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In principio era il Logos. Memoria della Libertà e della Liberazione...

DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA E DI PARLARE DA CITTADINO SOVRANO. Pubblicato in Francia «Le gouvernement de soi et des autres» di Michel Foucault (il volume sul corso tenuto nel 1983 al Collège de France). Riflessioni di Roberto Ciccarelli e di Alessandro Dal Lago - a cura di Federico La Sala

giovedì 21 febbraio 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] genealogia della democrazia a partire dall’evento archeologico della presa di parola contrasta con l’idea, ormai dominante, che la virtù democratica per eccellenza sia la decisione. A questa visione oligarchica della democrazia (la decisione è sempre quella di una classe dirigente), Foucault contrappone l’idea che una democrazia esiste a partire dalla differenza introdotta dalla presa di parola. Anche la filosofia moderna, fino al Sapere aude! di Kant, rifiuta le autorità costituite (...)

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> DEMOCRAZIA: ABBI IL CORAGGIO DI PRENDERE LA PAROLA --- «Voglio sapere di cosa si tratta». Sull’esperienza morale della sessualità, l’ultima intervista (1984) di Michel Foucault

sabato 27 giugno 2015

«Voglio sapere di cosa si tratta». Sull’esperienza morale della sessualità, l’ultima intervista di Michel Foucault

Di Redazione LC 25 giugno 2014 *

      • È il 29 maggio del 1984 ed è appena stato pubblicato il secondo dei volumi della “Storia della sessualità” di Michel Foucault, “L’uso dei piaceri”; a distanza di qualche mese verrà dato alle stampe anche il terzo e ultimo di quei volumi, “La cura di sé”.
        -  Sono gli ultimi giorni di vita del filosofo francese: a pochi giorni dal ricovero, e dalla morte, avvenuta il 25 giugno, a 57 anni, Michel Foucault rilascia la sua ultima intervista ad André Scala e Gilles Barbedette. Un’intervista a tratti rapsodica, in cui viene sollecitato a discutere di alcune questioni connesse al libro appena pubblicato, così come della sua attività di ricerca, in generale. Nella consapevolezza di non fare in tempo a leggerla, Foucault affiderà poi al compagno, Daniel Defert, il compito di farlo per lui.
        -  A trent’anni dalla morte, Libération del 21 giugno 2014 ne pubblica alcune parti; Federico Zappino ne offre la traduzione, nel giorno della ricorrenza, per il lavoro culturale.

André Scala, Gilles Barbedette: Ne L’uso dei piaceri, forse per la prima volta, lei manifesta la necessità di ritornare sui passi di alcune sue opere precedenti.

Michel Foucault: Molte cose rimaste implicite, nelle mie opere precedenti, non avrebbero potuto d’altronde essere rese in maniera più esplicita in ragione del modo stesso di porre il problema. Mi sembra, tuttavia, di aver sempre cercato di individuare tre grandi tipi di problemi: il problema della verità, il problema del potere e il problema della condotta individuale. Questi tre ambiti - che sono poi i grandi ambiti dell’esperienza - non possono essere compresi se non l’uno in relazione all’altro e ciascuno di essi è incomprensibile senza gli altri due. E questo è anche ciò che mi ha più volte ostacolato... A me è sempre sembrato di individuare tra essi una linea retta e che non ci fosse alcun bisogno di ricorrere a certi metodi, leggermente retorici, attraverso i quali, di solito, li si analizza.

A.S., G.B.: In che modo lo “stile” assurge a grande questione filosofica e non solo estetica?

