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Natura e Cultura. Ricerca scientifica ...

EVOLUZIONISMO. La teoria di Charles Darwin si evolve ancora e finisce su internet. Una nota di Alessia Grossi - a cura di Federico La Sala

sabato 19 aprile 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] online la prima bozza della rivoluzionaria teoria sull’evoluzione e altri documenti di Darwin consultabili gratuitamente grazie ad un’iniziativa dell’università di Cambridge.
L’obiettivo è quello di far conoscere meglio e su scala planetaria il pensiero di uno scienziato che «ha cambiato la nostra comprensione della natura».
Oltre ai documenti d’archivio - circa 20mila - il sito di Darwin rende possibile l’accesso a circa novantamila fotografie dello scienziato e la sua opera [...] (...)

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> EVOLUZIONISMO. -- Cavalli-Sforza, addio al pioniere che si fece maestro. Il figlio ricorda: "L’evoluzione culturale? Lévi-Strauss gli disse che era un po’ troppo complicata..."

domenica 2 settembre 2018

1922- 2018

Cavalli-Sforza, il signore dei geni

Dal sesso dei batteri al Dna dell’umanità, addio al pioniere che si fece maestro

di Telmo Pievani (Corriere della Sera, 02.09.2018)

Oggi tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli-Sforza, il grande genetista spentosi all’età di 96 anni a Villa Buzzati di Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura campi di studio prima inesplorati. Forse anche perché era alto, elegante e carismatico, ora che non c’è più viene da pensare ai giganti della scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro spalle.

Dopo gli studi di Medicina a Torino e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della guerra, Cavalli-Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica del moscerino della frutta da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso, fratello dello scrittore Dino. Fu Buzzati Traverso a suggerirgli di aggiungere come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua carriera e gli darà quattro figli.

Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A. Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi premio Nobel nel 1958 a soli 33 anni, Cavalli-Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri, cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un batterio e l’altro. Dal 1951 ricoprì uno dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma, dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e degli antichi spostamenti di popolazioni.

Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni, ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia demografica, alberi genealogici e cognomi. Collaborò con l’Istituto sieroterapico milanese e dal 1962 fu professore di ruolo all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo, guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori del deserto africano del Kalahari, e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale. L’incontro con la diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.

Non sempre in armonia con le logiche accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli-Sforza lasciò l’Italia per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni all’ateneo americano di Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che mirava a ricostruire per via genetica l’albero genealogico dell’umanità. Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul Dna mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto, circa 60 mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le lingue del mondo. Geni, popoli e lingue (Adelphi) è uno dei suoi libri di maggior successo.

Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Ne discende, e Cavalli-Sforza lo capì subito, che la separazione dell’umanità in «razze» ben distinte non regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa, dove ce n’è di più.

Collaborando con archeologi e linguisti, cominciò a utilizzare le comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti, come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa, e per scoprire la struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo di diversità).

Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un’opera monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani (Adelphi). Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura (Codice). Il valore della scienza di Cavalli-Sforza sta tutta in quella domanda, Chi siamo, che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza; due volumi editi da Mondadori). La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel 2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò una mostra importante, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal presidente della Repubblica.

Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli-Sforza ha dato alla scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali, accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle lauree honoris causa. Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e nella lotta ai pregiudizi antiscientifici. Era un uomo schietto, ironico, libero, che avresti voluto interrogare su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile curiosità, sulla natura e sull’umano.


La Scomparsa di Cavalli Sforza

L’uomo che mostrò l’unicità dell’uomo

Se n’è andato lo scienziato che ci ha spiegato come l’umano sia uno solo, frutto di un mosaico di contaminazioni. Un innovatore da Nobel (che non gli fu dato) fin dalle ricerche sui microrganismi: come fanno l’amore i batteri?

di Guido Barbujani (la Repubblica, Robinson, 02.09.2018)

Con Luca Cavalli-Sforza, scomparso venerdì pomeriggio nella sua casa di Belluno, non se ne va solo una delle menti italiane più brillanti del Ventesimo secolo. Se ne va un formidabile innovatore: l’uomo che, nel corso di sessant’anni, ha portato la genetica mondiale a trasformarsi da una scienza artigianale - un bancone, qualche moscerino, poche attrezzature e tante idee - a una grande impresa transnazionale ad altissimo contenuto tecnologico. Se la moderna scienza dei genomi oggi ci offre possibilità senza precedenti di comprendere i meccanismi di base della vita, è merito di un piccolo gruppo di scienziati dalla vista lunga, con Luca Cavalli-Sforza appunto in prima fila. Lo chiamavamo tutti Luca, ma in realtà si chiamava Luigi.

Sull’origine del Luca circolano due leggende. Secondo la prima, pare che il padre della genetica italiana, Adriano Buzzati-Traverso, lo chiamasse Luca per sbaglio, e poi si giustificasse dicendo che comunque aveva "una faccia da Luca". Preferisco l’altra, secondo cui, arrivato in America, resosi conto che lì tutti hanno il middle name, aveva deciso di inventarsene uno. Aveva preso le prime sillabe del nome e del cognome e, baciato dalla grazia in questo come in tanti altri aspetti della vita, ne aveva ottenuto un nome, Luca.

