intervista
Il furto delle idee e l’etica del filosofo
Salvatore Natoli riflette sui plagi di Galimberti a suo danno: «So tutto da vent’anni. Sono dispiaciuto, ma non ho voluto far polemica»
DI EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 23.04.2008)
Per Salvatore Natoli, il filosofo dai cui saggi Umberto Galimberti ha attinto a piene mani per il suo Gli equivoci dell’anima - come mostrato ieri su queste pagine -, le citazioni a ’virgolette dimenticate’ non sono state una sorpresa. Commenta le rivelazioni di Avvenire con un tono che fa trasparire dispiacere e tristezza, ma nessuna aggressività: «Sono cose di più di vent’anni fa, c’è stato per me il tempo di rielaborare. In questi casi, o attacchi o te ne fai una ragione. Fidando che prima o poi qualcuno se ne accorgerà».
Professor Natoli, ritiene che la nuova edizione del saggio di Galimberti, che contiene diversi - anche se parziali - riferimenti al suo lavoro, abbia rimesso le cose a posto?
«Per me la cosa, evidentemente, è molto antica. Quando me ne sono accorto la prima volta mi sono molto dispiaciuto, visto che avevo un rapporto di fiducia e di amicizia con Galimberti. Poi però, nonostante che in numerose occasioni altri lettori e amici mi facessero rilevare questi plagi, non ho voluto fare polemiche. Così ho anche trascurato, diciamo così, di controllare nella seconda edizione quanto sia stato effettivamente rettificato. Proprio non l’ho vista: il libro l’avevo già letto, avrei dovuto rileggerlo attentamente per controllare se avesse messo le virgolette o meno. E la cosa non mi andava granché. Insomma: io non so quanto la correttezza filologica sia stata ripristinata. Io ho visto solo la prima edizione, e mi sono reso conto di tutto quello che poi voi avete pubblicato, e anche molto di più. Ma ho lasciato stare».
Un caso isolato?
«Beh, una cosa analoga mi è poi successa con il Dizionario dei vizi e delle virtù (Feltrinelli 1996), nel quale avevo raccolto la mia rubrica ’Altri termini’ pubblicata su Avvenire tra il 1995 e il 1996. Nell’estate del 2001, Galimberti ha pubblicato una sua serie dedicata ai vizi su La Repubblica. Ricordo che fu mia sorella a segnalarmelo: ’Guarda che ci sono dei pezzi, su Repubblica, dove il Dizionario dei vizi e delle virtù è ricopiato!’. Allora avevo preparato anche un dossier... Poi, anche in questo caso, quando è uscito il libro in cui Galimberti raccoglieva quegli articoli ( I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli 2003) ho visto, sfogliandolo velocemente, che mi citava. Ancora una volta, non ho controllato se metteva genericamente Natoli o se virgolettava in modo adeguato».
Come ha reagito?
«La cosa mi è dispiaciuta, ovviamente, ma non ho fatto ulteriori indagini: non avevo intenzione di sollevare pettegolezzi - perché i non addetti ai lavori, quando succedono cose di questo genere, parlano immediatamente di pettegolezzi tra filosofi. Volevo evitare di cadere in situazioni triviali. Insomma, dicevo tra me e me, prima o poi, qualcuno se ne accorgerà ».
Ma la voglia di denunciare i fatti le sarà pur venuta...
«La tentazione di fare un’uscita pubblica, sì, una volta l’ho avuta. Ma poi hanno prevalso le ragioni che le dicevo, oltre ad altre considerazioni, più personali - nonostante la scopiazzatura, con Galimberti avevo pur sempre un rapporto, se non di amicizia, quantomeno di cordialità ».
Le sembrano plausibili le scuse invocate da Galimberti con Giulia Sissa, le ’dimenticanze’ di virgolettati?
«Ovviamente, sul caso particolare della Sissa non so nulla: all’epoca lessi sì il libro dell’antropologa, Il piacere e il male, ma poi non mi sono certo messo a cercare i riscontri con L’ospite inquietante di Galimberti. Per quanto riguarda invece i miei testi pubblicati su Avvenire, direi che lì la questione è patente. Quale commento vuole che faccia? È tutto lì da vedere. Sono dispiaciuto, sono cose che da certe persone non ti aspetteresti. Poi io ho abbandonato la presa, mi trovavo in una situazione molto scomoda: la gente leggeva e se ne accorgeva, molte persone venivano da me e mi dicevano ’guarda che Galimberti ha preso da te, ma non reagisci?’. Boh, si vedrà, qualcuno se ne accorgerà. E alla fine è successo».
