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Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ( "Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)

L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana" - di Federico La Sala

domenica 9 marzo 2008 di Maria Paola Falchinelli
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI
PARRHESIA EVANGELICA: IL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA (...)

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> L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. -- KANT CON IL COSMOPOLITISMO DI DIOGENE E NON DI ALESSANDRO E NAPOLEONE!!!

lunedì 19 settembre 2016

L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. -- KANT CON IL COSMOPOLITISMO DI DIOGENE E NON DI ALESSANDRO MAGNO E NAPOLEONE (O HITLER E MUSSOLINI)!!!:


Siamo umani, dunque globali

Quando gli chiesero quale fosse la sua patria, Diogene il cinico rispose che era un cosmopolita, un cittadino del mondo

di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 18.09.2016)

Quando gli chiesero quale fosse la sua patria, Diogene il cinico rispose che era un cosmopolita, un cittadino del mondo. Una frase brillante, di cui Immanuel Kant si sarebbe ricordato nel 1784, quando diede alle stampe un breve saggio con un titolo lungo, Idee di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, che fondava su basi più solide l’ideale del cosmopolitismo. Solo una comunità politica universale permetterà agli uomini di realizzare la loro natura di esseri razionali e sociali, offrendo la possibilità di una vita soddisfacente. Questa, scriveva, è la meta verso cui ci stiamo dirigendo e per cui dobbiamo lottare.

Kant è stato un grande filosofo e per una volta si è rivelato buon profeta, visto che il cammino dell’umanità sta procedendo nella direzione di una sempre maggiore integrazione, proprio come lui aveva auspicato. Il suo entusiasmo, però, non troverebbe molto seguito oggi. Il mondo appare più piccolo ma i problemi sono sempre più complicati e diffusi. E così si leva insistente la voce di chi sogna un ritorno alle genuine tradizioni nazionali che fecero grande l’Europa e che l’Illuminismo avrebbe colpevolmente cancellato.

Fosse tutto così semplice: come ricorda Jean-François Pradeau (Gouverner avec le monde. Réflexions antiques sur la mondialisation, Manitoba/Les Belles Lettres, 2015), la vocazione universalista precede, e di molto, le discussioni di Kant e Voltaire. Cosmopolita è una parola greca: e lo è anche l’idea, che poi passò nel mondo cristiano. Gli uomini sono uguali e non si capisce perché non possano vivere insieme, seguendo le indicazioni della ragione: questi sono gli Stoici. Gli uomini sono tutti figli di Dio e non si capisce perché non debbano vivere insieme, aspirando alla pace comune: questo è Agostino. Anche «cattolico», lo si dimentica spesso, è un termine greco; vuol dire universale. Insomma: i Greci, il cristianesimo, l’Illuminismo. L’ideale cosmopolitico è parte costituente della tradizione europea.

Per gli antichi era tutta una questione di cerchi concentrici. Ciò che siamo, la vita che viviamo, si definisce a partire da una serie di relazioni sempre più estese: ci sono la famiglia e gli affetti privati; poi il mondo degli amici e del lavoro; e ancora, quello dei cittadini e della patria; e via di seguito fino al cerchio esterno che include tutti gli uomini. È evidente che ciò che ci è più vicino importa, e tanto. Ma non possiamo non riconoscere la linea di continuità che ci lega a tutti gli altri esseri umani in quanto esseri umani. In fondo dove nasciamo dipende in gran parte del caso: ma rimaniamo pur sempre parte dell’unica famiglia umana, membra dello stesso corpo. «Sono un Antonino, la mia patria è Roma; sono un essere umano, la mia patria è il mondo», scriveva Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, accampato presso le rive del Danubio. Lo aveva già detto anche uno scrittore di commedie, Terenzio, arrivato a Roma dall’Africa (come Agostino del resto): «Sono un uomo, nulla che sia umano mi è estraneo».

Erano riflessioni che nascevano spontanee, tentativi di comprendere il senso della storia degli uomini, mentre Roma estendeva il suo controllo su parti sempre più estese del mondo conosciuto, e i confini tradizionali venivano meno. Non si trattava di annullare le differenze ma di accoglierle in un’unità più ampia. Le istituzioni sovranazionali odierne, nate per tutelare i diritti dell’uomo, affondano le radici in questa tradizione.

I problemi non sono soltanto, come si continua a ripetere, politici o economici, argomenti su cui gli antichi avevano peraltro idee strampalate. Platone e gli Stoici intitolavano i loro trattati Costituzione o Repubblica e finivano inevitabilmente per parlare di sesso. Diogene, poi, il primo cosmopolita confesso, con la politica non voleva avere proprio nulla a che fare, rifiutandosi di pensare che le convenzioni sociali o eventuali appartenenze di gruppo potessero concorrere a definire quello che lui era, la sua identità. Famigerato per i comportamenti scandalosi al limite del tollerabile (c’era un motivo se lo chiamavano il «cane»), fautore di una libertà così estrema da non essere desiderabile (ma davvero tutto può essere permesso?), ha comunque il merito di chiarire il vero problema in discussione con il cosmopolitismo.