M.F.: Il problema dello stile occupa, in effetti, una posizione centrale nella mia opera: stile d’azione, stile di relazione... Gli antichi non hanno mai smesso di porsi il problema di sapere se fosse possibile stabilire la scoperta di uno stile che accomunasse i soggetti tra loro e se, a fronte della scoperta di questo stile, fosse possibile pervenire a una nuova definizione del soggetto. Ho però anche l’impressione che gli stessi antichi non abbiano praticamente mai descritto questo problema. Una morale dello stile appare soltanto verso il II e il III secolo, sotto l’Impero romano - una morale che tenta di definire le congiunture e le intenzioni interne dell’uomo. [...] L’uso che faccio io del concetto di stile lo devo in larga misura alla riflessione di Peter Brown, anche se ciò che dirò ora, che non ha nulla a che vedere con Peter Brown, è tutta farina del mio sacco e di conseguenza tutte le sciocchezze [sottises] che dirò sono da imputare a me soltanto e non a lui [ride]. La nozione di stile come io la uso mi sembra di rilevanza cruciale per la comprensione della storia e della morale degli antichi; per quanto mi riguarda, ho sempre detto le cose peggiori della morale degli antichi, ma ora mi piacerebbe invece provare a parlarne bene, nel senso che reputo che vi siano, in quella morale, una serie di elementi estremamente importanti per la comprensione del passato. Inoltre, per via del fatto che questa morale antica si indirizzava, tutto sommato, a un numero ristretto di individui, ciò significa che non si trattasse di una morale dall’afflato universale, mirante cioè a ottenere che tutti iniziassero a percorrere lo stesso cammino, bensì di una morale riservata a una piccola minoranza tra la popolazione, e anche a una piccola minoranza di uomini tra gli uomini, affinché questa morale forgiasse uomini nuovi ad esempio all’interno di una piccola città greca. Ciò che appare interessante, se si segue la storia di questa morale, è che essa è stata nutrita a poco a poco di valori riguardanti un numero sempre crescente di persone. All’epoca di Seneca o di Marco Aurelio, ad esempio, questa morale poteva già ambire a una validità universale. Tuttavia, se anche questa morale fosse stata valida per tutti, non si trattava tanto di renderla un “obbligo”, quanto piuttosto una “scelta”. Tutti potevano condividere questa morale e scoprirne i principali meccanismi, ma non era che una scelta personale, e ciò rende molto difficile sapere chi, sotto l’Impero, la condividesse. Nei primi stoici si può ravvisare un’idea della filosofia perfettamente in equilibrio tra una certa concezione della conoscenza, una certa concezione della politica e una certa concezione della condotta individuale; a poco a poco, dal III secolo a.C. fino al II d.C. le persone smettono di porsi domande circa la filosofia, in generale, facendo cadere nel dimenticatoio soprattutto le questioni sul potere politico, ma non tuttavia quelle sulla morale [...].

A.S., G.B.: Sembra che la scrittura fosse una pratica del sé particolarmente rilevante, privilegiata, presso i Greci...

M.F.: È vero che la questione della scrittura di sé fosse assolutamente centrale, molto importante per la formazione individuale. Mettiamo da parte Socrate, dal momento che lo conosciamo attraverso Platone, e soffermiamoci proprio su Platone. Il minimo che possiamo dire è che Platone non ha molto coltivato la pratica di sé come pratica scritta, come pratica della memoria, come pratica della redazione del sé a partire dai ricordi. All’opposto, Platone ha invece scritto molto di numerosi argomenti politici e metafisici, e questi scritti testimoniano, in qualche modo, anche nel suo discorso, della presenza di una qualche relazione con il sé [...]. A partire dal I secolo d.C. si assiste a una proliferazione di testi che sembrano tutti obbedire a un certo stile di scrittura e che fanno della scrittura una modalità fondamentale di relazione con il sé. Troviamo scritti interi di raccomandazioni, da parte di un certo numero di autori, di consigli e avvertimenti indirizzati ai propri giovani allievi, come se si trattasse di lezioni date da grandi capi. Successivamente, e solo successivamente, questi autori insegnano agli allievi a porsi delle proprie domande, a dare delle proprie opinioni, e poi a formulare queste opinioni sotto forma di singole lezioni e, infine, sotto forma di didattica. Ciò è rinvenibile nei testi, tra loro differenti, di Seneca, di Epitteto o di Marco Aurelio. Questo mi porta a sostenere che la morale degli antichi non sia stata una morale della cura di sé per tutto il corso della sua storia, ma lo sia divenuta solo a partire da un certo momento, quando il cristianesimo vi ha introdotto delle perversioni, o delle modificazioni, considerevoli, allestendo funzioni penali su larga scala che implicavano il dar conto di sé e il dar conto di sé agli altri, ma non in forma scritta. [...] Il diario cristiano del XVI secolo era molto diverso da quello del IV o del V. Non rispondeva alla stessa questione. Non si trattava di pervenire alla conoscenza delle stesse cose, e non cercava di trattare lo stesso tipo di problema.

A.S., G.B.: E che dire delle Confessioni di Sant’Agostino?