I fatti emersi in questi giorni rischiano di gettare un’ombra sull’intera opera di Galimberti?
«Certo sono fatti ricorrenti. Tra l’altro, al di là delle citazioni letterali, de Gli equivoci dell’anima la cosa che più mi era dispiaciuta era la parafrasi, l’ispirazione teorica. Perché la cosa più grave in questi casi - non parlo solo di Galimberti, parlo in generale - non sono tanto le citazioni puntuali, che tutti possono evidentemente controllare, ma la parafrasi dei concetti, l’impossessarsi di un patrimonio di elaborazione. È la dimensione più difficile da controllare, e anche la più pesante per un autore. E la più grave: dal plagio letterale ti puoi difendere, dalla parafrasi no».
Così, è come se due capitoli interi de «Gli equivoci dell’anima» fossero stati praticamente presi di peso da quei suoi lavori?
«Direi di sì. E forse anche l’impianto dell’intero libro».
Tra l’altro, trattandosi di opere filosofiche, il debito intellettuale nei confronti dell’elaborazione del pensiero non è ancora più grave?
«Qui il discorso da fare è un altro: a reagire dovrebbe essere la comunità scientifica. Ci vuole un’etica della scrittura. Purtroppo, io ritengo in generale che oggi la ricerca sia subalterna e timida nei confronti dei soggetti mediatici. E questo, indipendentemente da Galimberti, è grave: se davanti al successo la comunità scientifica si intimidisce, il vulnus ricade sulla formazione dei giovani. E questo da un punto di vista formativo e pedagogico è devastante».
È un limite del sistema accademico e culturale italiano in particolare?
«Direi di sì. Dinnanzi a queste cose si reagisce poco, nel senso che il successo mediatico mette soggezione, e quindi lo si asseconda. Invece la comunità scientifica dovrebbe reagire. Questi episodi vanno contro ogni valorizzazione dell’originalità di pensiero».
E su «Repubblica» si «ispirava» alle rubriche di «Avvenire»
L e altre sospette affinità tra gli scritti di Galimberti e quelli di Natoli riguardano le rispettive rubriche «I vizi capitali», apparsa su «La Repubblica» nell’estate del 2001 e poi confluita nel volume «I vizi capitali e i nuovi vizi» (Feltrinelli 2003), e «Altri termini», uscita in «Agorà» nel 1995-96 e poi raccolta in «Dizionario dei vizi e delle vritù» (Feltrinelli 1996). Nonostante Galimberti avesse ben presente la precedente opera di Natoli, tanto da citarne alcuni brevissimi passi con le dovute virgolette, spesso trascura di attribire al vero autore passaggi anche lunghi, che così si presentano come farina del sacco del filosofo di «Repubblica».
A titolo di esempio, riportiamo un brano sull’invida di Natoli e il suo gemello, non virgolettato né attribuito, di Galimberti: NATOLI. «In una società in cui l’inuguaglianza è assunta come un dato naturale e intrasformabile, si sarà indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e perciò stesso sarà più facile tollerare il proprio limite. Non così, evidentemente, in una società in cui la disuguaglianza la si ritiene innaturale e ancor più prodotto del disordine e dell’iniquità sociale [...]. Si riescono a trovare buone ragioni per trasformare l’invidia in virtù travestendo il sentimento di distruzione dell’altro in istanza di giustizia [...]. Il non ratificare facilmente il successo dell’altro fa sì che divenga legittimo richiedere all’altro le credenziali del suo successo. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esibirle».
GALIMBERTI. «Nelle società in cui la disuguaglianza è assunta come un dato naturale si è indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e a tollerare il proprio limite, mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta innaturale, se non addirittura il prodotto dell’iniquità sociale, l’invidia può rivestire i panni della virtù e trasformarsi in istanza di giustizia, per cui diventa legittimo chiedere a chi ha successo le credenziali della sua fortuna. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esibirle». (E.C.) La sua serie sui vizi era assai «simile» agli articoli già usciti sul nostro giornale