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Ragione ("Logos") e Amore ("Charitas"). Per la critica dell’economia politica ..... e della teologia "mammonica" ( "Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006)

L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. Cristianesimo, democrazia e necessità di "una seconda rivoluzione copernicana" - di Federico La Sala

domenica 9 marzo 2008 di Maria Paola Falchinelli
FILOSOFIA, ANTROPOLOGIA E POLITICA. IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO ....
STATO DI MINORITA’ E FILOSOFIA COME RIMOZIONE DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO. Una ’lezione’ di un Enrico Berti, che non ha ancora il coraggio di dire ai nostri giovani che sono cittadini sovrani. Una sua riflessione
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI
PARRHESIA EVANGELICA: IL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA (...)

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> L’ILLUMINISMO, OGGI. LIBERARE IL CIELO. -- «Riflessioni sulla metafisica» (T.W. Adorno): «Teologia, illuminismo e il futuro delle illusioni» (di Alessandro Cecchi). .

domenica 27 gennaio 2019

IL FUTURO DELLE ILLUSIONI

di THEODOR W. ADORNO

      • Il frammento pubblicato qui [...], il cui titolo originale è «Teologia, illuminismo e il futuro delle illusioni» faceva parte delle «Riflessioni sulla metafisica» che il filosofo tedesco decise di escludere dalla Dialettica negativa. Pensò di destinarlo a nutrire la raccolta di aforismi che avrebbero dovuto costituire una ripresa dei Minima moralia, ma il progetto rimase irrealizzato. «L’intera cultura occidentale - scrive Adorno - perfino nei suoi prodotti più alti, riposa sul non vero, sul dogma cristiano della divinità di un uomo. Nulla che non fosse invalidato da una tale non verità è progredito in questa cultura...»

di Alessandro Cecchi (il manifesto, 12.10.2003)*

La teologia tradizionale non può essere restaurata. Se la si prende alla lettera, e non simbolicamente, come soltanto conviene, essa ricade in mitologia. Kierkegaard, che per primo ha espresso senza mezzi termini quale disgrazia sia per la teologia cristiana la subordinazione alla ratio filosofica, per primo cadde anche vittima di quella regressione. Perché soltanto la ratio, da lui negata con il paradosso, gli ha consentito, nella sua ora storica, di giustificare l’irrazionalità teologica. L’attuale esigenza, per lo più protestante, di demitologizzazione, che si connette a Tillich e Bultmann, costituisce l’inevitabile reazione a ciò che la teologia diventa quando si tenta una sua rigorosa restaurazione. Con questo però si confonde di nuovo il confine rispetto a quella teologia liberale che i seguaci di Kierkegaard avevano diagnosticato come potenziale abolizione della teologia stessa. La teologia della crisi è diventata la crisi della teologia. I suoi successi tra coloro che non riescono a sopportare questa condizione o che per il momento non sanno dove altrimenti placare il loro bisogno di autorità, si risolvono in una vittoria di Pirro dietro l’altra. In teologia si realizza la logica hegeliana del meritato declino, contro la quale Kierkegaard rivendicò con accanimento la posizione della trascendenza. La pretesa o reale mancanza di riparo trascendentale, da cui gli uomini oggi fuggono nelle comunità religiose, non è quel destino cieco che può essere evitato con un migliore discernimento, così come lo hanno inteso i neofiti e come trapela in certe categorie heideggeriane quali storia dell’essere, oblio dell’essere e svolta. L’illuminismo, sul quale vengono proeittate tutte le colpe, non è piovuto sugli uomini come una cometa dal cielo, ma è stato motivato dall’assennata non verità del dogma. È più vero di ciò che si è perduto. La sofferenza storica non deriva dall’illuminismo come fatto spirituale, ma dalla intricatezza via via più irrazionale del corso del mondo. In quanto è troppo poco illuminato, l’illuminismo è rimasto impotente di fronte alla società reale, degenerando infine a suo strumento. Nessun pensiero metafisico che eviti di scendere a patti con l’illuminismo si sosterrà in base al proprio contenuto di verità, anche se l’oscuramento del corso del mondo favorirà, per un tempo incalcolabile, riserve di irrazionalità, sua immagine riflessa spirituale.

La critica all’illuminismo non ferma l’illuminismo, non lo revoca, bensì lo eleva all’autoriflessione della sua stessa limitatezza. Non si deve negare la risposta alla ragione in quanto fatto dannoso, come cattivi genitori al bambino curioso. La ragione stessa dovrebbe liberarsi dal vincolo che la condanna alla complicità col dominio. Solo con la ragione, la ragione potrebbe trascendere se stessa, e non con l’evocazione di vecchie figure di non-ragione mascherata.