Luca sembrava davvero un uomo baciato dalla grazia. Dava un’impressione di leggerezza, sia che derivasse formule matematiche sul bloc notes (lo faceva a velocità spaventosa) sia che prendesse la parola in consessi internazionali. Tutto quello che faceva era elegante, nulla di quello che faceva sembrava richiedere il minimo sforzo: a lui, voglio dire, mentre tutti gli altri, compreso chi scrive, dovevano sudare per star dietro ai suoi ragionamenti che poi, una volta esposti, sembravano limpidi, quasi banali. Versatile e curioso di tutto, aveva cominciato studiando la Drosophila, il moscerino della frutta caro ai genetisti, e poi, a Cambridge, i batteri. È stato lui a scoprire i cosiddetti ceppi Hfr, che avrebbero permesso di capire come è fatto il DNA del batterio Escherichia coli, nel frattempo rivelando stupefacenti aspetti della vita sessuale (sì, sessuale) di queste creature.

Ma nei libri di testo del futuro Cavalli- Sforza sarà ricordato soprattutto per il suo fondamentale contributo alla genetica umana. Mentre, nell’ultimo decennio del XX secolo, si lavorava intensamente a leggere l’intero genoma umano, Cavalli- Sforza aveva capito prima di tanti altri che un solo genoma non ci può dire molto. Quello che conta veramente, quello che fa di ognuno di noi un individuo unico e irripetibile, sono le nostre differenze, e quindi, per capirle, bisogna studiare tanti genomi. Il progetto HGDP, lo " Human Genome Diversity Project", da lui promosso e difeso quando la competizione per i fondi era durissima e la concorrenza spietata, è stata la chiave per comprendere meglio le cause di complesse malattie genetiche, e al tempo stesso rivelare aspetti sorprendenti della nostra vicenda evolutiva.

Io però penso che la cosa più importante nella luminosa carriera scientifica di Luca Cavalli-Sforza sia un’altra, e risalga agli anni Settanta. La genetica di popolazioni, la disciplina che più di ogni altra ha beneficiato della sua creatività e capacità organizzativa, allora era una disciplina modesta. Certe malattie genetiche sono trasmesse da portatori sani che, sposandosi, hanno una probabilità su quattro di fare un figlio malato; all’epoca non esistevano test sul DNA, i portatori sani erano difficili da individuare; la genetica di popolazioni cercava di minimizzare il rischio che si sposassero fra loro. Per primo, Luca Cavalli- Sforza capisce che nelle nostre cellule c’è ben di più: che il messaggio lasciato nel nostro DNA dalle generazioni precedenti ci permette di illuminare aspetti del passato altrimenti inconoscibili. Le prime vicende della preistoria umana in Africa; le migrazioni che hanno portato Homo sapiens a colonizzare tutto il mondo; e i continui scambi che hanno fatto della nostra specie il mosaico che è; su tutto questo oggi sappiamo molto, grazie a una geniale intuizione di Luca Cavalli-Sforza (e a quelli che hanno saputo seguirla).

Non gli hanno dato il Nobel; se lo meritava. A Stoccolma non hanno mai riconosciuto alla biologia evoluzionistica il peso che dovrebbe avere. Luca Cavalli-Sforza ha lasciato però tanti allievi, in Italia e all’estero. Pochi come lui hanno saputo attraversare i confini fra discipline diverse, sviluppando collaborazioni con antropologi, biologi molecolari, demografi, ecologi, linguisti, archeologi e storici (difficilissime quelle con i linguisti). Pochi come lui hanno saputo affascinare con le loro idee, formando generazioni di giovani scienziati che gli saranno per sempre debitori. In Italia non è un’esagerazione dire che, in un modo o nell’altro, siamo tutti suoi figli, noi genetisti. Io, in realtà, meno di altri, di chi ha lavorato per anni con lui, a Parma, a Pavia, e poi a Stanford. Laura Zonta, Suresh Jayakar, Gianna Zei, Alberto Piazza, Paolo Menozzi, Italo Barrai... mi scuso se non posso nominarli tutti. Come a loro, da oggi mi mancherà uno dei grandi italiani del secolo. Siamo un po’ più soli, e più tristi.


Curioso e libero così era mio padre

Hanno lavorato (e scritto) assieme per vent’anni.

E ora il figlio, da sempre stregato dalla sua capacità di scoprire strade nuove, ricorda: "L’evoluzione culturale? Lévi-Strauss gli disse che era un po’ troppo complicata..."

di Francesco Cavalli Sforza (la Repubblica, 02.09.2018)

Luca Cavalli- Sforza si è spento nel pomeriggio di venerdì, a 96 anni, nella casa di famiglia a Belluno dove trascorreva l’estate. Era Luigi all’anagrafe, Luca per gli amici. Da qualche settimana non riusciva ad alzarsi dal letto, non per malattia ma per la debolezza dell’età. È trascorso serenamente, in compagnia del figlio maggiore, Matteo, e di sua moglie Kima Guitart. Lascia i quattro figli avuti dalla moglie, Alba Maria Ramazzotti, scomparsa tre anni prima di lui. Luca era mio padre, e per vent’anni abbiamo lavorato insieme a divulgare quanto si andava scoprendo sull’evoluzione dell’uomo moderno, al cui studio aveva dedicato la vita. Spesso erano scoperte sue.

