e la seduzione.

Uscire da questa pesante eredità storica ha comportato, per le donne, un doppio ‘scarto’: smascherare la falsa ‘neutralità’ dei saperi creati dal sesso maschile, ma anche sradicare quella che Sibilla Aleramo, già all’inizio del ‘900, chiamava “una rappresentazione del mondo aprioristicamente ammessa e poi compresa per virtù di analisi”.

L’analisi che Aleramo affronterà in solitudine, attraverso un processo continuo di ‘svelamento’ e costruzione dell’ “autonomia dell’essere femminile” , è diventata poi nel femminismo degli anni ’70 la “pratica dell’autocoscienza”: un modo di procedere originalissimo, che tiene insieme scavo in profondità, modificazione di equilibri psichici profondi (“presa di coscienza”), e costruzione di sé come individualità che si pone per la prima volta nella sua interezza: corpo pensante, o pensiero incarnato, sessuato.

Quello che avviene negli anni ’70, dunque, non è solo l’ingresso massiccio delle donne nella vita pubblica - lavoro extradomestico, istruzione, urbanizzazione, impegno politico, ecc. - , e neppure solo la nascita di una soggettività femminile singolare e plurale.

E’ una rivoluzione (pacifica) che va alle radici dell’umano, riportando alla storia quanto di umano è stato ‘naturalizzato’, sottratto perciò a possibili cambiamenti, una ridefinizione del confine tra privato e pubblico, che sovverte l’atto fondativo stesso della politica, che interroga tutte le costruzioni storiche della civiltà dell’uomo a partire dal pensiero che le sorregge: un pensiero che si è strappato dalle sue radici biologiche e che su questa scissione originaria ha costruito tutte le dualità che conosciamo. Prima fra tutte, quella tra i ruoli del maschio e della femmina.

Quella che si profila, attraverso una inedita coscienza e parola femminile, è un’idea diversa di cultura, di storia, di democrazia, di libertà, di politica. Non si tratta di un ‘sapere’ che si aggiunge ad altri, un’iniezione vitale di conoscenza, che va ad integrare, o “fecondare la sterile civiltà dell’uomo” -secondo l’idea di complementarietà che ha accompagnato l’emancipazione di inizio ‘900-, ma di un processo formativo e cognitivo che ha osato addentrarsi nelle “acque insondate delle persona” , in una “materia segreta, imparentata con l’inconscio”, e che da lì, da quelle “lande deserte”, da quella ‘preistoria’ pietrificata, ha cominciato a guardare con occhi diversi la storia, a sovvertire l’ordine esistente.

“Che cosa avverrà delle istituzioni quando si accorgeranno di essere funzionalizzate a un sesso solo?” (Rossana Rossanda, Le altre, Feltrinelli 1979). E’ con questa domanda che il femminismo tentò allora di costruire un proprio “lessico politico”, ridefinendo parole già in uso -democrazia, uguaglianza, libertà, organizzazione, ecc.-, e introducendone delle nuove, frammenti di una teorizzazione che aveva come punto di partenza e di analisi il ‘sé’, rivisitato attraverso la pratica dell’autocoscienza (Lessico politico delle donne, a cura di Manuela Fraire e Biancamaria Frabotta (1978), ristampato da Fondazione Badaracco-Franco Angeli 2002).

La cultura femminista degli anni ‘70 rappresenta un eccezionale equilibrio tra un sapere inteso come processo formativo - aderenza alla memoria del corpo, all’immaginario sessuale, all’esperienza particolare di ognuna- , e, al medesimo tempo, come tensione trasformativa del mondo, quale si espresse allora nelle battaglie per il divorzio, l’aborto, il diritto di famiglia, la violenza sessuale.

Si potrebbe anche dire che mobilitazioni per i diritti e pratiche di liberazione erano tra loro intersecati: non si voleva che restassero “un pezzo di riforma” isolata dalla messa in discussione della sessualità e dalla cultura dominante maschile. Quello che si stava abbozzando era un sapere che, partendo dalla costruzione di sé, si andava a collocare, con una forte conflittualità, sul confine tra sfera pubblica e privata, che si richiamava al corpo, alla sessualità, alla salute fisica e psichica, consapevole dei segni che la civiltà dell’uomo vi ha lasciato sopra. Era una sfida che le istituzioni non potevano reggere, e che perciò hanno ostacolato e in alcuni casi osteggiato.

Era, come capì lucidamente Rossana Rossanda, “una critica vera, e perciò unilaterale, antagonista, negatrice della cultura altra. Non la completa ma la mette in causa”.

