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In principio era la Parola di Amore ("charitas") o di Mammona ("caritas" = caro-prezzo)?!

FURTO O DONO? LA CECITA’ DEL DESIDERIO, LA NEGAZIONE DELL’ALTRO, E "LA VITALITA’ DELLA NOSTRA ESISTENZA". La risposta "ambivalente" di Umberto Galimberti a una lettera di Giuseppe Ferrara - a cura di pfls

mercoledì 23 aprile 2008 di Maria Paola Falchinelli
[...] che cos’è davvero il desiderio? È, come tutti credono, l’amore per l’altro? Roland Barthes ci mette in guardia da questa idilliaca persuasione perché, nella forma dell’amore per l’altro, in realtà "io desidero il mio desiderio, e l’essere amato non è altro che il suo accessorio". E di rincalzo Freud scrive: "Dove amiamo non proviamo desiderio, e dove lo proviamo non possiamo amare".
Ignorando il reciproco scambio che si è soliti supporre in ogni relazione d’amore, il desiderio, (...)

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> FURTO O DONO? LA CECITA’ DEL DESIDERIO, LA NEGAZIONE DELL’ALTRO, E LA VITALITA’ DELLA NOSTRA ESISTENZA. La risposta "ambivalente" di Umberto Galimberti .... Il furto delle idee e l’etica del filosofo (Interv. a Salvatore NATOLI di Edoardo CASTAGNA),

mercoledì 23 aprile 2008

intervista

Il furto delle idee e l’etica del filosofo

Salvatore Natoli riflette sui plagi di Galimberti a suo danno: «So tutto da vent’anni. Sono dispiaciuto, ma non ho voluto far polemica»

DI EDOARDO CASTAGNA (Avvenire, 23.04.2008)

Per Salvatore Natoli, il filosofo dai cui saggi Umberto Galim­berti ha attinto a piene mani per il suo Gli equivoci dell’anima - come mostrato ieri su queste pagine -, le citazioni a ’virgolette dimenti­cate’ non sono state una sorpresa. Commenta le rivelazioni di Avvenire con un tono che fa trasparire dispia­cere e tristezza, ma nessuna aggres­sività: «Sono cose di più di vent’anni fa, c’è stato per me il tempo di riela­borare. In questi casi, o attacchi o te ne fai una ragione. Fidando che pri­ma o poi qualcuno se ne accorgerà».

Professor Natoli, ritiene che la nuo­va edizione del saggio di Galimber­ti, che contiene diversi - anche se parziali - riferimenti al suo lavoro, abbia rimesso le cose a posto?

«Per me la cosa, evidente­mente, è molto antica. Quando me ne sono ac­corto la prima volta mi so­no molto dispiaciuto, visto che avevo un rapporto di fiducia e di amicizia con Galimberti. Poi però, no­nostante che in numerose occasioni altri lettori e a­mici mi facessero rilevare questi plagi, non ho volu­to fare polemiche. Così ho anche trascurato, diciamo così, di controllare nella se­conda edizione quanto sia stato effettivamente retti­ficato. Proprio non l’ho vi­sta: il libro l’avevo già letto, avrei dovuto rileggerlo at­tentamente per controlla­re se avesse messo le vir­golette o meno. E la cosa non mi andava granché. Insomma: io non so quanto la cor­rettezza filologica sia stata ripristina­ta. Io ho visto solo la prima edizione, e mi sono reso conto di tutto quello che poi voi avete pubblicato, e anche molto di più. Ma ho lasciato stare».

Un caso isolato?

«Beh, una cosa analoga mi è poi suc­cessa con il Dizionario dei vizi e del­le virtù (Feltrinelli 1996), nel quale a­vevo raccolto la mia rubrica ’Altri termini’ pubblicata su Avvenire tra il 1995 e il 1996. Nell’estate del 2001, Galimberti ha pubblicato una sua se­rie dedicata ai vizi su La Repubblica. Ricordo che fu mia sorella a segna­larmelo: ’Guarda che ci sono dei pez­zi, su Repubblica, dove il Dizionario dei vizi e delle virtù è ricopiato!’. Al­lora avevo preparato anche un dos­sier... Poi, anche in questo caso, quando è uscito il libro in cui Galim­berti raccoglieva quegli articoli ( I vi­zi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli 2003) ho visto, sfogliandolo veloce­mente, che mi citava. Ancora una vol­ta, non ho controllato se metteva ge­nericamente Natoli o se virgolettava in modo adeguato».

Come ha reagito?

«La cosa mi è dispiaciuta, ovviamen­te, ma non ho fatto ulteriori indagi­ni: non avevo intenzione di sollevare pettegolezzi - perché i non addetti ai la­vori, quando succedono cose di questo genere, par­lano immediatamente di pettegolezzi tra filosofi. Vo­levo evitare di cadere in si­tuazioni triviali. Insomma, dicevo tra me e me, prima o poi, qualcuno se ne ac­corgerà ».

Ma la voglia di denuncia­re i fatti le sarà pur venu­ta...

«La tentazione di fare un’u­scita pubblica, sì, una vol­ta l’ho avuta. Ma poi han­no prevalso le ragioni che le dicevo, oltre ad altre con­siderazioni, più personali - nonostante la scopiazza­tura, con Galimberti ave­vo pur sempre un rappor­to, se non di amicizia, quantomeno di cordia­lità ».

