Olimpiadi, i Nobel in campo per i diritti del Tibet
di Umberto De Giovannangeli *
I Nobel si schierano. Per il rispetto dei diritti umani in Cina, per l’autonomia del Tibet, perché il mondo non accompagni con un silenzio complice l’agonia del Darfur. E lo schierarsi significa firmare appelli, esporsi pubblicamente, compiere gesti altamente simbolici. Come quello di cui si è resa protagonista Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace 2004, che ha annunciato ieri di aver annullato la sua partecipazione alla staffetta per la fiaccola olimpica prevista per domani a Dar es Salaam, in Tanzania, unica tappa africana del suo percorso. «Sì, mi sono ritirata. Ho deciso di mostrarmi solidale con altre persone sulle questioni dei diritti umani nella regione del Darfur, in Tibet e in Birmania», spiega la premio Nobel.
I Nobel si schierano, prendono posizione, sostengono la mobilitazione non violenta contro le «Olmpiadi della vergogna». In prima fila è Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, simbolo, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime segregazionista sudafricano. L’arcivescovo si è espresso a favore di un «totale boicottaggio» dei Giochi olimpici, in programma dall’8 agosto a Pechino, se la Cina dovesse continuare a mostrarsi «irremovibile» sulla questione dei diritti umani, del conflitto in Tibet e sul Darfur. «Noi in Sudafrica siamo un esempio di quanto efficace possa essere il boicottaggio dei Giochi», ha dichiarato nei giorni scorsi Tutu. «Che non abbiamo più l’apartheid in Sudafrica - ha aggiunto - ha anche a che fare con il fatto che il mondo si è unito a noi e mise al bando l’allora governo sudafricano».
I Nobel prendono posizione e nel farlo mettono a nudo le contraddizioni e la doppia morale della realpolitik. Tra i più attivi nel promuovere appelli e iniziative pubbliche è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986. «Occorre mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate - ha spiegato Wiesel in una recente intervista a L’Unità -. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama di non abbassare la guardia e di sostenere con forza le ragioni del dialogo». Una tesi rilanciata con forza, sempre sull’Unità, da Adolfo Pérez Esquivel: «Il grido d’allarme lanciato dal Dalai Lama - afferma il premio Nobel per la pace argentino - va raccolto da tutti, governi, organismi internazionali, associazioni umanitarie, intellettuali. La repressione messa in atto dalle autorità cinesi è tanto più grave perché si esercita contro un movimento non violento, le cui rivendicazioni non minano l’integrità territoriale della Cina. È questo un punto centrale - rimarca Adolfo Pérez Esquivel - perché ciò che i monaci tibetani chiedono non è l’indipendenza ma l’autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese. Chiedono il rispetto della loro identità, difendono la libertà di culto, la loro cultura secolare, e lo fanno con la non violenza. Per questo oggi io dico: dobbiamo essere a loro fianco, perché non possiamo non dirci tibetani».
È su iniziativa di Elie Wiesel che ha preso corpo un appello al governo cinese sottoscritto da 26 premi Nobel i quali hanno deplorato e condannato la Cina per la violenta repressione messa in atto in Tibet e protestato contro le autorità cinesi per la loro campagna di denigrazione contro il Dalai Lama. «Noi, sottoscritti, premi Nobel - recita il documento - deploriamo e condanniamo il governo cinese per la sua violenta repressione esercitata sui manifestanti tibetani. Sollecitiamo le autorità cinesi a fare esercizio di moderazione nel trattare con questi disarmati, pacifici dimostranti». «Protestiamo - prosegue la dichiarazione dei 26 Nobel - per la campagna ingiustificata di denigrazione condotta dal governo cinese contro il nostro collega premio Nobel, Sua Santità il Dalai Lama. Contrariamente alle ripetute affermazioni delle autorità cinesi, il Dalai Lama non reclama la separazione della Cina, ma l’autonomia religiosa e culturale. Questa autonomia è fondamentale per la conservazione dell’antico patrimonio culturale». A schierarsi non sono solo Nobel per la pace, come Wiesel, John Hume, Betty Williams, ma anche Nobel per la letteratura, come John Coetzee, Wole Soyinka, della Medicina, come Arvid Carlsson, Gunter Blobel, Paul Greengard, Eric R.Kandel, Erwin Neher, Richard J. Roberts, Phillip A.Sharp, Torsten N. Wiesel, Baruj Benacerraf, dell’Economia - Finn E.Kyland, Clive W.J.Granger - della Fisica - Alexei Abrikosov, Brian D. Josephson, H.David Politzer - della Chimica - Peter Agre, Paul J. Crutzen, Avram Hershko, Roald Hoffman, Roger Kornberg, Jens C. Skou -......
Non solo Tibet. Non solo i diritti umani in Cina. Atri dossier caldissimi riguardano Birmania e Darfur e chiamano ancora in causa la Cina. A protestare per il sostegno dato da Pechino alla giunta militare birmana sono 8 premi Nobel per la Pace - tra i quali Adolfo Pérez Esquivel, Maillad Maguire, Rigoberta Menchu e Jody Williasms. Sul Darfur, gli stessi Nobel chiedono al governo cinese di sospendere le relazioni economiche con il Sudan, ricordando che «il governo cinese acquista circa i due terzi del greggio sudanese e vende armi a Khartoum, molte delle quali utilizzate nel conflitto in Darfur, che ha causato almeno 200.000 morti e 2,5 milioni di profughi e sfollati...».
Una denuncia rilanciata con forza da Jody Williams: «Tutti noi - afferma la premio Nobel - dobbiamo dire chiaramente che la politica di “non interferenza” di Pechino non può essere tollerata. Dobbiamo svincolarci dal potere delle aziende cinesi non soltanto per la gente del Darfur, ma per i birmani, i tibetani e i congolesi, per non parlare dei milioni di cinesi cui è negato ogni genere di diritto umano». A fianco dei Nobel si sono schierate anche star del cinema, tra le quali Richard Gere. «In questa situazione - ha dichiarato l’attore americano, amico personale del Dalai Lama - se i cinesi non agiscono in modo corretto, non cambiano il loro modo di fare, non riconoscono ciò che sta succedendo e non consentono libero accesso alle comunicazioni, allora penso che dovremmo assolutamente boicottare» i Giochi di Pechino. Una prospettiva - quella del boicottaggio - che non trova il consenso di Mikhail Gorbaciov, premio Nobel per la Pace nel 1990- «Bisogna sostenere e appoggiare le Olimpadi che sono l’incontro di popoli e i giovani sono il futuro di questi popoli. Ma - afferma Gorbaciov - se dobbiamo dire qualcosa ai nostri amici cinesi, dobbiamo farlo». Mantenere alta la guardia. Non è un appello. È l’impegno che i Nobel si sono assunti. Perché, ricorda Elie Wiesel, che quella del «Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è mai stato animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste...». Un popolo da sostenere.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.08, Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.39