Le difficoltà che il sapere prodotto in quel decennio incontra nel riattraversare le costruzioni storiche, nascono dunque dalla radicalità dell’assunto iniziale: un soggetto politico imprevisto e anomalo, quale era la soggettività femminile, collettiva e insieme rispettosa della singolarità, una ‘presa di parola’ che denunciava, non svantaggi o discriminazioni sociali, ma una “espropriazione di esistenza”, a partire dal destino toccato alla sessualità femminile, identificata con la procreazione e quindi cancellata come tale -da cui il ruolo ‘naturale’ di madre, la dedizione all’uomo, il sacrificio di sé.

Era una affermazione di ‘libertà’ che si poneva però come lento processo di ‘liberazione’ dalle tante ‘illibertà’ interiorizzate: nel vissuto amoroso, nelle relazioni famigliari, nei rapporti di lavoro, nella malattia, nella follia, nell’assuefazione alla violenza quotidiana. Con l’autocoscienza, il processo conoscitivo si spostava in prossimità del corpo, della memoria che vi si è depositata sopra. Alle generalizzazioni della politica, opponeva il “partire da sé”. “Il blocco -scrisse Carla Lonzi- va forzato una per una, passaggio necessario per la nascita della propria individualità”.

Ma questo processo, che interessa la singola, aveva bisogno di un “accostamento di vissuti di ognuna”, della presenza fisica delle altre, del separatismo, cioè di relazioni tra donne fuori dallo sguardo maschile. “Il sapere sull’autocoscienza non può sostituire la formazione che avviene praticandola” (M.Fraire).

La soggettività femminile nasce in questa particolare relazione tra simili e, in questo senso, l’autocoscienza non è la pratica di una fase storica, non è “a termine”, come si legge nella ricostruzione che la Libreria delle donne di Milano ha fatto di quegli anni (Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, 1987).

Insieme al suo portato teorico, è la forma che ha preso il discorso femminile sul corpo, sulla sessualità e che non poteva non fare i conti con la psicanalisi. La sua durata va messa in relazione col fatto che la sessualità non appartiene a questa o a quell’epoca in particolare, non è solo una componente della vita personale, ma una struttura portante della società in tutti i suoi aspetti. Sono d’accordo perciò con Manuela Fraire quando scrive che è stato “uno strumento abbandonato precocemente”, e che i suoi frutti maturi sono stati in parte raccolti da certe scritture che ne conservano traccia. Il riferimento è, in particolare, al gruppo milanese “sessualità e scrittura” (A zig zag, numero speciale, 1978), alle scritture di esperienza dei corsi delle donne (Associazione per una Libera Università di Milano), alla rivista “Lapis. Percorsi della riflessione femminile” (1987-1997).

Difficoltà e ostacoli cominciano a nascere quando il femminismo si estende fuori dai piccoli gruppi di autocoscienza, dai collettivi cittadini, e a entrare negli ambiti istituzionali della cultura e della politica, quando “dal movimento femminista” si passa al “femminismo diffuso”. Se l’allargamento era augurabile, evidenti furono anche da subito i rischi che comportava: “Un’operazione massiccia di esproprio e ridefinizione del patrimonio prodotto dalle donne, da parte di ambiti istituzionali della politica e della cultura” (Marina Zancan)

Al convegno di Modena sugli “Studi femministi in Italia” (1987), si profilano due orientamenti: uno che vuole tutelare “spazi di autonomia e di autogestione, all’interno dell’università, attivare momento di autoriflessione sulla presenza in quel luogo, definire diversi paradigmi scientifici”, “decostruire le discipline con pezzi di sapere esterni ad esse”; in altre parole, mantenere un “pendolarismo tra dentro e fuori l’Università” (Raffaella Lamberti).

L’altro, proposto da Luisa Muraro, mira invece a fondare un soggetto forte, una “tradizione” di donne, che come tale ha bisogno di una “autorità” e di un “linguaggio”, di un “ordine simbolico” su cui fondarsi. Nella costruzione identitaria di una “differenza femminile” con cui affrontare la vita pubblica, sparisce l’attenzione al corpo, al sé, al vissuto personale, e anche il sapere che ne discende porta i segni di una posizione essenzialistica, rassicurante e destinata ad avere molto seguito, proprio perché sembra portare fuori dalla lentezza e dalle secche delle pratiche di ‘liberazione’.

