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Piccole (e grandi) apocalissi....

LA SOCIOLOGIA DELLA GLOBALIZZAZIONE E LA PAURA LIQUIDA. Il pessimismo della ragione di Zigmunt Bauman e l’ottimismo della volontà di Saskia Sassen. Una ’sintesi’ di Benedetto Vecchi - a cura di pfls

Due saggi per comprendere un fenomeno irreversibile che continua a destrutturare le forme di vita contemporanee
domenica 23 marzo 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] La possibilità di «addomesticare» nuovamente la paura senza accentuare le differenze di classe va tuttavia cercata nei contemporanei movimenti sociali, vista la loro capacità di politicizzare i rapporti sociali. La posta in palio, infatti, non è la tollerabilità dell’irruzione del possibile nell’impossibile, ma di riuscire a far irrompere l’impossibile nel possibile. In altri termini, pensare alle proposte, all’azione dei movimenti sociali come l’impossibile che lacera la tela (...)

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> LA SOCIOLOGIA DELLA GLOBALIZZAZIONE E LA PAURA LIQUIDA. --- Generazione sms. Quelle affollate solitudini dell’era cyber-liquida: l’Altro è solo un clic (di Clara Sereni).

domenica 31 maggio 2009

Generazione sms

-  Quelle affollate solitudini dell’era cyber-liquida: l’Altro è solo un clic
-  

di Clara Sereni (l’Unità, 31.05.2009)

-  CATEGORIE
-  L’instabilità affettiva: una nuova «condizione umana»

-  Liquido. È diventato - il termine «lanciato» dal filosofo Bauman - ormai una categoria. Incertezza, paura, precarietà delle situazioni, delle condizioni e delle relazioni. In particolare si legano tra di loro concetti quali il consumismo alla creazione di rifiuti «umani», la globalizzazione all’industria della «paura», lo smantellamento delle sicurezze ad una vita appunto «liquida» sempre più frenetica e costretta ad adeguarsi alle attitudini del «gruppo» per non sentirsi esclusa, e così via. Anche perchè la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto fa la relazione sentimentale. La capacità quindi di interrompere - di «disconnettersi» dice la Sereni - ciascuno dei rapporti interpersonali con un semplice gesto rappresenta dunque una vera e propria -nuova - condizione umana.

Mio suocero era padrone di tante storie. Storie di un’infanzia povera e abbandonata nelle campagne affamate del Molise, storie di avventure rocambolesche da camionista durante la guerra, storie della vita da prestigiatore che, per un certo tempo, aveva fiancheggiato la sua attività prevalente. Mio suocero faceva il taxista, e risiedeva nell’abitacolo non grande della sua automobile il serbatoio più ricco - numericamente e tematicamente - delle sue storie. Perché correndo a tavoletta verso un ospedale o al commissariato, oppure bloccate con lui dentro un ingorgo, le persone non di rado gli raccontavano di sé ragioni addotte e torti subiti, sofferenze e - più raramente - sprazzi di felicità. Parlavano di giornali letti, dei prezzi in aumento, di politica. Con la libertà di discorso che appartiene a chi pensa che mai più incontrerà la persona con cui sta parlando, a cui sta rivelando di sé anche qualcosa di intimo.

Con la stessa libertà e per le stesse ragioni mio suocero dava consigli e esprimeva i propri pareri senza remore, discutendo talvolta anche animatamente: e se per i contrasti emersi la mancia non c’era pazienza, aveva detto comunque la sua. Si erano scambiate delle opinioni. Si portava a casa, con la storia, un’esperienza. Per non oscurare quei colloqui scelse di non essere mai radio-taxi, pur rinunciando così ad una parte di guadagni. Mio suocero è morto sedici anni fa, non un secolo. Eppure penso che da lì a qui ci sia stata una mutazione antropologica, qualcosa di cui forse non siamo ancora del tutto consapevoli, e che pure cambia radicalmente il quadro dentro cui ci muoviamo.

Una prima modifica, ormai evidentissima. Anche chi di noi è nato prima dei microchips, trovandosi dentro un taxi (un autobus, un treno) per affanno o felicità, trasferimento di piacere o urgenza, dopo aver dichiarato la destinazione con chi gli è compagno di tragitto non parla più: manda Sms e/o parla al cellulare con qualcun altro. Parlano al cellulare le coppie che camminano per mano, una con una persona e l’altro con un’altra, e mandano Sms. La linea può cadere perché c’è una galleria o perché la facciamo cadere noi, per interrompere un discorso che non ci piace. E gli SMS sono fatti apposta per rispondere soltanto quando vogliamo farlo, come le telefonate: sul display vediamo chi ci sta chiamando, e decidiamo se sottrarci o no. Attraverso i cellulari passano litigate e insulti di gente di ogni età, ma passa raramente il conflitto vero, quello che ti obbliga a costruire dialetticamente nuovi ponti per incontrare l’Altro, e non semplici passerelle temporanee, pronte a crollare al primo soffio di vento.

