«A Bolzaneto fu sospeso lo Stato di diritto»
Le motivazioni della Cassazione per le violenze del G8 nel 2001: ignorati principi-cardine del diritto
di Massimo Solani (l’Unità, 11.09.2013)
Un «completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto». La vergogna del G8 di Genova del 2001 e delle torture ai manifestanti fermati sta scritta anche nero su bianco nelle motivazioni con cui la Cassazione il 14 giugno scorso ha confermato le sette condanne e le quattro assoluzioni nei confronti di poliziotti, carabinieri, agenti e medici penitenziari responsabili delle violenze perpetrate a carico dei fermati nella caserma Bolzaneto.
E sono proprio i racconti di quanti trascorsero i giorni successivi nel centro di detenzione, secondo i giudici della Cassazione, a delineare un «trattamento» dei detenuti «contrario alla legge» e «gravemente lesivo della dignità delle persone» perpetrato attraverso «vessazioni continue e diffuse in tutta la struttura». «Non risulta scrivono i giudici della V sezione penale della Cassazione che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso i bagni o gli uffici) con le modalità vessatorie e violenze riferite dai testi». Nella sentenza si ricorda, ad esempio il caso di una ragazza accompagnata in bagno, costretta a mantenere il «capo chino all’altezza delle ginocchia» con la «torsione delle braccia dietro la schiena», mentre, al suo passaggio «poliziotti ai lati» continuavano con «percosse e insulti». L’agente donna che accompagnava la detenuta non fece desistere i colleghi, ma invitò la ragazza a «stare attenta a non cadere quando un agente le aveva fatto lo sgambetto».
Secondo i magistrati della Cassazione chiunque si sia trovato a prestare servizio in quei giorni a Bolzaneto non poteva non essere perfettamente al corrente di quanto stava accadendo. Le violenze infatti «producevano fonti visive, sonore e olfattive del tutto inequivocabili per chi, operando in quel ristretto ambito spaziale e muovendosi al suo interno, in quegli stessi eventi si trovava immerso alla stregua di un testimone oculare».
Secondo i magistrati, infatti, era di fatto impossibile che «all’interno della struttura potessero sfuggire a chicchessia le risonanze vocali (cioè gli ordini, i pianti, le grida, i lamenti, i cori), le risonanze sonore (cioè i transiti, le cadute, i colpi), le percezioni olfattive (cioè la puzza dell’urina, l’odore del gas urticante spruzzato, l’odore del vomito, del sudore e del sangue) e le tracce lasciate sui volti, sugli abiti, negli sguardi, negli ansiti e nella voce delle vittime». La colpa degli imputati, poi, sta anche nell’«avere avuto consapevolezza di tutto ciò» e «nell’avere omesso di impedirlo».
È un vero e proprio «catalogo degli orrori» quello ricostruito dai giudici: «lesioni con gas urticante», «percosse con calci, pugni schiaffi e colpi di manganello», «minacce» di vario tipo: una «chiara visione» di quello che stava accadendo non poteva non emergere dall’«aspetto atterrito e sanguinante degli arrestati», dal «modo in cui venivano apostrofati e trattati dai loro seviziatori», dalle «urla di dolore delle vittime» e appunto, da «canti e suoni inneggianti al fascismo che provenivano ora dall’esterno della caserma, ora dal corridoio». Ai no-global fermati poi, ricostruiscono i magistrati della Cassazione, furono «negati cibo e acqua» mentre a «diversi detenuti» venne anche imposto di «orinarsi addosso per essere loro vietato l’accesso al bagno». Un «contesto di ingiustificate vessazioni», conclusono i magistrati, «non necessitate dai comportamenti» dei fermati e «riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no-global».