Milano Metropoli Verticale Data di pubblicazione: 06.04.2008
di Cinzia Sasso (la Repubblica/Domenica, 6 aprile 2008, pp. 32-33)
All’appuntamento con l’Expo appena conquistata, fra sette anni esatti, si presenterà una città radicalmente cambiata: una selva di grattacieli griffati, monumenti di archeologia industriale richiamati alla vita, battelli che scivolano su vie d’acqua urbane. Ecco un viaggio tra i quindici mega-progetti che ridisegnano il suo futuro.
lI vento di aprile soffia insistente sulle fronde chiare del betullino e il fruscio arriva fino a dentro, mischiato con il fischio delle foglie di una quercia ancora giovane. Entra anche il profumo intenso del gelsomino che ha messo i primi fiori, e la macchia di colore rosso delle bacche del cratego. È il momento migliore, per il bosco. Il momento del risveglio. Ma questo è un bosco speciale: siamo in un appartamento di città, al ventisettesimo piano della torre "D" di Porta Nuova Isola, pareti di vetro che danno sul terrazzo, davanti una quinta di verde. E questo è il "Bosco Verticale", progettato dallo studio Boeri, novecento alberi alti fino a nove metri sovrapposti l’uno all’altro, salici e peri da fiore, ciliegi giapponesi e bambù, piantati piano sopra piano. Poco più su, sul tetto, volteggiano le pale eoliche che garantiscono energia. Molto più giù, invece, le sonde geotermiche pompano calore dal sottosuolo e da qualche parte le acque grigie, filtrate, tornano in circolo per l’irrigazione. Dalle finestre, tra le fronde, ecco a perdita d’occhio il profilo della città.
Ed ecco, appena in là sull’orizzonte, a nascondere le cime delle montagne, un altro bosco, stavolta semplicemente pensile. A centosessanta metri di altezza, che vuol dire al trentunesimo piano. Sul belvedere, con ristorante, del grattacielo che è la nuova sede della Regione Lombardia e che quassù vuole attirare cittadini e turisti. Un parallelepipedo di vetro progettato dall’architetto cinese della Piramide del Louvre, immaginato per celebrare la trasparenza e il buon governo, al centro di una grande piazza coperta da una cupola, dove migliaia di persone passeggiano e fanno shopping negli elegantissimi negozi; ma anche se ne stanno semplicemente sedute ai bordi della fontana circolare, pc sulle ginocchia, collegate col wi-fi. Un’opera grandiosa: centomila metri quadri edificati per un costo di 320 milioni di euro. La più maestosa delle opere commissionate da un ente pubblico dal tempo degli Sforza; l’erede, nelle intenzioni, del Castello.
Benvenuti a Milano 2015. Benvenuti nella città che ha vinto l’Expo e che per questo, da stanca metropoli post-industriale, smarrita e senza vocazione, ha ripreso a correre. Se l’iniezione di denaro prevista dal piano per l’esposizione - 4,1 miliardi di euro - permetterà la costruzione ex novo di un pezzo di città che oggi non esiste, il quartiere della fiera da più di un milione di metri quadrati, e il completamento di strade, linee di metropolitana, reti ferroviarie, una zona verde grande come tre Hyde Park e mezzo, perfino la creazione di una via d’acqua sulla quale scivolano i battelli, quella che fra sette anni si presenterà all’appuntamento con il mondo sarà in ogni caso una città completamente nuova. Ci saranno colline nel piatto della pianura; laghi là dove era asciutto. Ma sarà, soprattutto, una città verticale. Con grattacieli storti, sì anche sbilenchi; qualcuno colorato, altri con le guglie; certi che sembreranno essere lì lì per cadere, altri ancora perfino attorcigliati. Torri rivestite di vetro, acciaio, pietra, ma anche di bosco, addirittura di lamine d’oro. E tutti, questo è certo, saranno altissimi.
È come se a Milano si fosse scatenata una gara tra gli architetti di tutto il mondo per vedere chi inventa l’edificio più stupefacente. Spariti i vecchi immobiliaristi legati in qualche modo alla tradizione, ora anche i cantieri sono nelle mani di chi non ha mai avuto legami con la città, gli sviluppatori internazionali, che costruiscono a Londra come ad Abu Dhabi e che rispondono esclusivamente a logiche di profitto. L’obiettivo è diventato far rumore, farsi vedere, trasformare tutto in attrazione, vendere. Ma attrazione per chi? Per il mezzo milione di abitanti che negli ultimi trent’anni ha lasciato la città, che ci ritorna al mattino per lavorare ma che se ne va la sera? Nel 1972 Milano era una metropoli da un milione e settecentomila abitanti; oggi sfiora il milione e tre. Una città impoverita ma, soprattutto, una città che ha il drammatico problema del pendolarismo: 840mila ingressi ogni mattina, 510mila persone che arrivano in automobile, hanno dei costi altissimi. Far tornare i milanesi a Milano, smettere con l’edificazione delle città-satellite nell’hinterland, ricominciare a costruire solo al centro potrebbe essere un disegno per il futuro.