La teologia tradizionale è tuttavia corrosa fin nel suo intimo dal dominio degli uomini sugli uomini, e non è l’istanza di vocazione quale essa si annuncia. Che Gesù sia stato Dio - e altrimenti il cristianesimo sarebbe solo una manifestazione accanto alla quale altri dèi potrebbero occupare i loro altari - i cristiani devono crederlo sulla base della testimonianza degli uomini, che possono sbagliare, come tutti i credenti delle epoche successive. Le rigorose condizioni della fede richiedono che la ragione si pieghi, cosa che poi viene perpetuata dal potere istituzionale della chiesa.

Se quei primi, sulla cui testimonianza si fonda la religione, in modo piuttosto pagano, avessero posseduto l’autorità che trattiene i loro successori nella fede, tale fede presupporrebbe la divinità di Gesù, che viene a sua volta dedotta dalla testimonianza degli uomini. Ma che la discutibilità di tutto ciò sia stata dimostrata dall’illuminismo, certo già dimenticato in una fase tarda del processo di neutralizzazione, è solo puerile contestarlo. I credenti dovrebbero già credere per poter credere; dall’insensatezza, la ratio compiacente e manovrabile ha creato il teologema secondo cui per credere è necessaria la grazia. Il mostro ibrido di rivelazione e razionalità è votato alla morte come le creature mostruose delle favole. Una tale fede viene distinta dalla superstizione soltanto dall’autorità sociale, dal successo in questo mondo, che non deve trovare posto nel regno di Dio. L’intreccio ideale con il mondo è però l’effetto dei legami pratici tra la religione dell’amore e la prassi del potere. Costantino ratificando il cristianesimo a religione di stato lo ha sconfitto. La logica storica che ritiene che il cristianesimo abbia avuto ragione soltanto nei suoi primi successi rivoluzionari, ha come substrato il dolore sconfinato di cui per quasi duemila anni la religione della compassione fu al servizio, mentre faceva credere di alleviarlo. La brutalità con cui istituzioni di maggior successo opprimono quella chiesastica semifeudale, la quale può andare loro incontro soltanto con l’assuefazione allo streamlining, giù giù fino al servizio divino in jazz e alla canzonetta sacra sdolcinata, ripaga della stessa moneta ciò che il cristianesimo stesso, in quanto istituzione, perpetrò e dovette perpetrare perché non potè mai essere creduto completamente. Certo, in questo modo non viene affatto pronosticata l’imminente abolizione istituzionale del cristianesimo. Fin quando la società è diretta in modo irragionevole e defrauda gli uomini di ciò a cui hanno diritto, continueranno a vegetare, nel bel mezzo della razionalità inarrestabile, che tuttavia progredisce irrazionalmente, residui imputriditi di irrazionalità. L’irrazionalità del tutto si comunica allo spirito in quanto punto cieco, mentre l’esistente, per continuare ad esistere, è addestrato a quelle irrazionalità. Senza la disposizione soggettiva all’illusione, l’oggettività del sistema globale gravita a spirito oggettivo di falsità. Se la razionalità, nonostante tutto, esaurirà le irrazionalità di cui è disseminata o se, nella sua figura repressiva, ne produrrà più che mai, non è prevedibile. Per il momento accadono le due cose insieme.

È tuttavia pensabile che la razionalità raggiunga una soglia oltre la quale non potrà più sopportare i residui. Dalla tabula rasa che ne deriverà, potrebbe essere tolta di mezzo facilmente anche l’idea della verità. Per prima cosa la neutralizzazione ha fatto in modo che la razionalità tecnica e l’irrazionalità di ciò che annulla se stesso con la parola Weltanschauung si tollerino benissimo a vicenda. Sotto il fascismo la razionalissima macchina dello sterminio era fatta funzionare dalle stesse limpide teste che erano state riempite di mistica paranoide della razza. Il futuro di una simile fede è tanto ben promettente quanto, secondo il detto di Valéry, l’inumanità. L’intera cultura occidentale, perfino nei suoi prodotti più alti, riposa sul non vero, sul dogma cristiano della divinità di un uomo; niente che non fosse invalidato da tale non verità è progredito in questa cultura. In questo senso non si potrebbe disconoscere a priori né al fascismo razzista né al suo opposto, il collettivismo repressivo, la visione della vita eterna, che la hybris del tecnico folle, Himmler per tutti, promise.