Abbiamo raccontato la sua autobiografia scientifica in un libro scritto a quattro mani, Perché la scienza: l’avventura di un ricercatore (Mondadori, 2005). Uno degli aspetti che ho sempre trovato più stimolanti dell’attività di mio padre è stata la sua capacità di imboccare strade nuove, ogni volta che se ne offriva la possibilità, e di lavorare in parallelo a più progetti scientifici, anche molto distanti tra loro.

Nei decenni "americani" ma in costante collegamento con il laboratorio di Pavia l’affluire continuo di dati genetici sulle più diverse popolazioni del mondo gli permetteva di ricostruire con precisione sempre maggiore l’evoluzione biologica dell’umanità moderna. In parallelo, però, si applicava a studiare l’evoluzione culturale umana, fino ad allora ignorata dagli antropologi («Perché è troppo complicata » , gli dirà Levi-Strauss incontrandolo) ma ovviamente fondamentale nello studio della nostra specie. Lavorando con il matematico e biologo Marcus Feldman produce un testo di modelli di evoluzione culturale. In collaborazione con l’archeologo Albert Ammermann ricostruisce la diffusione dell’agricoltura in Europa, dimostrando che si è trattato in larga parte di una diffusione demica, cioè della progressiva diffusione degli agricoltori, anziché della diffusione di una tecnologia, l’agricoltura. Con i colleghi Alberto Piazza, di Torino, e Paolo Menozzi, di Parma, pubblica nel ’ 97 History and Geography of Human Genes ( Storia e geografia dei geni umani, Adelphi 1997), con 800 grafici che mostrando la distribuzione dei geni sul pianeta illustrano la storia delle popolazioni umane. Con i linguisti Joseph Greenberg, Merritt Ruhlen e Bill Wang studia l’evoluzione del linguaggio, vera architrave della cultura umana.

Un altro aspetto che ho sempre trovato di grande valore è stata la sua capacità di collaborare con colleghi dei più svariati campi di studio, nel comune impegno a ricostruire il nostro passato portando a convergere i contributi offerti dalle più diverse discipline. Non ha mai scordato le sue origini di medico, pur avendo praticato poco l’attività clinica e solo al principio della carriera, e ha contribuito con le sue competenze alle più svariate ricerche di medicina genetica, un ambito divenuto sempre più importante negli ultimi decenni, pur rifiutando le offerte di applicare in ambito commerciale e farmaceutico le sue competenze. Il suo interesse è sempre stato rivolto alla semplice conoscenza, alla comprensione dei fenomeni. Penso considerasse limitanti e decisamente ambigue le applicazioni di tipo economico. Con altri colleghi, crea negli anni ’90 il Progetto della diversità genomica umana, mettendo a disposizione dei ricercatori, sulla base di un rigoroso codice etico, i dati genetici di una cinquantina di popolazioni aborigene.

Nei primi anni del secolo, lo sviluppo dei metodi di sequenziamento del genoma gli permette di ricostruire, con il gruppo di ricerca di Stanford, l’albero genealogico del cromosoma Y, che definisce il sesso maschile e viene trasmesso dal padre ai figli maschi, fino a risalire all’"Adamo Y", il cui cromosoma Y, in forma diverse, tutti noi maschi portiamo. Un’ultima ricerca, pubblicata quasi dieci anni fa, mostra la leggera ma continua perdita di diversità genetica dai luoghi d’origine della diffusione umana, in Africa orientale, fino ai suoi punti più lontani, nelle isole del Pacifico. È un risultato che conferma in pieno sia la nostra origine africana sia l’importanza del caso nell’evoluzione, ma soprattutto illustra i modi in cui è avvenuta la diffusione umana sul pianeta, attraverso un serie di tappe contrassegnate dall’"effetto del fondatore".

Per noi figli, il suo legato va ben al di là di ciò che ha scoperto e delle strade che ha tracciato. Ci lascia la sua libertà di spirito, l’indipendenza e l’onestà intellettuale, l’apertura verso tutto e tutti, la curiosità inesauribile, il rifiuto di qualunque dogmatismo, anche in campo scientifico. Diceva che l’unico contributo che si può dare agli altri è con il proprio esempio, e sempre ha aiutato chi incontrava, incoraggiandolo e promuovendone le capacità. Siamo tutti laici in famiglia, ma non per questo pensiamo che nostro padre sia scomparso: sappiamo anzi che le sue indicazioni resteranno con noi, e che la strada che ha tracciato, molto al di là delle sue realizzazioni scientifiche, offre itinerari che sarà affascinante percorrere


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