Ma per costruire in centro, è necessario soprattutto farlo in verticale. Vediamola, questa nuova città, dal ventottesimo piano della torre "D". All’orizzonte, a quel punto, i vecchi simboli saranno diventati insignificanti: la Madonnina, la Torre Velasca, il grattacielo Pirelli. Stracciati, in una classifica basata semplicemente sull’altezza, da almeno quindici nuovi "mostri" di acciaio, cemento, vetro e tanto verde. Disegnati dai più grandi architetti del mondo chiamati a operare ovunque, a riempire vuoti, a reinventare aree dismesse, a costruire dove per trent’anni non si è fatto. Sono quindici progetti giganteschi e 147 piccoli interventi, che l’abolizione del vecchio piano regolatore e la scomparsa della destinazione d’uso ha liberalizzato. Nasceranno quartieri nuovi e altri abbandonati torneranno a vivere; anche i comuni limitrofi avranno i loro simboli. Come Rozzano, con la torre Landmark, alta duecento metri. Perfino le caserme cittadine troveranno una seconda vita; e cambieranno pelle gli scali ferroviari abbandonati.
Il più grande piano di riqualificazione urbana si sta realizzando nella zona intorno all’Isola, vecchio quartiere tra la stazione Centrale e Garibaldi, che prevede l’edificazione di 350mila metri quadrati e la realizzazione di una delle aree pedonali più grandi della città, dentro la quale ci sarà la Biblioteca degli Alberi, un reticolo di percorsi tra piantumazioni di diverse essenze destinati a diventare anche percorsi didattici. Svetta, in questa zona, la nuova sede della Regione Lombardia, con i trenta piani, centosessanta metri, firmata dallo studio Pei. Il nuovo Pirellone si alza su un impianto formato da corpi allungati a serpentina, arrotondati, che si incrociano saldandosi in un unico edificio. Poco distante è Cesar Pelli a immaginare una torre che si innalza con tre guglie, stile Dubai estrema, e che guarda in una nuova piazza circolare e pedonale.
I mega-progetti in fase di esecuzione non sono raggruppati in una zona, identificabili con un quartiere: toccano tutta la città, anche quella considerata oggi periferia, anche comuni esterni, come Sesto San Giovanni e Rozzano, appunto. Ed è proprio questo il filo conduttore della Milano di domani, espresso chiaramente nel piano "Milano verso il futuro" dall’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli: superare il concetto centro-periferia, distribuire i servizi ovunque, creare una metropoli integrata e continua. Superare anche il confine tra città e hinterland, fare in modo che diventi una realtà «la grande Milano, nella quale Milano-città rappresenti il nodo principale di una costellazione». A sud-est, ad esempio, in un’area che ora è periferica, separata dal corpo metropolitano da ferrovia e tangenziale, la città cambierà volto con il progetto Santa Giulia, ideato da Norman Foster, l’archietto del St. Mary Axe, "The Gerkin", il grattacielo a forma di cetriolo che per primo ha cambiato lo skyline di Londra. Santa Giulia, che prende il nome da una chiesa che verrà costruita, è immaginato per essere abitato da cinquanta-sessantamila persone, dunque sulla carta è già promosso come modello di città nella città e di metropoli nel verde. Qui nascerà il Crescent, una zona residenziale d’eccellenza, high tech e domotica, energia rinnovabile, con appartamenti i cui costi partono da due milioni di euro.
Via le periferie, dunque. Come ha detto Renzo Piano, l’architetto che ha progettato l’area Falk, centocinquanta ettari di archeologia industriale, la città già delle fabbriche, degli altiforni e delle acciaierie, quella più intimamente legata alla storia della Milano operaia dove ogni mattina, al suonare delle sirene, arrivavano migliaia di persone in tuta blu. Piano vuole che la sua città resti una fabbrica: «Una fabbrica di idee, il mio Beaubourg a Sesto San Giovanni». È qui uno dei recuperi più straordinari di costruzioni di archeologia industriale, il laminatoio, destinato a diventare secondo il progetto della Provincia un museo di arte contemporanea, la nostra Tate Modern. Ed è qui che Carlo Rubbia sperimenterà gli "Elfi", veicoli a trazione elettrica o a idrogeno. Due torri, anche qui: alte duecento metri, direttamente sulla "Rambla", un ampio viale alberato che converge in un parco centrale.
Il primato dell’altezza spetta al progetto City Life, che è forse il più vistoso, immaginifico, sicuramente il più griffato. Nel quartiere storico della vecchia Fiera - quella costruita nel 1906, proprio per un’esposizione universale - stanno prendendo corpo i tre spettacolari grattacieli dell’architetto iracheno Zaha Hadid, del giapponese Arata Isozaki, di Daniel Libeskind, il progettista di Ground Zero: lo "storto", il "curvo" e il "dritto", alto, quest’ultimo, duecentodiciotto metri, cinquanta piani. Accanto ai tre giganti è previsto l’edificio del Museo di arte contemporanea, e la pianta complessiva prevede percorsi in mezzo al verde, corsi d’acqua con ponti trasparenti. Saranno, l’acqua e il verde, i nuovi elementi di Milano. Se da una parte c’è la ricerca di un simbolismo stravagante, dall’altra la qualità della vita assume un posto di primo piano. Il verde è dappertutto: si immagina un anello intorno alla città, fatto solo di boschi. Il piano generale per l’Expo prevede addirittura la rinascita di una via d’acqua, che giunga diretta al centro. Ma non saranno progetti troppo ambiziosi? Non sarà che ancora una volta, al passaggio dall’effimero al concreto tutto si ferma?
La storia dell’urbanistica milanese è storia di grandi incompiute. In ritardo sulle grandi città europee, su Barcellona e Berlino, sulla Parigi di Bercy e sulla Londra dei Docks, Milano sembra volere oggi ripensare a fondo il suo destino. Se davvero è uscita dalla crisi degli anni Novanta, se davvero la sua classe dirigente saprà non solo lasciare mano libera ai developers ma costruire un’idea di sviluppo, il momento è quello giusto. L’appuntamento con il mondo è fissato per il primo maggio del 2015.