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Europa. Italia....

G8. BOLZANETO. COME SE A GENOVA NON FOSSE SUCCESSO NULLA. Parla Marco Poggi, "l’infame". Intervista di Giuseppe D’Avanzo - a cura di pfls

giovedì 20 marzo 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare d’inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, (...)

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> G8. BOLZANETO. ---- Confermate le condanne per il massacro alla Diaz, azzerati i vertici della polizia (di Cludia Fusani). - Undici anni dopo ma ora devono spiegarci il perché (di Oreste Pivetta)

sabato 7 luglio 2012

Confermate le condanne per il massacro alla Diaz, azzerati i vertici della polizia Per i dirigenti della Polizia scatta l’interdizione, lo ha promesso il ministro Cancellieri dopo la conferma in Cassazione delle condanne per le violenze durante il G8 di Genova. Prescritti i reati di lesione per gli agenti

di Claudia Fusani (l’Unità, 06.07.2012)

ROMA La notte in cui in Italia fu sospesa la democrazia adesso ha dei colpevoli. Undici anni dopo giustizia è fatta. In nome del popolo italiano e di quei 93 ragazzi e ragazze ridotti in fin di vita. Il sangue della scuola Diaz adesso può essere lavato dai termosifoni e dalle pareti della scuola che nei giorni del G8 di Genova ospitava il quartier generale del Genoa social forum. Non può essere lavato dalla memoria, perchè le mattanze con l’alibi della divisa non possono mai essere ammesse in un paese civile. Ma, almeno, dalla lista dei conti in sospeso. Adesso si può tutti guardare avanti, le vittime, i magistrati, anche i condannati che non pagheranno con il carcere ma con l’interdizione dai pubblici uffici (per 5 anni) oltre ai risarcimenti. A suo modo, anche questa, una rivoluzione: tra i condannati in via definitiva per falso aggravato ( arresto arbitrario e calunnia sono già prescritti), ci sono infatti i vertici della polizia, il capo del DCA (divisione centrale anticrimine) Francesco Gratteri e Gilberto Caldarozzi, uno dei suoi collaboratori più stretti.

Si tratta degli uomini, ottimi investigatori, che tre settimane fa hanno consegnato alla giustizia l’attentatore di Brindisi, solo l’ultimo dei successi di una squadra di investigatori che ha segnato la storia dell’antimafia e dell’anticrimine ma che quella notte del 21 luglio 2001 a Genova ha sbagliato tutto, non l’ha mai ammesso e l’errore più grave non ha mai chiesto scusa. Condannato in via definitiva anche Gianni Luperi, capo sezione analisi dell’Aisi (ex Sisde), Filippo Ferri (oggi capo della squadra mobile di Firenze), Fabio Ciccimarra (numero 1 della Mobile a L’Aquila). Sono i “pezzi grossi” tra i 27 imputati che annoverano anche la manovalanza e i quadri intermedi dei reparti mobili che quella notte decisero e fecero l’irruzione nella scuola alla ricerca di pericolosi black bloc armati di molotov e spranghe e invece si trovarono davanti solo ragazzi e ragazze che stavano dormendo nei loro sacchi a pelo esausti dopo tre giornate d’inferno. Eppure, nonostante l’evidenza dell’errore, quegli agenti non si fermarono.

Nessuno esulta alle sette di sera nell’aula magna della Cassazione quando il presidente della V sezione Giuliana Ferrua legge il dispositivo dopo nove ore di camera di consiglio segnate dal caldo e dal nervosismo. Assenti, come sempre in questi anni, gli imputati. Delusione tra i banchi dei legali. Ma non c’è voglia di esultare neppure tra i pochi protagonisti di quella notte. Ci vuole tempo per comprendere il verdetto. E forse lo si capisce di più e prima guardando le facce degli avvocati dei poliziotti. Lorenzo Guadagnucci è un giornalista di QN, quella notte era nel suo sacco a pelo al primo piano della scuola e ne uscì in barella con altri 92. È il protagonista del film «Diaz» (interpretato da Elio Germano) nonchè l’autore di due libri-testimonianza, Noi della Diaz (2002, ed Altra economia) e L’eclisse della democrazia (Feltrinelli, insieme con Vittorio Agnoletto). Temeva, come molti, il peggio: assoluzioni parziali, soluzioni piolatesche, qualche rinvio in Appello, altre dilazioni che avrebbero significato la pietra tombale su un processo già sbranato dalla prescrizione. «Ringrazio la Cassazione dice per aver scritto parole di giustizia nonostante le condizioni di estrema pressione. La Corte è l’unica istituzione che ha saputo e voluto cogliere quest’ultima chance dopo undici anni in cui tutte le altre istituzioni, Governo, Parlamento, Polizia di stato, hanno sempre deciso di stare dalla parte sbagliata accettando la copertura e nascondendo l’evidenza che quella notte c’è stata una spaventosa lesione dei diritti umani».