Rispetto a queste due posizioni, la rivista “Lapis” ha rappresentato un percorso a parte, critico rispetto al “pensiero della differenza”, ma anche rispetto al proliferare di “studi di genere” in ambiti accademici. L’intento che muove la redazione è quella di dare continuità e sviluppo alla pratica con cui era nato il femminismo: ricerca di “nessi” tra politica e vita, tra il sapere di sè e i “cento ordini del discorso” di cui pure siamo imbevute; un’autocoscienza capace di interrogare saperi e poteri della vita pubblica; una “geografia, non una genealogia”, un sapere che non teme di addentrarsi in “paesaggi inquinati”, di scandagliare il rapporto uomo-donna in tutta la sua complessità e contraddittorietà.

Ma torniamo all’oggi, alla domanda su come possa contribuire il sapere delle donne alla costruzione di una “democrazia di genere”. Io penso che la cultura prodotta dal femminismo -quella che ha mantenuto un’attenzione al corpo, alla storia personale, al rapporto tra individuo e società- abbia oggi una parte importantissima, non tanto nel dare risposte quanto nel porre interrogativi al contesto in cui viviamo, in modo meno semplicistico di quanto non si faccia di solito, quando si liquida tutto come “barbarie”, “irrazionalità”, “regressione”.

Il femminismo, se resiste alla tentazione di restringersi a “questione femminile” - uscita dalla marginalità, riequilibrio della rappresentanza, politiche sociali e famigliari, ecc.-, ha molto da dire, non solo su questioni specifiche, come la procreazione medicalmente assistita, i consultori, la violenza maschile contro le donne, ma su fenomeni che investono tutta la società: la crisi dei partiti, il trionfo dell’antipolitica, il populismo, le politiche sicuritarie, la xenofobia, la crisi della famiglia, le battaglie per i diritti civili, le biotecnologie.

Questo comporta, da un lato, recuperare la radicalità dello sguardo, del punto di vista che ha caratterizzato il femminismo ai suoi inizi -quello che ha visto nel rapporto tra i sessi l’impianto originario di ogni dualismo-, dall’altro prendere atto che le problematiche del corpo, e tutto ciò che è stato considerato “non politico”, sono oggi al centro della vita pubblica, sia pure sotto etichette che ne occultano il significato politico -ad esempio “questioni eticamente sensibili”, “problemi di coscienza”. Purtroppo lo sono in modo molto diverso da come ce lo prospettavamo. Sono temi che rimandano a vissuti, esperienze umane tra le più significative, ma che non riusciamo quasi più, non solo a ‘raccontare’, ma a ‘vivere’ come tali, tanto sono intersecate, confuse coi poteri e i linguaggi della sfera pubblica.

Noi volevamo trovare “nessi” tra poli apparentemente opposti, oggi ci troviamo di fronte a un amalgama, in cui privato e pubblico, casa e città, azienda e Stato, sembrano divorarsi a vicenda. Sotto questo profilo si può leggere anche il protagonismo femminile: un esempio inequivocabile è Sarah Palin, un ibrido perfetto di tratti virili e femminili tradizionali. Sempre più spesso è il discorso pubblico a prevalere: non parliamo più di maternità e di aborto, ma di Legge 40 o Legge 194. Altre volte invece sono la vita e le relazioni personali a prevalere: è il quotidiano, la casalinghità, ad assorbire e stemprare dentro il ‘senso comune’ le istituzioni della sfera pubblica.

Per tentare di sciogliere questo agglutinamento pericoloso, di cui si alimenta il populismo, bisogna tornare a interrogare l’esperienza, sapendo che oggi non è più pensabile al di fuori dei vincoli che la imparentano con saperi e poteri istituzionali. Per riappropiarsene occorre un sapere di sé capace perciò di confrontarsi con tutti i saperi specialistici elaborati dalle donne, i quali, a loro volta, devono lasciarsi contaminare, modificare, da quei “barlumi di sapere che vengono dalla lenta modificazione di sé” (A zig zag, 1978).

Bisogna, in altre parole, imparare quello che Laura Kreyder, redattrice della rivista “Lapis”, chiama “un salvifico bilinguismo”: “il ragionare con la memoria profonda di sé, la lingua intima dell’infanzia e, contemporaneamente, con le parole di fuori, i linguaggi della vita sociale, del lavoro, delle istituzioni” (Lapis. Sezione aurea di una rivista, Manifestolibri 1998)

Ma si tratta anche di saper affrontare la conflittualità che questo sapere inedito apre in tutti i luoghi in cui le donne sono presenti

-  Lea Melandri
-  (www.liberazione.it)


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