Le sembrano plausibili le scuse in­vocate da Galimberti con Giulia Sis­sa, le ’dimenticanze’ di virgoletta­ti?

«Ovviamente, sul caso particolare della Sissa non so nulla: all’epoca les­si sì il libro dell’antropologa, Il piace­re e il male, ma poi non mi sono cer­to messo a cercare i riscontri con L’o­spite inquietante di Galimberti. Per quanto riguarda invece i miei testi pubblicati su Avvenire, direi che lì la questione è patente. Quale com­mento vuole che faccia? È tutto lì da vedere. Sono dispiaciuto, sono cose che da certe persone non ti aspette­resti. Poi io ho abbandonato la pre­sa, mi trovavo in una situazione mol­to scomoda: la gente leggeva e se ne accorgeva, molte persone venivano da me e mi dicevano ’guarda che Ga­limberti ha preso da te, ma non rea­gisci?’. Boh, si vedrà, qualcuno se ne accorgerà. E alla fine è successo».

I fatti emersi in questi giorni ri­schiano di gettare un’ombra sull’in­tera opera di Galimberti?

«Certo sono fatti ricorrenti. Tra l’al­tro, al di là delle citazioni letterali, de Gli equivoci dell’anima la cosa che più mi era dispiaciuta era la parafra­si, l’ispirazione teorica. Perché la co­sa più grave in questi casi - non par­lo solo di Galimberti, parlo in gene­rale - non sono tanto le citazioni pun­tuali, che tutti possono evidente­mente controllare, ma la parafrasi dei concetti, l’impossessarsi di un patri­monio di elaborazione. È la dimen­sione più difficile da controllare, e an­che la più pesante per un autore. E la più grave: dal plagio letterale ti puoi difendere, dalla parafrasi no».

Così, è come se due capitoli interi de «Gli equivoci dell’anima» fossero sta­ti praticamente presi di peso da quei suoi lavori?

«Direi di sì. E forse anche l’impianto dell’intero libro».

Tra l’altro, trattandosi di opere filo­sofiche, il debito intellettuale nei confronti dell’elaborazione del pen­siero non è ancora più grave?

«Qui il discorso da fare è un altro: a reagire dovrebbe essere la comunità scientifica. Ci vuole un’etica della scrittura. Purtroppo, io ritengo in ge­nerale che oggi la ricerca sia subal­terna e timida nei confronti dei sog­getti mediatici. E questo, indipen­dentemente da Galimberti, è grave: se davanti al successo la comunità scientifica si intimidisce, il vulnus ri­cade sulla formazione dei giovani. E questo da un punto di vista formati­vo e pedagogico è devastante».

È un limite del sistema accademico e culturale italiano in particolare?

«Direi di sì. Dinnanzi a queste cose si reagisce poco, nel senso che il succes­so mediatico mette soggezione, e quin­di lo si asseconda. Invece la comunità scientifica dovrebbe reagire. Questi e­pisodi vanno contro ogni valorizza­zione dell’originalità di pensiero».

E su «Repubblica» si «ispirava» alle rubriche di «Avvenire»

L e altre sospette affinità tra gli scritti di Galimberti e quelli di Natoli riguardano le rispettive rubriche «I vizi capitali», apparsa su «La Repubblica» nell’e­state del 2001 e poi confluita nel volume «I vizi capitali e i nuovi vizi» (Feltri­nelli 2003), e «Altri termini», uscita in «Agorà» nel 1995-96 e poi raccolta in «Dizionario dei vizi e delle vritù» (Feltrinelli 1996). Nonostante Galimberti a­vesse ben presente la precedente opera di Natoli, tanto da citarne alcuni bre­vissimi passi con le dovute virgolette, spesso trascura di attribire al vero au­tore passaggi anche lunghi, che così si presentano come fa­rina del sacco del filosofo di «Repubblica».

A titolo di esem­pio, riportiamo un brano sull’invida di Natoli e il suo gemel­lo, non virgolettato né attribuito, di Galimberti: NATOLI. «In una società in cui l’inuguaglianza è assunta co­me un dato naturale e intrasformabile, si sarà indotti ad ac­cettare più facilmente la supremazia dell’altro e perciò stes­so sarà più facile tollerare il proprio limite. Non così, evi­dentemente, in una società in cui la disuguaglianza la si ritie­ne innaturale e ancor più prodotto del disordine e dell’ini­quità sociale [...]. Si riescono a trovare buone ragioni per tra­sformare l’invidia in virtù travestendo il sentimento di di­struzione dell’altro in istanza di giustizia [...]. Il non ratificare facilmente il successo dell’altro fa sì che divenga legittimo ri­chiedere all’altro le credenziali del suo successo. E non è detto che chi ha suc­cesso riesca sempre a esibirle».

GALIMBERTI. «Nelle società in cui la disuguaglianza è assunta come un dato naturale si è indotti ad accettare più facilmente la supremazia dell’altro e a tollerare il proprio limite, mentre nelle società dove la disuguaglianza è ritenuta innaturale, se non addirittura il prodotto dell’iniquità sociale, l’invidia può rivestire i panni della virtù e trasformarsi in istanza di giustizia, per cui diventa legittimo chiedere a chi ha successo le credenziali della sua fortuna. E non è detto che chi ha successo riesca sempre a esibirle». (E.C.) La sua serie sui vizi era assai «simile» agli articoli già usciti sul nostro giornale


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