Una sentenza inattesa quella della V sezione. Molti, quasi tutti, erano convinti che la Suprema Corte non avrebbe mai avuto il coraggio di confermare la sentenza di Appello che nel maggio 2010 aveva condannato tutti gli imputati ribaltando il verdetto di primo grado (novembre 2008) che aveva assolto quasi tutti, tranne gli agenti che avevano materialmente alzato i manganelli. Come se non ci fossero stati ordini superiori a farli alzare, quei manganelli. Ordini superiori che invece hanno deciso a tavolino di fare quel blitz a freddo, nei modi e nei tempi della mattanza. I giudici dell’Appello avevano sentenziato che per quei fatti dovevano essere ritenuta colpevole tutta la scala gerarchica, i capi e gli esecutori, chi ha dato gli ordini e chi li ha eseguiti. E, sempre l’Appello, aveva anche deciso che non potevano scattare le attenuanti (che avrebbero già fatto scattare la prescrizione) perchè «dai servitori dello Stato si deve pretendere un comportamento integerrimo sempre, anche durante il processo». Invece in questi anni ci sono state omissioni, reticenze, 20 imputati su 28 non hanno voluto testimoniare in aula.

È questo alla fine che ha pesato di più: l’atteggiamento di sufficienza, non aver mai preso coscienza e consapevolezza di quello che era successo. Quando ricopri certi ruoli, quando sei responsabile della sicurezza di un Paese, l’assunzione di responsabilità è un obbligo morale prima ancora che giudiziario. «La catena di comando è stata condannata e questo è un grande risultato. La Diaz però pagina nera per la democrazia italiana e il Parlamento non ha mai voluto una Commissione per individuare le responsabilità politiche» dice l’avvocato Francesco Romeo. Una sentenza severa. Dura. A suo modo beffarda: gli otto capisquadra del VII Nucleo Speciale della Squadra Mobile di Roma, i primi e gli unici ad essere condannati in primo grado per lesioni, si sono salvati grazie alla prescrizione che non fa scattare la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici.

Ora scatta l’obbligo del ricambio dei vertici della polizia. «Attueremo il dettato della Cassazione» dice il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri per cui la sentenza «chiude una vicenda dolorosa che ha segnato tante vite in queste undici anni». Ma, aggiunge Vittorio Agnoletto all’epoca portavoce del Genoa Social Forum, «se sono stati condannati il numero 2, 3 e 4 della polizia dell’epoca, come è possibile che non ci siano conseguenze per l’allora n ̊1 Gianni De Gennaro che oggi è addirittura sottosegretario del governo?». De Gennaro non è mai stato imputato per questo processo. Aveva delegato La Barbera (scomparso nel 2002). Lui, Il Capo, seguiva e concordava ogni passo da Roma.


-   Amnesty International
-  Importante, ma nessuno ha ancora chiesto scusa

-  l’Unità, 06.07.2012

«Una sentenza importante, ma resta l’amaro in bocca perché nessuno ha chiesto scusa». Così Amnesty International sulla sentenza della Corte di Cassazione su quanto avvenuto a Genova nel luglio 2001. «Finalmente e definitivamente dice Amnesty , anche se molto tardi, riconosce che agenti e funzionari dello Stato si resero colpevoli di gravi violazioni dei diritti umani di persone che avrebbero dovuto proteggere».

Tuttavia, Amnesty ricorda che i fallimenti e le omissioni dello Stato nel rendere pienamente giustizia alle vittime delle violenze del G8 di Genova sono di tale entità che queste condanne lasciano comunque l’amaro in bocca: arrivano tardi, con pene che non riflettono la gravità dei crimini accertati e che in buona parte non verranno eseguite a causa della prescrizione e a seguito di attività investigative difficili ed ostacolate da agenti e dirigenti di polizia che avrebbero dovuto sentire il dovere di contribuire all’accertamento di fatti tanto gravi. Soprattutto, queste condanne coinvolgono un numero molto piccolo di coloro che parteciparono alle violenze ed alle attività criminali volte a nascondere i reati compiuti.


Undici anni dopo ma ora devono spiegarci il perché

di Oreste Pivetta (l’Unità, 06.0720.12)

      • LA CASSAZIONE CONFERMA LE CONDANNE. CADE IL RISCHIO DELLA PRESCRIZIONE. QUALCOSA S’AGGIUNGE ALLA VERITÀ CHE SI SAREBBE DOVUTA COSTRUIRE NEL CORSO DI UNDICI ANNI FA ATTORNO A QUEL LUGLIO DI GENOVA, IL LUGLIO DEL G8.