È una questione prima di tutto individuale, che riguarda come noi vediamo noi stessi. Il confronto con gli altri è sempre faticoso: si giudica e si è giudicati, su tutto. Non è facile scoprire che molte delle idee e principi a partire da cui organizziamo le nostre giornate non costituiscono verità insindacabili ma sono semplici abitudini, che potrebbero anche essere modificate. La tentazione di rinserrarsi nel cerchio di ciò che è familiare o consueto nasce da qui ed è onnipresente. È scontato criticare gli operai inglesi che si sono chiusi al mondo votando contro l’Unione Europea. Ma, come ha scritto giustamente Ross Douthat sul «New York Times», bisogna stare attenti a non cadere nella retorica stantia che oppone nativisti (o localisti) e internazionalisti (o cosmopoliti).

I «cittadini globali» che si sentono sempre a casa propria in qualunque parte del mondo, e che però di fatto dormono in alberghi sempre uguali, comprano gli stessi vestiti negli stessi negozi, e fanno insomma sempre le stesse identiche cose in non importa quale posto (con l’aggiunta eventuale di un tocco di esotismo: un po’ di religiosità orientale, di dolce vita italiana...), non costituiscono una tribù anche loro? Una tribù, quel che è peggio, che non si riconosce come tale e non è perciò in grado di confrontarsi con gli altri gruppi di chi la pensa diversamente. È sempre una questione di appartenenza, e la sfida del cosmopolitismo è tutta qui, nell’invito a ripensare le nostre relazioni in tutte le direzioni.

«Essere vasto, diverso e insieme fisso», scriveva Montale: non rifiutare i rapporti più stretti, ma provare a guardare allo spettacolo della vita umana, così diverso eppure così simile, con occhi meno preoccupati. Al filosofo Pirrone è servito. Aveva seguito Alessandro Magno nella sua campagna alla conquista del mondo. Vide quanto vari o arbitrari potessero essere gli usi e i costumi dei popoli ma osservò anche che gli uomini si affaccendavano sempre dietro agli stessi problemi, sempre inquieti, come le api e le mosche. Senza giudicare, imparò a dare il giusto peso alle cose, liberandosi della pretesa di essere il centro del mondo. Si racconta che trovò la felicità.

I cerchi, intanto, continuano a espandersi. Quando Diogene o Marco Aurelio affermavano di essere cosmopoliti, intendevano quello che dicevano. Parliamo di mondializzazione, globalizzazione, cosmopolitismo, ma pensiamo sempre a noi stessi, agli uomini, mai al mondo (al globo, al cosmo). È come se importassimo solo noi. E invece quello che siamo dipende anche dalla nostra relazione con ciò che ci circonda.

Ogni tanto conviene alzare lo sguardo e realizzare che è tutto molto più grande: quale è il senso della nostra esperienza di esseri umani - di questa mia esistenza particolare - rispetto a questo universo immenso che ci circonda? Per gli antichi la domanda era naturale perché sentivano di far parte di un tutto vivente e perfettamente organizzato: anche i pianeti, esseri divini e perfetti che percorrono eternamente le loro orbite circolari, sostenevano, sono abitanti di quella città immensa che è l’universo, e dunque nostri concittadini. Può sembrare bizzarro, ma anche Dante nell’ultimo canto del Paradiso, quando ha finalmente coronato l’obiettivo del suo viaggio, inizia a ruotare («sì come rota ch’igualmente è mossa») intorno a Dio, «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ci sono di nuovo i cerchi e i moti circolari: l’immagine questa volta è aristotelica, ed è l’espressione di un’armonia raggiunta - con se stessi, con gli altri, con le cose, finalmente consapevoli di fare parte di un tutto che si squaderna ogni giorno nella sua meravigliosa regolarità. È questa la vera appartenenza: «La sola vera cittadinanza è quella che si esercita nell’universo», ripeteva il solito Diogene.

La scienza moderna ha definitivamente smantellato l’idea, in fondo così rassicurante, di un universo chiuso e perfettamente organizzato intorno a noi. E tutto diventa più complicato. Il pensiero corre a Friedrich Nietzsche, quando parlava di un universo che precipita eternamente, spaventoso nell’infinita solitudine del tutto («non si è fatto più freddo?»); o alla luna di Giacomo Leopardi nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, silenziosa, indifferente, ormai estranea, lontana. Sono immagini suggestive. Ma troppo unilaterali, forse. Perché il mondo è anche la natura, quel ciclo della vita che fiorisce intorno a noi, e di cui dovremmo ritornare a riconoscere il ritmo, come esortava un poeta, Archiloco, consapevoli del fatto che anche noi ne facciamo comunque parte.

Gli antichi non avrebbero mai creduto che l’uomo potesse arrivare a modificare l’ambiente naturale che lo circonda, come invece sta accadendo. Ma, per una volta tutti insieme senza litigare, avrebbero osservato con uno sguardo benevolo i presidenti degli Stati Uniti d’America e della Repubblica Popolare cinese, Barack Obama e Xi Jinping, firmare l’accordo per ridurre le emissioni di gas inquinanti.

La terra sarà pure un piccolo punto insignificante e marginale nelle immensità dell’universo; la vita sarà pure il risultato casuale di alcune reazioni chimiche innescatesi accidentalmente. Ma sarebbe comunque un peccato sprecare tutto, no?


PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica


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