M.F.: Sono qualcosa di curioso. Peter Brown ha scritto un intero libro sulla questione [...]. Bisogna innanzitutto ricordare che Sant’Agostino colloca il cristianesimo occidentale intorno al V secolo, fine del IV, e bisogna anche ricordare che il cristianesimo occidentale praticamente non esisteva fino a quel momento. Con ciò non voglio dire che non esistessero i cristiani, chiaramente, ma che non vi fosse una cultura cristiana. Anche perché è stato proprio Sant’Agostino a costruire, letteralmente, quel cristianesimo che si è instaurato, ad esempio in Francia, nel corso dei secoli XVI e XVII.

A.S., G.B.: Ne Le parole e le cose lei pone un interrogativo sullo statuto della letteratura. Scrive: «Che cos’è questo linguaggio che non dice niente e che non tace mai che chiamiamo letteratura?». La letteratura è forse una maniera, una tecnica del sé?

M.F.: Credo che la letteratura abbia rivestito questo ruolo per un certo periodo, tra il XV e il XVI secolo, e, più tardi, intorno al XIX, ma credo anche che la letteratura stia ora perdendo quel ruolo di forma della coscienza di sé a una velocità straordinaria.

A.S., G.B.: Ciò di cui si fa un gran parlare oggigiorno, che potremmo definire “cultura del sé”, non ha nulla a che vedere con ciò di cui lei parla nei suoi libri?

M.F.: Sì e no. D’altronde, se ci limitiamo a leggere le cose nella loro stretta formulazione filosofica, che sia la morale dell’antichità romana o greca o la morale della società contemporanea, esse sembrano non avere nulla in comune con noi. Al contrario, se si considera la morale antica nei termini di ciò che prescrive, di ciò che inclina, di ciò che suggerisce, si può percepire quanto essa sia straordinariamente vicina a noi e quanto i suoi consigli siano, se non somiglianti, quanto meno nettamente prossimi alla morale attualmente popolare. È proprio questo che si tratta di far apparire: la prossimità, la differenza e, attraverso questo gioco della prossimità e della differenza, mostrare come gli stessi consigli offerti dalla morale antica possano operare in maniera diversa in uno stile della morale contemporaneo.

A.S., G.B.: Vi è poi la questione del rapporto del sé con sé, e della costituzione del sé mediante il sé, che si solleva quando si parla della sessualità come esperienza... Vi è già presso i Greci questo tema della delizia, del delirio amoroso, della perdita di sé, del rapporto con l’altro?

M.F.: A me sembra che nei testi della filosofia greca del III e II secolo a.C., fino al III secolo d.C., non vi sia affatto una concezione dell’amore la cui validità possa rappresentare questa esperienza a cui voi fate riferimento, esperienza che comunque era già nota, ossia l’esperienza della grande passione amorosa.

A.S., G.B.: Nemmeno nel Fedro di Platone?

M.F.: Io penso di no. Ora, non vorrei allontanarmi troppo dall’oggetto della nostra discussione, ma a me sembra che, nel Fedro, troviamo al contrario l’esperienza di coloro che, attraverso l’esperienza amorosa, approdano all’esperienza in sé. Essi in sostanza ignorano quella che potrebbe apparire come una pratica corrente e costante della loro epoca per pervenire a un tipo di sapere che consentirà loro, da un lato, di continuare ad amarsi l’un l’altro e, dall’altro, di essere, davanti agli occhi della legge e in ragione dei propri doveri di cittadinanza, conformi a ciò che deve essere il comportamento degli individui. Dunque non credo che si possa parlare di quel tipo di esperienza a cui voi alludete. Possiamo iniziare a vederla forse solo in Ovidio. Nei suoi testi, mi sembra corretto dire... troviamo la possibilità, l’apertura di un’esperienza nella quale l’individuo, in qualche modo, perde completamente la testa. Non sa più chi è, perde la propria identità. Si lascia attraversare dall’esperienza amorosa come in perpetuo oblio del sé. E credo che questa esperienza dell’amore non corrisponda minimamente a quella del IV secolo a.C., quale quella di Platone o Aristotele.

A.S., G.B.: Relativamente ai Greci, quando Heidegger sostiene che i filosofi non sono coloro che amano la conoscenza, bensì coloro che hanno conoscenza dell’amore... si riferisce secondo lei a questo?