La sentenza riguarda quanto avvenne nella notte alla scuola Diaz: quattrocento agenti a caccia di no global, giovani, ragazzi e ragazze, anche qualche signore e qualche signora di mezza età, tutti coricati nei loro sacchi a pelo sul pavimento della palestra della scuola Diaz. Accanto ad ognuno di loro la borsa, con gli indumenti di ricambio, lo spazzolino da denti, i biscotti, i barattoli di marmellata, qualche libro, qualche giornale. Questa la scena del delitto: una «scena» che secondo i «vertici» di polizia e carabinieri meritava l’assalto, lo sfondamento dei cancelli (aperti) con i gipponi, le botte, le manganellate, il sangue... Nel cuore della notte. Davanti al mondo intero. La coraggiosa sentenza, che certifica falsificazioni, bugie, i soliti tentativi di insabbiare, dice molto. Non tutto però. Undici anni dopo ancora non sappiamo perché.
Ricordo le parole, il giorno dopo, di un appuntato della pubblica sicurezza, non più giovane, uno che, agente in strada, aveva seguito tanti cortei, tante manifestazioni, dal nostro Sessantotto in poi: «Qui hanno perso tutti la testa». Ricordo quanto ancora testimoniò, Michelangelo Fournier, all’epoca dei fatti vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma: «Sembrava una macelleria messicana».

Mi è capitato di assistere alla macelleria messicana, di raccogliere le voci delle vittime e quelle di chi, dalle case attorno, risvegliate nel cuore della notte, vi aveva assistito e la mattina dopo constatava di persona: la palestra ridotta a un tappeto di banali oggetti di ogni giorno; i caloriferi, alti termosifoni di ghisa, impiastrati di sangue; i gradini delle scale allo stesso modo sporchi di sangue, mentre qui e là ciocche di capelli erano l’evidenza di un corpo trascinato giù per le scale; le porte dei gabinetti, un ingenuo rifugio nel caos, sfondate; i computer di un’aula tecnica rovesciati a terra; fino alla staccionata che chiudeva il corridoio, perché dall’altra parte era aperto il cantiere di un’ala dell’edificio in ristrutturazione (non è un particolare da poco, perché due mattine più tardi, per la conferenza stampa dei carabinieri, erano stati esposti come corpi di reato, martelli da carpentiere, chiodi da carpentiere, qualche asse spezzata).

Tutto nella sequenza di quei giorni, dagli scontri ai primi cortei delle “tute bianche” alla morte di Carletto Giuliani in piazza Alimonda, dall’assalto alla Diaz all’ultimo attacco alla manifestazione popolare, alle violenze nella caserma di Bolzaneto, ai cori fascisti, tutto continua a stupire, scandalizzare, inorridire, perché dai tempi di Scelba, dei caroselli con le jeep, delle cariche a cavallo, dei morti in strada (l’altro luglio, quello del Sessanta), malgrado il terrorismo, malgrado le bombe e i depistaggi, malgrado le perdite di memoria di ministri e generali, qualcosa sembrava cambiato nel rapporto tra istituzioni, forze dell’ordine, cittadini, e nel segno della democrazia. Genova, piazza Alimonda, la Diaz, Bolzaneto furono un salto nel buio di un passato, un salto cercato, voluto, pensato, come una rivincita e una vendetta, rispetto al quale non teneva e non tiene una giustificazione che si richiama alle tensione di quei giorni, alla forza dei “neri” spacca vetrine. Come se invece si fosse cercata la “lezione”. Per questo un conto sono i poliziotti o i carabinieri violenti, un conto sono quanti hanno armato quei poliziotti e quei carabinieri, quanti li hanno “istruiti”, anche ingigantendo le paure e le minacce.

Molti, giudicando quelle vicende, si sono chiesti che cosa avesse ordinato Berlusconi; quali disposizioni avesse dato il ministro Scajola; che cosa ci facessero a Genova tra i tavoli dei comandi dei carabinieri o della polizia Fini e il suo parlamentare Filippo Ascierto. Loro potrebbero raccontare, dire, ricordare, aiutarci a dissolvere la nebbia, che le condanne non hanno dissolto, perché certo si possono indicare le responsabilità dirette della “catena di comando”, ma siamo lontani dal dare un nome e un cognome a chi architettò quell’esplosione di violenza sotto gli occhi del mondo e per quale ragione. Dopo undici anni, si potrebbe (e qualcuno lo farà) organizzare il bilancio dei condannati e degli assolti (la maggioranza), sommare gli anni di pena, contare le prescrizioni, elencare quanti non hanno visto neppure le porte di un tribunale. Si potrebbero confrontare le accuse (per lo più falso aggravato, calunnia, lesioni gravi). Si potrebbero citare quanti hanno fatto carriera. Qualcuno è andato in pensione. Molti abbiamo imparato a conoscerli: Gratteri, Luperi, Mortola, Canterini (ha lasciato per limiti d’età), eccetera eccetera. Si potrebbe... Resta inevasa quella domanda: perché? Cioè, di chi fu la responsabilità politica. Resta, dopo undici anni, una pagina oscura, scritta con impressionante e imperscrutabile (per noi) determinazione.


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