Solo attraverso il tempo potenziato dello sviluppo storico ciò diviene inverosimile. Il futuro della follia, in cui nel frattempo le illusioni si sono tramutate, non dipenderà soltanto dalla coscienza degli uomini, bensì da quella dinamica dei rapporti sociali che la follia inutilmente si sforza di placare.

(traduzione di Alessandro Cecchi)

        • "Lo scritto di Adorno - inedito in Italia e uscito in Germania con il titolo «Theologie, Aufklärung und die Zukunft der Illusionen» (in Frankfurter Adorno Blätter VIII, a cura di Rolf Tiedemann, edition text + kritik, München 2003) fa parte dei numerosi frammenti pubblicati per la prima volta in occasione del centenario dalla nascita. Sebbene si presti ad essere interpretato come una liquidazione sbrigativa del cristianesimo, il rischio di una simile lettura va scongiurato, non fosse altro perché la catastrofe che ha investito proprio il cristianesimo, in particolare, è oggettiva, storica, incontestabile, e rientra a pieno titolo nel problema religioso. Non si tratta dunque - nello scritto di Adorno - di una provocazione, né si tratta di una questione ideologica, ma, se vogliamo, del logico dispiegarsi di una verità: il pensiero si muove con una consequenzialità, con una inesorabilità che ha ben pochi termini di paragone e che, pur nella difficoltà della lettera, si impone all’attenzione.
          -  Qui Adorno registra ciò che mille remore - di natura storica, culturale, psicologica - impediscono e hanno impedito di pensare con fermezza. Le stesse remore, forse, hanno portato l’autore a escludere lo scritto dalla Dialettica negativa (costituiva una delle Riflessioni sulla metafisica) per destinarlo a un altro progetto, mai realizzato, a una raccolta di aforismi pensata come tarda ripresa di Minima moralia, cui Adorno si riferiva privatamente con la dizione «Rälchen über die Theologie» (Rälchen è apocope di Morälchen, diminutivo di Moral, dunque «moraletta sulla teologia»). Il curatore, Rolf Tiedemann, lo ha lasciato fuori anche dalla seconda parte della scelta di frammenti e aforismi pubblicata con il titolo Graeculus nel vol. VIII dei Frankfurter Adorno Blätter (edition text + kritik, München 2003); ha preferito pubblicarlo nello stesso volume come testo a sé stante, che in tal modo ha finito per assumere il rilievo che merita.
          -  Si può benissimo pensare che le tesi sostenute qui da Adorno - la cui perentorietà non ha nulla a che fare, in questo caso, con la saccenza - siano tali da indurre il teologo, il cristiano alla fuoriuscita dal terreno della fede; che accettare questo scritto equivalga al rifiuto del cristianesimo. In realtà, questo scritto ci mette di fronte al tentativo di porre la teologia cristiana di fronte alla sua «verità»: perché per Adorno la teologia è destinata alla fine se non prende coscienza, illuministicamente, di se stessa. E se poi questo atto di autocoscienza ne determinasse la fine, si tratterebbe di un «meritato declino».
          -  Ma cosa succederebbe a chi avesse il coraggio di accettare la verità di questo giudizio sul cristianesimo, di accoglierne la sfida rimanendo nell’ambito del cristianesimo; alla teologia che rinunciasse a se stessa senza cedere alla neutralizzazione del problema teologico? Può chiarire la posizione di Adorno può servire un aforisma del Graeculus, nello stesso volume, datato significativamente Pasqua 1960: «La frase che più energicamente testimonia contro la divinità di Gesù, è anche quella che più energicamente attesta la sua esistenza. Eli, eli, lema sabachtani non lo si inventa». La risposta sta dunque nel «Dio mio, dio mio, perché mi hai abbandonato», cui il cristianesimo sarebbe riportato come alla sua «verità» - la verità di una «vita offesa», nella quale Adorno non poteva non vedere la «potenza della negazione determinata come unica cifra dell’Altro che sia consentita». La mutata prospettiva riporterebbe forse il cristianesimo, la religione stessa - demitologizzata - all’istanza dialettica del mutamento sociale, alla forza motrice che ne costituisce l’essenza"
          -  ( ALESSANDRO CECCHI, Un inedito di Adorno sulla «verità» della teologia, il manifesto, 12.10.2003.)


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