Pensavo a tutto questo quando ho preso in mano, con colpevole ritardo, Amore liquido, di Zigmunt Bauman (Laterza, 2006), secondo il quale le relazioni, i rapporti interpersonali, hanno oggi le stesse caratteristiche della Rete per un verso, e dei centri commerciali dall’altro. La Rete, perché non si decide più la fatica di una relazione, preferendo il più agevole meccanismo connessione-disconnessione: rispetto al quale siamo noi, solo noi a decidere.

Possiamo rivelare di noi gli aspetti più intimi ed oscuri, certi che qualcuno ci ascolti ma altrettanto certi che, mai si verificasse un conflitto, basterà premere quit, e tutto si fermerà. I centri commerciali, perché lì scatta la ricerca compulsiva del prodotto più conveniente, più competitivo: dal punto di vista del prezzo, ma anche della qualità presunta o reale, dell’esclusività e dell’essere cool, dell’invidia o della considerazione che il possesso di quell’oggetto può generare nelle persone che si frequentano. A questo si aggiunge il meccanismo per cui molti di noi, se non proprio tutti, non acquistano più un nuovo prodotto perché il precedente si è rotto, o consumato, o comunque non funziona più: lo si compra perché è l’ultimo modello, e ogni altro che lo preceda si percepisce ormai come superato, inutile. Qualcosa di cui vergognarsi anche un po’, o che comunque non fa sentire “all’altezza”: di un modello di sviluppo che ti spinge a desiderare sempre di più, ed anche a non affidarti ad un solo prodotto, legandoti troppo al quale potresti perderti chissà quali mirabolanti occasioni.

Le grandi occasioni: come in un centro commerciale si consumano relazioni e amori, da non approfondire mai troppo (e da disconnettere opportunamente) per non perderne altre e migliori, per lasciare la porta sempre aperta al principe azzurro o alla principessa rosa che verrà, per non lasciarsi scappare contatti che potrebbero essere utili nei più svariati campi. Una escalation del desiderio insoddisfatto, che contribuisce in maniera rilevante a renderci isolati, individualisti, fragili, frustrati. Manovrabili da chi conosce le regole del gioco. Utilizzabili da leader che si propongono come testimonial di un prodotto, e non come costruttori di politiche.

Ho riassunto in maniera probabilmente maldestra i contenuti ben più ricchi del libro di Bauman, che vi fotografa però, a mio parere, quella che ho definito mutazione antropologica. Che ci riguarda tutti, anche chi non ha mai frequentato una chat o un social-network. E certo concerne anche chi usa la posta elettronica, quella che (come ha scritto Beppe Sebaste) garantisce insieme il massimo di distanza e il massimo di vicinanza, induce a tirar fuori cose di sé che altrimenti non si direbbero perché fare i conti con le proprie e altrui emozioni non è mai obbligatorio: chi dovesse indagarle si può sempre non rispondere, oppure mandare una faccina e chiuderla lì.

Certo non sono ancora scomparse del tutto le relazioni vere, i rapporti dotati di senso: ma siamo sulla buona strada. Forse si può dire che Internet ha atomizzato le anime più dell’atomica vera, quella di Nagasaki e Hiroshima: in fondo, ai tempi dell’equilibrio del terrore c’era più aggregazione, più obiettivi condivisi, e perfino meno guerre, di oggi.

Se si accetta questo punto di vista sulla trasformazione, appare ovvio come uno come Berlusconi vi si muova come un pesce nell’acqua: maestro nello stimolare speranze senza mai soddisfarle, che lascia ogni volta baluginare la speranza-certezza di un’altra occasione.

Migliore, più appetibile: l’ultimo modello. Non più la carota per far marciare l’asino, ma il premio che spetta al vincitore di turno, quale che sia la posta in gioco, e chiunque abbia, di quel gioco, le carte in mano.

Come si fa, a tornare a parlare con l’autista del taxi e con il compagno di viaggio? Come si fa a rischiare nuove relazioni vere e non virtuali, ad affrontare il conflitto della crescita resistendo alla tentazione di disconnettersi? Come si fa a parlare con i più giovani, a trasmettere la memoria e le esperienze, senza farsi travolgere dall’informazione spezzettata e disorganica, ma percepita come totale, di Youtube? Come si fa a smettere di inseguire l’ultimo modello di leader, e affrontare la fatica (e il conflitto, di nuovo) di costruire un modo diverso di fare politica? Le risposte non le porterà una cicogna, e sotto i cavoli è inutile cercare. Ma credo che di queste risposte ci sia bisogno: per sconfiggere Berlusconi, e per sconfiggere soprattutto il Berlusconi che, con radici ben insediate, cresce e si allarga dentro di noi.


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