M.F.: Sì, sicuramente. I filosofi sono coloro che hanno conoscenza dell’amore. Detto questo, non mi pare di trovare, nell’esperienza filosofica greca che è pervenuta a noi (quella del IV secolo, contenuta nei discorsi di Platone), l’elemento in grado di mettere l’esperienza dell’amore all’esterno dell’esperienza del sapere.

A.S., G.B.: La rilettura degli antichi può essere il sintomo di una crisi del pensiero? La volontà di un ritorno alle origini?

M.F.: Mi sembra corretto dire che in questo movimento di rilettura dei Greci, che peraltro si fa spesso, vi sia senz’altro una sorta di nostalgia, un tentativo di recuperare una forma originaria del pensiero, e soprattutto un tentativo di concettualizzare la cultura greca al di fuori di tutti i fenomeni cristiani. Si tratta di un tentativo che ha preso in realtà molte forme. Ad esempio, nel XVI secolo consiste nel ritrovare, attraverso il cristianesimo, e in funzione della preservazione del cristianesimo, un tipo di filosofia greco-cristiana. Ma in Hegel, o ancora in Nietzsche, questo tentativo consiste invece nel recupero dei Greci attraverso l’elisione del cristianesimo. Oggigiorno mi sembra che il tentativo di ripensare i Greci non consista tanto nell’elevare la loro morale a morale per eccellenza, a elemento imprescindibile per qualunque forma di pensiero, quanto piuttosto nel fare in modo che la filosofia europea possa in qualche modo ripartire, come esperienza in grado di guardare ai Greci, ma anche in grado di sentirsi dinanzi a loro totalmente libera.

A.S., G.B.: Lei ha detto questo, del suo lavoro: «Ho cambiato strada», «Non sono riuscito a fare ciò che avevo annunciato». Pensa di essere stato imprudente o pensa piuttosto che le cose siano talmente cambiate, per gli intellettuali e per i ricercatori, da aver reso necessarie certe precauzioni...

M.F.: Quando ho scritto il primo volume [della Storia della sessualità, La volontà di sapere, N.d.T.], ormai sette o otto anni fa, avevo assolutamente l’intenzione di scrivere questa storia della sessualità, questi studi di storia sulla sessualità, a partire più o meno dal XVI secolo [...]. In parte penso di averlo fatto. Tuttavia, proprio mentre portavo avanti la mia opera, iniziavo a rendermi conto di quanto questa non filasse, per via di un certo numero di problemi molto importanti che non avevo preso in considerazione, come ad esempio l’esperienza morale della sessualità. È in quel momento che mi sono detto: «Voglio sapere di cosa si tratta». Ho dunque messo da parte gli studi che avevo condotto sul XVI e il XVII secolo e sono tornato indietro. Sono tornato indietro fino al V secolo, pressappoco, fine del IV e inizi del V, per essere precisi, a quello che ritenevo l’esordio dell’esperienza cristiana [...]. Ho poi cercato di capire cosa è successo nel periodo immediatamente successivo [...] e mi sono sentito quasi obbligato, ormai da tre anni a questa parte, a mettermi a studiare la sessualità tra il V e il IV secolo. È stata dunque la necessità di spiegarmi alcune cose che mi ha condotto a cambiare interamente il mio percorso, rispetto alla sua forma originaria. Forse voi mi domanderete ora se non si sia trattata di pura disattenzione da parte mia, all’inizio, o forse solo di un desiderio segreto, rimasto represso e rivelato solo alla fine. Non lo so. E vi confesso di non volerlo nemmeno sapere. La mia esperienza, come ora mi appare, è questa. Questa storia della sessualità, non avrei indubbiamente potuto condurla correttamente se non a condizione di mettermi sulle tracce di ciò che è successo in quei secoli a noi lontani, per vedere come l’universo della sessualità sia stato vissuto, manipolato, perpetuamente modificato [...]. Stando così le cose non avrei potuto condurre uno studio di qualità se mi fossi limitato al solo XIX secolo. Mi sarei potuto certo limitare a includere nella mia analisi i secoli XVII e XVIII, sempre a partire dal XIX, ma questo lavoro mi avrebbe forse preso troppo tempo inutilmente. Con i classici, ne ero sicuro, mi sarei divertito di più.

* il lavoro culturale, 25.06.2014


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